In qualsiasi vita artistica arriva il momento in cui ci si trova di fronte al fatto che bisogna fare i conti con il proprio cambiamento. Ovviamente questo aspetto viene evidenziato quando al centro di ciò che ti dà da vivere ci sei dichiaratamente tu, come nel caso di Michele Rech (in arte Zerocalcare), che, come tanti altri prima di lui, ha fuso la sua vita e la sua arte, esponendosi a tutto ciò che comporta fare una narrazione di se stessi. Nel bene e nel male.

E Zerocalcare è cambiato (dopotutto ha fatto due serie su Netflix), per quanto ad un primo acchito possa sembrare lo stesso. Per quanto lo possano suggerire i personaggi che ritornano ogni volta, i soliti viaggi che da reali diventano viaggi dentro se stessi, le solite ellissi narrative, l’ironia apparentemente caustica, ma sempre dolce e quel continuo senso di doversi formare, guardare. Zerocalcare è cambiato e Quando muori resta a me lo dimostra, perché è la prima storia in cui l’autore prende consapevolezza del fatto che oramai ha 40 anni.

Crescere però non vuoldire non continuare a porsi delle domande su noi stessi, appoggiando delle volte anche il bambino interiore, quello che ha bisogno di fare i capricci e farsi guidare da mamma e papà, ma porsele da un’altra prospettiva. Avere il coraggio di aprire altri canali del proprio Io e del proprio vissuto e, nel caso di Michele Rech, aprirli anche agli altri. La più grande dote dell’arte di Zerocalcare è quella di riuscire a fare da specchio per tutti i suoi lettori (o spettatori, dopotutto ha fatto due serie su Netflix).

Caro papà

A dieci anni di distanza da Dimentica il mio nome, che era un lavoro dedicato al ramo materno della famiglia, con Quando muori resta a me Zerocalcare decide di scrivere una lettera d’amore non banale (ma Zerocalcare non è mai banale) al papà. Si tratta di uno snodo fondamentale perché prende in esame una eredità maschile, ovvero qualcosa che presuppone l’elaborazione di una stagione della propria vita e che, in più, proviene da una componente che nel suo percorso artistico l’autore non aveva mai realmente affrontato, ma solo accarezzato.

Quando muori resta a me

Nel farlo amplia il discorso, andando ancora più indietro rispetto alla sua vita e spingendosi fino al secolo scorso, all’epoca della Prima Guerra Mondiale, così da fondere in modo più netto micro e macro, particolare e universale, realtà e fumetto. Due entità, queste ultime, che si toccano più volte nel corso della vicenda fino a guardarsi negli occhi in uno dei momenti più alti. Quando questo accade cambia il tratto, così come lo cambia quando la narrazione torna indietro nel tempo.  Nei momenti in cui la storia si sposta così in là, infatti, si modifica anche il linguaggio (elemento vitale per Zerocalcare), il modo con cui costruisce l’azione, il tono, improvvisamente più grave, fino alla posizione dello sguardo per inquadrare la scena. Così facendo Rech mostra come ci sia qualcosa che si sta muovendo dietro il suo solito immaginario.

In questo ping pong tra passato e presente la storia pende la forma finale, che è quella che racconta di un viaggio padre-figlio fatto di non detti, di silenzi e di tanto affetto. Un tipo di affetto che nasce dalla condivisione silenziosa (o condita da musica anni ’70) di spazi comuni, intimi e carichi di emotività, come la casa di famiglia nel paesino di montagna di Merìn. Stanze del cuore aperte per entrambi pur nella frustrazione di non riuscire ad avere un argomento o in un interesse in comune. Un amore muto, ma che non si quieta neanche quando ci si allontana e che forse ha nella sua incapacità di divenire verbale la sua caratteristica più peculiare.

Zerocalcare incontra Michele

Quando muori resta a me, come tutte le storie di Zerocalcare, deve essere collocato in un contesto più ampio, che è quello della vita del suo autore e del suo percorso di crescita senza fine. In questo quadro esso costituisce una prova incredibilmente matura, nella quale vengono miscelati il solito lavoro autobiografico e psicanalitico con una visione più esterna e oggettiva delle problematiche del maschio quando si parla della grammatica emotiva. Un processo che alle estreme conseguenze distrugge l’autonarrazione arrivando all’autorappresentazione. Insomma non c’è più differenza tra Zerocalcare e Michele Rech.

Al centro della vicenda c’è la necessità del ricordo come esercizio per recuperare le tracce di un lascito e così comprenderlo meglio, ma solo per riuscire, come conseguenza, a fare i conti con noi stessi, senza per questo dover per forza arrivare a cambiare qualcosa. Comprendersi, conoscersi e raccontarsi sono più o meno i mantra dell’autore romano, che sente, evidentemente, il bisogno di raccogliere nuove parti di se stesso per fare un punto e andare avanti. Forse siamo solamente all’inizio di un processo che sta naturalmente prendendo corpo nell’autore e che lo porterà ad una nuova fase del proprio percorso artistico.

Quando muori resta a me

Una fase che suggeriva già il finale della serie Questo mondo non mi renderà cattivo, in cui parlava del senso di colpa come manifestazione della consapevolezza di essere ormai in uno stato diverso rispetto al precedente. In quel frangente la lente era puntata sul successo, in questo sull’età. Michele è forse meno puro, meno straight edge, ma è più solido e più navigato. Il suo è ora un punto di vista complesso e che cerca la complessità, mettendo in discussione se stesso al punto da cercare di spezzare l’idea di eterno protagonista di storie vessate dal groviglio esistenziale dell’adolescenza.

Ecco il senso del titolo: “Quando muori resta a me perché io voglio essere pronto ad accoglierti”, con il pieno di tutto il bene e di tutto il male che porti. Sono pronto ad accoglierti e, casomai, anche a ricostruire con quello che mi lascerai. Accogliere l’eredità paterna e quindi uno Zerocalcare / Michele che con l’essere uomo vuole fare i conti, ragionando anche sul tema della genitorialità, sul peso che comporta e i mostri che evoca, alcuni dei quali devono essere affrontati da soli, come ha fatto suo papà per tanto tempo. Ennesima prova di grande livello del fumettista, che si apre ancora di più, cercando di andare oltre le forzature e le semplificazione del suo alter ego per provare a sguazzare un po’ di più nel mare monstrum della vita vera. Anche se significa sentirsi un extraterrestre.