La serie de Il Pianeta delle Scimmie è iniziata con il romanzo La Planète des Singes dello scrittore francese Pierre Boulle del 1963, rivelandosi uno dei franchise più di successo dell’ultimo periodo. Questo nono capitolo Il Regno del Pianeta delle Scimmie, nei cinema dall’8 maggio, è un collegamento tra la “nuova” trilogia e il romanzo originale, focalizzandosi di nuovo sul concetto di evoluzione.
Ci sono serie e film che possono essere esplorati in lungo e in largo con la chiave giusta senza mai stancare: l’esempio lampante è probabilmente Il Pianeta delle Scimmie una delle saghe più longeve e coinvolgenti degli ultimi decenni. Facendo un endorsment, sin dall’inizio, posso affermare di essere un grandissimo appassionato di questa saga fantascientifica, sin dal romanzo di Pierre Boulle che nella sua brevità affronta delle tematiche uniche mai rivisitate in altre situazioni letterarie, ecco perché questo mondo distopico, dove la scimmia esplora l’animo umano, è per me sempre un momento di alta riflessione.
Iniziata nel 1968 con l’opera seminale di Franklin J. Schaffner, il successo decisamente “planetario” de Il pianeta delle Scimmie ha inevitabilmente dato vita a un sfruttamento massiccio del franchise (anche se allora non si chiamava ancora così) probabilmente per la prima volta nella storia tra sequel, serie Tv, fumetti e nuovi romanzi, non fermandosi soltanto agli anni settanta, ma anche con sequel (il brutto capitolo di Tim Burton) fino a una nuova saga cinematografica ad opera di Rupert Wyatt e Matt Reeves, che rielabora gli aspetti socio-politici di allora per riscriverli nell’ottica di tempi più moderni, ma continuando a fare da monito all’uomo sulle possibili conseguenze di un approccio sbagliato nei confronti di se stessi, ma anche del pianeta in cui viviamo.
La suggestione di Boulle, contestualizzata negli anni sessanta, serve per privare l’uomo di ogni sovrastruttura e metterlo di fronte alla sua stupidità; nel libro si costruisce un racconto filosofico, politico e sociologico dal meccanismo perfetto, con una storia che è un sunto di paradossi temporali e metafore ecologiste che però viene permeata di mistero grazie ad una fotografia e ad una scenografia che sanno avvolgere la narrazione di un luminoso mistero ed una strisciante inquietudine, sempre attuale in ogni sua pagina. Schaffner dal punto di vista cinematografico invece è abilissimo a gestire i risvolti introspettivi dei personaggi con espedienti narrativi che hanno fatto scuola, senza dimenticare le scene che sono rimaste nell’immaginario collettivo come l’urlo di Charlton Heston ai piedi di una Statua della Libertà distrutta.
Detto questo le mie aspettative per il nuovo capitolo di questa saga erano abbastanza alte, e se volete leggete la nostra recensione, ma prima di addentrarci ne Il Regno del Pianeta delle Scimmie un piccolo passo indietro credo che sia doveroso. La serie è iniziata appunto con il romanzo La Planète des Singes dello scrittore francese Pierre Boulle pubblicato nel 1963. Boulle scrisse il romanzo in soli sei mesi, dopo che le “espressioni umane” dei gorilla nello zoo lo ispirarono a contemplare il rapporto tra uomo e scimmia. Il Pianeta delle Scimmie è stato fortemente influenzato dai racconti fantastici di viaggi del XVIII e XIX secolo, in particolare modo i satirici I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift.
Boulle fa un uso realistico della scienza nel libro, con vari riferimenti a teorie scientifiche con la principale che è ovviamente la teoria darwiniana dell’evoluzione, ripresa e capovolta su Soror, il pianeta dove sono le scimmie ad aver raggiunto il maggior grado evolutivo. Un’altra teoria utilizzata è quella della relatività anche se lo stesso Boulle rifiutò l’etichetta di fantascienza per il suo lavoro, definendola “fantasia sociale”. Giusto per far chiarezza sulla storia, dal quale sono decenni che si “raccontano” le vicissitudini tra scimmie e umani, il romanzo è una satira sociale e segue le vicende del giornalista francese Ulysse Mérou, che partecipa a un viaggio in un pianeta lontano dove gli uomini sono senza parole, ridotti come animali e vengono cacciati e schiavizzati da una società avanzata di scimmie.
