Hayao Miyazaki è un regista che si è dato sempre l’obiettivo di fare “film per bambini“. La struttura dei film, il suo modo di pensarli antimanichei e per mappe tematiche, senza mai curarsi troppo dell’immediatezza delle rispettive trame, ma dando la priorità al sottobosco emotivo di quello che raccontava; tutto è mirato sempre a quel focus. Ci sono dei topoi presi dalla letteratura dell’infanzia più vicina al pensiero del Maestro, gli elementi naturali e la sua autobiografia, spesso intrecciata con l’universalità della Storia giapponese, come capita ai grandi narratori. Il resto è vita, cioè ciò che definisce, anche ontologicamente, il cinema d’animazione.
Il ragazzo e l’airone (qui la nostra recensione) è però uno dei film di Miyazaki più complessi all’interno del quale orientarsi (abbiamo analizzato i suoi significati qui) innanzitutto perché si tratta di un ritorno dopo dieci anni, durante i quali sono successe tante cose (tra cui la morte di Takahata Isao, il punto di riferimento del Maestro), e soprattutto perché si tratta di un ritorno che vuole concludere il discorso iniziato che si è cominciato a fare dieci anni prima. Non un semplice nuovo inizio, né un semplice commiato, ma un nuovo capitolo.
Il resto è vita, cioè ciò che definisce, anche ontologicamente, il cinema d’animazione.
Il nuovo film dello Studio Ghibli è dunque una pellicola che mischia l’autobiografia di Miyazaki, una summa dei suoi film più importanti e dei riferimenti letterari che più gli stanno a cuore, ma riflette anche sullo stato della sua arte e sulla funzione del suo immaginario nel mondo contemporaneo, dove tutto è cambiato rispetto a quando ha cominciato a costruirlo. Metaforicamente lo riaffronta in modo “sincero” (Mahito vuol dire proprio questo) immergendosi di nuovo al suo interno, trovando un universo dantesco costruito con delle pietre tombali. chiuso in continuo ciclo di vita e di morte e mosso da una guerra ormai senza soluzione di continuità.
Un enigma che fa veniva il mal di testa al solo pensiero, eppure, soprattutto grazie al finale, Il ragazzo e l’airone fornisce allo spettatore una chiave di lettura che ci fa capire (come capitato per esempio anche ne Il castello errante di Howl, la pellicola che più assomiglia a questa per la sua natura labirintica) ricordando a tutti l’intenzione a monte: “fare un film per bambini“.
Catabasi miyazakiana
Per “catabasi” nel mondo greco si intendeva “la discesa dell’anima di un vivo nel mondo dei morti”. Uno dei miti più importanti e significativi che la rappresenta è quello di Orfeo e Euridice, non a caso anche uno dei più messi in scena nella Storia del cinema.
Un’immagine universale che Jung traslò nel suo pensiero per rappresentare il viaggio dentro se stessi per affrontare i propri archetipi sulla strada dell’inconscio collettivo e poi risalire, illuminati dalla conoscenza di noi stessi per ricominciare a ricostruire con gli elementi scoperti al proprio interno. Basterebbe questo a spiegare l’intero senso de Il ragazzo e l’airone. D’altronde è proprio Miyazaki a “confessarci” questa soluzione citando il film figlio del pensiero junghiano per eccellenza, ovvero 8½ di Fellini. C’è proprio un’immagine chiave che lo ricorda, noi ve la lasciamo qua sotto.
Per “catabasi” nel mondo greco si intendeva “la discesa dell’anima di un vivo nel mondo dei morti”.
Il primo archetipo che il protagonista affronta è l’airone cenerino, rappresentante il doppio al nostro interno (bellezza e mostruosità), guida all’interno del mondo dove egli diventa un Virgilio atipico accanto a Caronte e Beatrice. Tutti i volti all’interno della Torre (di Bollinghen) uniscono l’universalità del loro significato semantico e la specificità che li lega alla storia personale che è di Mahito e, di conseguenza, di Hayao Miyazaki. Questo anche ce lo confessa il Maestro, facendo comparire nella pellicola il libro da cui è tratta “E voi come vivrete?“, ma in una versione in cui non c’entra nulla con l’originale, ma, anzi, racconta proprio la storia che vedremo nel film.
Il finale è coerente con questo percorso ed è proprio in questa sua fedeltà alla struttura che Miyazaki sorpassa i suoi coetanei cineasti. La maggior parte di loro infatti (con le dovute eccezioni) negli ultimi anni ha messo in scena una riflessione sulla morte, spesso costruita attraverso l’atto del guardarsi indietro, non riescono a mettersi da parte per lasciare spazio al futuro, cosa che qui non solo avviene, ma diventa anche l’evento necessario affinché tutto quanto il resto acquisti la sua forma definitiva.
Una pietra presa a caso
Mahito è una proiezione di Miyazaki. Un suo alter ego molto vicino alla sua biografia, nel quale trasla la mancanza materna, il dolore per il vuoto e la difficoltà di dialogo con il padre, ma portando tutto alle estreme conseguenze.
Il protagonista perde la madre nell’incendio dell’ospedale dove era ricoverata a causa di una malattia e nell’affrontare il suo viaggio all’interno di sé deve riuscire a trovare gli elementi per elaborare questo lutto. Il suo prozio, padrone di quell’universo fantastico, è la proiezione di Takahata presente in Miyazaki e, di conseguenza, la proposta che l’uomo fa al bambino di diventare suo erede è un modo in cui il Maestro rilegge quel passaggio che c’è stato tra lui e Paku-san. Mahito ha bisogno di elaborare il lutto materno così come Miyazaki ha bisogno di elaborare il lutto per la perdita del suo riferimento artistico. L’esito di questo percorso viene sublimato nel destino che avrà il mondo sommerso che null’altro è che il mondo dello Studio Ghibli.
Mahito è una proiezione di Miyazaki.
È ancora cervellotico, proviamo a fare il passo definitivo. Il già citato Il castello errante di Howl trova il suo senso nella storia di un bambino che per combattere il dolore della solitudine stringe un patto con un demonietto infuocato, che viene sciolto dall’amore della protagonista, in virtù del fatto che il suo sbocciare pone rimedio alla sua vita solitaria. Una lettura da film di infanzia che può essere applicata anche nel nostro caso.
Il ragazzo e l’airone si lega a Si alza il vento nella misura in cui quest’ultimo rifletteva sulla necessità di vivere per poter morire e questo invece fa esattamente il contrario. Per ribaltare la frase di Paul Lavery, “bisogna tentare di morire” in modo da accompagnare il nuovo, rinforzarlo, legittimarlo e infine dargli modo di emanciparsi. Mahito elabora il lutto della madre accettando la sua guerra interiore (“io sono malvagio” dice il ragazzo) per poi rifiutare la proposta di divenire l’erede di suo zio (e di divenire copia di un passato che deve terminare) portando con sé, nel suo mondo, una pietra presa a caso al posto delle tredici selezionate nel tempo e nello spazio. Una pietra, una cosa minuscola, per costruire la sua vita. Una chiave di lettura dalla potenza incredibile e degna di un film per bambini.