La corrente del cinema che si occupa del mondo dell’infanzia è una delle più importanti e variegate della sua Storia – scopriamo l’acqua calda, ce ne rendiamo conto. In questo calderone possiamo però intercettare due componenti piuttosto imponenti complementari, ma differenti: una nata avendo lo scopo di parlare direttamente ad un pubblico di giovanissimi attraverso racconti contenenti degli insegnamenti più o meno a loro misura o, ancora, portatori di una morale e una complessità più trasversale, e un’altra che invece riflette direttamente sull’infanzia, cercando una posizione più analitica. Charlie Chaplin, Hayao Miyazaki, Steven Spielberg, Hirokazu Kore’eda, ma anche Abbas Kiarostami, Ingmar Bergman, Andrej Tarkovskij e François Truffaut fino ad arrivare a Chris Columbus, tanti grandi maestri del cinema hanno avuto a che fare con quest’ultima area, la quale ha al centro quasi sempre il trauma oppure l’elaborazione di un dolore. Anche perché crescere è un dolore, c’è poco da fare.
Un cinema che sfrutta la potenza immaginifica e la qualità catartica del linguaggio audiovisivo per rievocare sensazioni legate alla prima fase (o delle prime fasi) della vita per poi instaurare su di essa una riflessione più profonda. Anche IF – Gli amici immaginari, l’ultima pellicola scritta e diretta da John Krasinski, è un titolo che appartiene proprio a quest’ultima lunghissima ed eterogenea lista di pellicole, ovviamente con delle caratteristiche figlie della tradizione statunitense più pop. Anche se tanti de centri tematici continuano ad essere gli stessi condivisi da altri autori.
Anzi, a ben vedere la pellicola con protagonisti Ryan Reynolds (che ormai sta diventando un habitué in lavori in cui è chiamato ad affiancare un giovanissimo o una giovanissima interprete) e Caley Fleming è pensata per essere quasi una sorta di trattato sul cinema per i più piccoli attraverso una struttura creativa quasi teorica. Il film racconta una storia che funge, infatti, da grande metafora dell’importanza dell’infanzia, utilizzando la tecnica mista per invitare sulla scena quei compagni che ognuno di noi (o molti di noi) hanno creato per avere una compagnia, dando vita ad uno straordinario parallelo tra questa qualità dei più piccoli e le potenzialità della fantasia come prima forza motrice della grande macchina cinematografica.
“Non sono una bambina”
Bea (Fleming) ha avuto un’infanzia segnata da una casa amorevole, una famiglia unita e due genitori che hanno sempre stimolato la sua fantasia, raccontandole storie e, soprattutto, invitando lei a raccontarle a loro, consapevoli che da bambini si attraversa un periodo magico in cui l’immaginazione invade senza limiti la quotidianità.
A dispetto di una prima fase di vita di questo tono, la giovane si trova però a crescere in fretta a casa di un evento incredibilmente traumatico, al punto che ora, dodicenne, non vuole assolutamente che sia messa in discussione una precisa verità: “non sono una bambina”. Lo sa la nonna (Fiona Shaw), con cui Bea vive, e lo sa papà (Krasinski), ricoverato in ospedale per sottoporsi ad un delicato intervento al cuore. Una situazione non facile neanche per chi sta crescendo, anzi, forse soprattutto per chi è già cresciuto.
Destino vuole però che, durante l’attesa, Bea si imbatta nella vecchia videocamera della mamma contente ancora un reperto di quella straordinaria infanzia felice passata in famiglia. Un momento catartico che porterà la dodicenne ad imbattersi prima in una strana creatura e poi ad un uomo, Cal (Reynolds), impegnato ad infilarsi dentro una finestra in compagnia di un enorme creatura dal pelo viola. Lui, come lei, ha il potere di vedere questi esseri chiamati IF, amici immaginari creati dai bambini, e, dato questo potere, ha anche il compito di abbinarli a nuovi padroncini, visto che i loro creatori sono ormai adulti. Come dice di essere anche Bea.
I due uniscono le forze per dare nuovamente un senso alla vita delle tanto dolci quanto spaesate creature fantastiche e scoprono come la soluzione migliore sia quella di riportarli al cospetto dei loro creatori originali, i quali, anche se adulti, conservano qualcosa dentro di loro in grado di riconoscere un legame di cui non hanno mai smesso di avere bisogno.
Un manifesto del cinema sull’infanzia
IF – Gli amici immaginari gira interamente intorno ad un concetto classico del cinema per l’infanzia più immaginativo, commerciale e pop, ovvero dimostrare come essa permetta di avere dentro di sé gli strumenti per affrontare anche i momenti più bui della vita. Il film lo fa abbattendo uno dei nemici più pericolosi di quella precisa fase della vita, ovvero l’assenza di un punto di riferimento, dal momento che racconta come la saggezza insita nei bambini sia così forte da creare, attraverso il cinema, la personificazione di una guida. In questo caso la guida è Cal, talmente importante in questo suo valore archetipico da essere un punto di riferimento anche per gli amici immaginari.
Il loro essere abbandonati rappresenta il peccato originale dell’adulto, ovvero quello di non permettere al bambino di rimanere dentro di noi perché considerato come una debolezza quando invece è proprio lui che può metterci una mano sulla spalla e darci calore e coraggio quando ne abbiamo più bisogno. La pellicola di John Krasinski è anche troppo matematica nelle sue soluzioni metaforiche e narrative, lavorando costantemente per strati: fondamentalmente il titolo sembra andare verso una direzione dopo aver dato un indizio iniziale per poi tornare su di essa dopo un intreccio fatto di continue rivelazioni. C’è però da dire che l’elefante nella stanza nella fattispecie è veramente troppo ingombrante per non essere intuito.
A questa idea di film il regista e scrittore lega una certa idea di cinema, rispolverando il grande classico della tecnica mista, puntando forte sul concetto di famiglia (tra i doppiatori della pellicola ci sono Steve Carell e, soprattutto, Emily Blunt e Blake Lively) e ancora di più sulla capacità del cinema di fungere da amplificatore immaginativo della fantasia umana, sia essa adulta che infantile. Un cinema di sentimenti, dato che li utilizza come centri di energia grazie ai quali dilatare la propria forza.
In sostanza IF – Gli amici immaginari unisce la qualità immaginifica che appartiene solo al cinema e la rende metafora di quella che appartiene solo all’infanzia per creare una favola dai meccanismi narrativi classici e cercare di insegnare allo spettatore che anche quando si cresce non bisogna mai dimenticare di rimanere un po’ bambini, specialmente quando e nonostante quando si affrontano dei momenti di crisi. Mettendo, di fatto, in discussione la frase che la piccola / grande Bea pronuncia come uno scudo quando si interfaccia con il mondo reale.