Vi sono inoltre in queste situazioni anche una serie di esperimenti sugli animali (ovviamente gli animali sono gli uomini), come ad esempio gli esperimenti di Pavlov proprio per rimarcare, in quel dato momento storico, lo sfruttamento ai limiti dell’etica sugli animali stessi. Alla fine lo stesso giornalista scopre che gli esseri umani una volta dominavano il pianeta fino a che la loro compiacenza non permise alle scimmie più industriose di rovesciarlo. Il messaggio di Boulle piace così tanto perché nella sua semplicità è sempre attuale e non risulta mai obsoleto: l’intelligenza umana non è una qualità fissa e può essere atrofizzata se presa per scontata.
Attenzione, se non avete ancora visto Il Regno del Pianeta delle Scimmie, da qui in avanti sono presenti spoiler della trama.
La lotta tra involuzione ed evoluzione
Quando a metà dell’Ottocento Charles Darwin ha iniziato a divulgare il concetto di evoluzione, nella testa della maggior parte dei suoi contemporanei si accese un allarme rosso, che conteneva la parola opposta: “involuzione”. La strada delle speranze progressiste è lastricata di catastrofici timori che riguardano la possibilità di ruzzolare all’indietro. Se alcuni pensavano che l’essere umano si potesse evolvere fino a diventare un essere superiore, in molti temevano che imboccando la stessa identica strada, ma in senso inverso, sarebbe tornato a essere una scimmia.
Per Darwin l’evoluzione è il modo in cui gli esseri viventi sono cambiati, e continuano a cambiare, nel tempo. Per diventare com’è oggi, ogni specie di essere vivente si è evoluta ed è per questo che ci sono svariate e incredibili forme di vita sulla Terra. Tuttavia è la storia che ce lo racconta, la scimmia e il superuomo sono una coppia di fatto da centinaia di anni; chiaramente con tutto il rispetto per le scimmie, che sono certo rinuncerebbero volentieri all’idea di accompagnarsi a un bullo con un cervello più evoluto (solo sulla carta) rispetto al loro. Riflettere su questo assioma è importante perché nell’arco della prima “nuova” trilogia de Il Pianeta delle Scimmie il concetto di evoluzione era presente e percorreva un grafico, se volessimo usare la matematica, in salita dove man mano che Cesare cresceva, espandeva la sua conoscenza e la elargiva al resto del clan facendolo diventare sempre “più evoluto” appunto.
Il Regno del Pianeta delle Scimmie ci catapulta “diverse generazioni” dopo e ciò che salta all’occhio è invece una piccola involuzione da parte delle stesse scimmie, molto più vicine al concetto di vivibilità in piena sintonia con Madre Terra (non è un caso che il villaggio sia molto simile a quelli dei Nativi) ma con un pizzico di razionalità perduta: non sanno più leggere e hanno dimenticato a parlare correntemente.
Ma questo fa parte del concetto di evoluzione stessa ben specificato prima, e qui salta fuori la prima grande questione: è involuzione saper ascoltare la terra, e magari dimenticare la lettura, vivendo in sintonia con essa o è consapevolezza del proprio ruolo all’interno del Pianeta? La parola Selvaggio, estrapolata dal concetto negativo che l’uomo bianco gli ha donato, significa letteralmente “chi vive o cresce libero nella selva” e non potrebbe essere un’evoluzione tornare selvaggi in qualche modo? Ne Il Regno del Pianeta delle Scimmie il rapporto tra Noa e l’umana Mae (i due protagonisti) ci fa ben intendere che la vita nella selva riesce a portare armonia e invece il continuo ricercare il progresso porta alla disunità; un tema ecologista lineare, ma sempre di molto effetto nell’epoca dell’AI.
Lo stesso Proximus Caeser, la scimmia despota Re, è ossessionato dall’aprire il “deposito”, certo che troverà la risposta a tutti i suoi problemi e da buon autocrate non usa mezzi termini per rimarcare la sua scelta, uccidendo scimmie e trattandole addirittura da schiave venendo meno alla parola del volere del primo Cesare che sognava una vita tra scimmie senza attriti. Il suo atteggiamento, apparentemente evoluto, è vicino agli animi umani classici di personaggi di questo tipo dove la prevaricazione, il perseguimento di falsi ideali, il rivoltare un messaggio e piegare la storia a proprio vantaggio diventa il focus principale del proprio io. Ne Il Regno del Pianeta delle Scimmie la natura è benevola, mentre il ferro e l’acciaio è avverso, la foresta accoglie, mentre un villaggio costruito sui detriti di antiche navi cargo divide: la terra contro il progresso, dove sta l’evoluzione?
