Gli uomini del XXI secolo sono terribili, anzi, il maschio del XXI secolo è terribile. L’ultimo maschio figlio del Novecento, che al nuovo guarda con una chiusura e una durezza crudeli, violente e ottuse. Quel maschio che punta il dito verso le telecamere, sbatte il pugno sul tavolo o lo alza verso il cielo. Un maschio in completa crisi e quindi pericoloso come non mai.

Quel tipo maschio è esattamente quello che è sempre stato oggetto di studio dei film dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, centro nevralgico delle loro ossessioni, nella misura in cui essi cercano di raccontarne la fine, di entrarci in contatto per comprenderlo ed esorcizzarlo. Dostoevskij, l’ultima creatura degli autori in partnership con Sky (al cinema in due atti dal 11 al 17 luglio e poi in streaming in autunno), un lungometraggio di 5 ore più che una serie in sei puntate, è il loro ultimo tentativo di leggerlo, stavolta attraverso la via dello sguardo infantile interno ad esso.

Uno sguardo infantile trasfigurato, dunque, nel suo senso più traumatico e terrificante. Uno sguardo proveniente da un’infanzia interrotta, da uno sviluppo malato e da un’innocenza che nella sua corruzione trova nuovo stimolo solo nella distruzione dell’altro. Uno sguardo infantile sul mondo e sulla condizione umana che può risiedere nel disegno di un bambino, ma anche nella lettera di un assassino. Una simile a quella con cui i fratelli agganciano il loro maschio, interpretato stavolta dallo straordinario Filippo Timi, lo salvano dalla morte e poi lo mettono al centro di una caccia durante la quale lo potranno vivisezionare.

I bambini dentro Enzo e Dostoevskij

Filippo Timi

Enzo in green.

Enzo (Timi) il poliziotto è un sopravvissuto a se stesso. Salvato da un richiamo di morte in un inizio degno del cinema surrealista e che da subito evoca una doppia dimensione tanto cara ai D’Innocenzo, la stessa del momento topico de La terra dell’abbastanza, dell’insolita apertura di Favolacce e del cuore di America Latina: sogno o son desto? Quello che sto vedendo accade davvero? Ha veramente importanza?

Richiamato dalla fine, Enzo il poliziotto ritorna nel non luogo dove vive (essenziale, come potrebbe immaginarlo un bambino, appunto) e si mette all’inseguimento di Dostoevskij, un serial killer che ha mietuto 9 vittime fiaccando la regione per diverso tempo e lasciando dietro di sé solo delle lettere nichiliste in cui parla indica la vita stessa come movente della morte. Per tutti una malattia, uno spettro, il simbolo del marcio che una vita come quella che fanno i suoi giustizieri porta con sé. Per tutti, compreso il veterano capo della polizia Antonio Bonomolo (Federico Vanni), tranne che per Enzo, che invece nel leggere le lettere (alle quali comincerà presto a rispondere) del serial killer vede in lui un sodale terribile, qualcuno in grado di capire la sua anima e di cui, financo, essere geloso.

Dostoevskij: la nuova serie tv dei fratelli D’Innocenzo con Filippo Timi Dostoevskij: la nuova serie tv dei fratelli D’Innocenzo con Filippo Timi
Filippo Timi

Maschi del Novecento.

Catturare il criminale come ragione di vita o ragione di morte? Per una redenzione nei riguardi qualcosa dentro di sé proveniente dal passato o per lasciarsi da ciò conquistare? Il segreto è, ancora una volta, nel bambino mostruoso e nel suo lascito. Sia in quello dentro Enzo, che gli ha impedito di fare da papà a sua figlia Ambra (Carlotta Gamba), e sia in quello che forse è dentro Dostoevskij, magari celato in un terribile orfanotrofio di argentiana memoria. Dario Argento, così come Michael Haneke, Yorgos Lanthimos e Lars Von Trier, è uno dei riferimenti dei D’Innocenzo in questo loro ultimo sforzo.

Enzo e Dostoevskij, duellanti in una “città di figli sbagliati adatta solo a chi non “ha più nulla da perdere” perché lontana da ogni tipo di calore umano, dove le carezze e i baci hanno lasciato spazio a ciò di più spaventoso possa esistere, come il senso di vuoto e di colpa, ultimo regalo del bambino per tenere in vita il suo sé adulto. Lì il bambino la fà da sovrano, emergendosi come un tiranno e muovendo le fila dell’adulto che è diventato.

Una ballata universale e peculiare allo stesso tempo

I D’Innocenzo sono dei costruttori di universi e, come tali, dalla dimensione immaginativa sono partiti, creando per Dostoevskij un linguaggio in grado di parlare ad un pubblico trasversale e non solo di matrice italiana, mantenendo allo stesso tempo un rigore e un rispetto verso la propria poetica che, pur rendendoli divisivi, li ha legittimati di uno spazio innegabile nel panorama cinematografico europeo.

Dostoevskij

Enzo che guarda in faccia Dostoevskij.

Filippo Timi giganteggia, impersonando un uomo solo in un mondo vuoto. Un uomo magro, debole e malato. Un corpo su di un tavolo operatorio che richiama una desolazione esistenziale tipica degli ampi spazi della periferia americana, ma con tutto il grigio e il freddo delle regioni del nord, dove si possono trovare strutture fatiscenti abitate da post umani dallo sguardo spento. Lo spazio della luce c’è solo nei momenti in cui il poliziotto ritorna alla vita, vuoi per mettersi alla caccia del serial killer o vuoi per incontrare sua figlia, fantasticando sulla possibilità di essere ancora suo padre.

Sogni dunque, che quando toccano la realtà si trasformano nel loro opposto, gettando nuovamente l’ombra della disperazione su tutto ciò che l’occhio dello spettatore incontra. Lo sguardo del bambino entra in questo momento, infilandosi tra le pieghe del buio, spiando gli attori alla ricerca di una chiave di lettura per trovarla, alla fine, in un altro dei must del cinema dei D’Innocenzo, la scrittura. La scrittura a mano per la precisione, canale attraverso il quale i due bambini mostruosi dentro i duellanti si parlano e quindi porta di accesso anche per noi che guardiamo.

Dostoevskij

Un padre e una figlia che non sono padre e figlia.

Dostoevksij ha tutto della costellazione cinematografica, emotiva e psicologica dei D’Innocenzo, forse ancora più a fuoco rispetto al passato, data la grande capacità del titolo di raccontare molto con molto poco, magari giusto regalandosi un ampio respiro, quasi meditativo nella prima parte per poi pigiare l’acceleratore sulla seconda, trovando anche un lato action credibile e appassionante. Questa ballata disperata è l’ultimo punto di una filmografia che potrebbe aver trovato il modo di chiudere i conti con diverse ossessioni che l’hanno direzionata fino a questo momento, pur facendo qualcosa di incredibilmente nuovo. Un titolo importante e che rischia di divenire una prova d’autore di pregio per la nostra realtà cinematografica contemporanea, con tutte le sue spigolosità.