Ci sarà equilibrio tra le specie?
Chi è più evoluto tra la scimmia che vuole conoscere cosa c’è dentro un “deposito” apparentemente misterioso o una scimmia che vuole tornare a casa con il suo clan per allevare aquile e vivere i frutti della terra? La risposta ad una domanda posta in questo modo è fin troppo scontata, ma la verità tuttavia è sempre nel mezzo, la verità sta nella ricerca dell’equilibrio. Sembra che il ruolo di questa saga sia proprio quella di far riflettere sul concetto di evoluzione in tutte le sue sfaccettature. Seppur Il Regno del Pianeta delle Scimmie risulta più debole rispetto ai suoi precedenti capitoli, la realizzazione del worldbuilding (ispirandosi palesemente alla narrazione di Avatar) ci vuol far intendere che il passaggio degli anni può donare una diversa accezione di cambiamento. Il loro riappropriarsi della terra, il loro ascoltare il cielo e le aquile da un lato li riporta ad una linearità spirituale ancora distante dall’idea da cui Boulle intendeva la società delle scimmie, cioè tecnologicamente avanzate e molto più razionali dell’uomo, ma molto interessante dal punto di vista sociologico.
Il tema di Boulle è stato rimodificato e “migliorato” per renderlo ancora più attuale, perché L’Alba del Pianeta delle Scimmie è stato realizzato nel 2011 e in quella pellicola si parlava di pandemia (curioso no?). Era infatti un virus umano, al contrario di tanta fantascienza accompagnata da catastrofismo, che ne L’alba del Pianeta delle Scimmie infettava i primati e li rendeva più senzienti e più ragionanti di quanto ci si aspettasse. Era l’inizio della rivoluzione per il film diretto da Rupert Wyatt, dove la scimmia-neonata, salvata e messa al riparo, era destinata a portare il suo popolo alla liberazione, lasciando un’eredità di cui il quarto progetto della saga cerca di omaggiarne la memoria. Ma nell’evoluzione, e involuzione della specie, si gioca anche sotto un altro punto di vista: nella dialettica schiavo–padrone in cui nella meta-narrazione anche i film giocano a far finta di essere “schiavi” della saga originale per poi mostrarsi perfettamente padrone degli eventi, con gli stessi protagonisti ovviamente che più volte si appropriano di questo rapporto.
Sì è vero la storia risulta a tratti lenta e con un ritmo altalenante, ma tutto è confezionato nella miglior cura per donare allo spettatore il tempo trascorso nel Pianeta, il tempo che le scimmie hanno a disposizione per evolversi e riascoltare i rumori della terra, ma soprattutto il tempo per far riavvicinare uomo e scimmia in un nuovo temibile incrocio (soprattutto per i primati). Quindi questo capitolo di raccordo tra varie trilogie, nella sua lentezza è funzionale allo scopo, perché è uno specchio all’interno della “nuova” società trovando la propria dimensione narrativa in uno spazio apparentemente lontano. In un mondo di scimmie, vige un vero e proprio ribaltamento di prospettiva, dove la componente umana è sopraffatta da quella animale, si porta avanti l’assioma che se la scimmia vuole diventare uomo ne acquisirà anche tutti i suoi difetti; un’avventura lenta come i classici western degli anni sessanta, che nella ricerca, nella parola e memoria parla a tutte le generazioni e che vuole fungere da monito per il futuro.
E’ proprio con la scena più straordinaria di tutta la saga, che entrerà di diritto nella storia del cinema, che questo dilemma sorge e si insinua nel cuore di Noa. Il suo sguardo preoccupato, quando è intento ad osservare attraverso il telescopio l’Universo, esprime proprio questo terrore: che l’esistenza umana possa determinare non tanto una nuova convivenza equilibrata e riassestata, quanto una totale supremazia e riappropriazione degli uomini che porterebbe alla fine del regno delle scimmie. In tutto ciò l’umana Mae? È una ragazza che sta lottando per la causa delle scimmie e di sicuro la sua figura di spartiacque sarà determinante per stabilire la posizione dell’ago della bilancia, ma ci sarà un equilibrio pacificato fra le due specie, o vigeranno le leggi dello scontro e della subordinazione?