Christopher Nolan non è il primo regista che decide, nell’era del digitale, di affidarsi a una lavorazione analogica del proprio film; non è nemmeno la prima volta che il regista inglese ricorre a questa procedura, perché già in Dunkirk l’intero sbarco degli Alleati era stato raccontato con una pellicola da 70mm, che adesso abbiamo potuto ritrovare in Oppenheimer. Le motivazioni che si celano – ma nemmeno troppo – dietro a questa scelta sono figlie di una visione ben specifica dell’arte cinematografica e soprattutto dell’esigenza, nella chiave di lettura di ciò che è il cinema, di raccontare degli eventi in un modo particolare. Non sarà questa la sede di quei discorsi filosofici sul perché scegliere una pellicola o meno, ma è questo il momento in cui vi spieghiamo perché Nolan ha deciso di girare Oppenheimer usando una pellicola da 70mm ed è anche il momento in cui ve la mostriamo, grazie al “dietro le quinte” che ci ha permesso Arcadia Melzo, il cinema in provincia di Milano che può offrirvi quest’esperienza unica.

Cosa sono i 70 millimetri?

La pellicola da 70mm è un formato cinematografico che utilizza un nastro, come potete immaginare, di una larghezza corrispondente a 70 millimetri: quella standard è di 35, invece. La maggior superficie concede al regista, e di conseguenza anche al film stesso, di ottenere una maggior qualità dell’immagine e anche dei dettagli, dalla profondità dei colori fino a una risoluzione maggiore, comportando però delle sfide tecniche non indifferenti. Se i primissimi piani su Cillian Murphy, che interpreta Oppenheimer, si esaltano grazie alla qualità della pellicola stessa, dall’altro lato le problematiche logistiche mettono sicuramente dinanzi a un’importante sfida il regista, sia produttiva che economica. Una pellicola da 70mm, oltre a essere costosa, richiede l’impiego di risorse umane, per il trattamento e per la lavorazione: basti pensare che l’ultimo film di Nolan consta di 9 diverse bobine, per un peso totale di più di 200 chili di pellicola. Al di là di quello che può essere il trasporto di questo materiale, c’è da tener conto che la pellicola, diversamente dal digitale, va costantemente controllata dall’operatore in sala proiezione e non ci si potrà limitare a premere un tasto di avvio: al termine della prima bobina bisognerà essere pronti con la seconda, regolarmente raccordata con un apposito strumento, recuperato dal cinema post-classico. Sembrano sciocchezze, ma non lo sono nel momento in cui tutto il procedimento deve essere perfetto, per non depauperare l’esperienza dello spettatore in sala.

Una delle bobine della pellicola di Oppenheimer

Va da sé che la pellicola da 70mm richiede dei macchinari appositi per poter essere usata, tanto nella proiezione quanto nella ripresa: le attrezzature sono ingombranti, non tutti i cinema possono permettersele e noleggiarle per una produzione significa spendere somme importanti. Con una maggior area d’immagine, inoltre, la profondità di campo della pellicola è più ridotta rispetto ai formati più piccoli, come può essere il 35mm: questo significa che avere una messa a fuoco ben precisa è più complesso, soprattutto nei movimenti rapidi e con i soggetti in primo piano e sfondo lontano. Aggiungiamo anche che la pellicola è fisicamente vulnerabile e soggetta a un’usura molto più rapida di qualsiasi altro formato, col rischio che polvere, esposizione alla luce ne possano compromettere la qualità. Va da sé che Nolan non è uno sprovveduto e Oppenheimer, per quei cinema che non hanno la capacità di proiettare il film in IMAX, verrà distribuito anche in formato digitale: non sarà il formato pensato in origine, ma sarà un ottimo modo per rendere accessibile a chiunque la visione.

I precedenti e le novità di Nolan

Oltre Christopher Nolan anche Quentin Tarantino ha di recente sperimentato l’utilizzo della pellicola 70mm, precisamente in The Hateful Eight (2015) e poi con One Upon a Time in Hollywood (2019). Nolan ci aveva già lavorato per Interstellar, oltre al già citato Dunkirk e citiamo anche The Master (2012) di Paul Thomas Anderson, che per il suo dramma psicologico ha voluto esaltare l’estetica dei suoi personaggi usando la pellicola da 70mm, un aspetto che proprio Nolan adesso ha voluto mettere al centro della sua messa a fuoco: d’altronde Oppenheimer è la storia di un uomo, non di un evento. Non fermiamoci a questo, però, perché parlando di pellicola non possiamo non soffermarci un attimo anche sulla questione dell’aspect ratio (il rapporto fra le due dimensioni principali di una figura bidimensionale). Non è un argomento di grande discussione in ambito cinematografico, soprattutto perché è raro ritrovarsi dinanzi a delle scelte registiche particolari e tali da concederci delle digressioni a riguardo: Xavier Dolan nel suo Mommy aveva deciso di gestire la prima parte del suo film con un aspect ratio 1:1, salvo poi sfruttare narrativamente il passaggio a 1,85:1; a settembre (in America è già uscito) anche Asteroid City di Wes Anderson giocherà con i passaggi all’1:1 per alternare diversi momenti cinematografici della sua ultima lavorazione.

Il proiettore usato per Oppenheimer

L’aspect ratio che ci permette di avere la pellicola da 70mm, invece, è di 2,2:1 (siamo quasi nell’ordine di un widescreen), grazie al fatto che la pellicola è molto più ampia dei 35mm ma è perforata nelle stesse sue modalità. Oppenheimer, a sua volta, figlio di una combinazione di una pellicola IMAX da 65mm e una pellicola da 15 perf IMAX, ossia con le perforazioni posizionate in cima e in basso, invece che sui lati, riesce ad andare oltre anche le più canoniche nomenclature della pellicola 70mm, arriva a una qualità che potrebbe essere anche dieci volte superiore ai formati standard, coprendo tutto ciò che lo schermo IMAX ha a disposizione, senza lasciare nemmeno un buco. Le sequenze girate da Nolan quando presentate su una normale pellicola da 70mm arrivano in formato nativo, mentre le sequenze IMAX sono state otticamente ridotte a 70mm 5-perf (5 perforazioni laterali per frame) per poter avere una risoluzione senza grana. Non vi tediamo ulteriormente con i tecnicismi: basta sapere che questa lavorazione assicura al fotogramma uno spazio più ampio, attraverso un processo fotochimico che preserva il colore analogico originale ed esalta qualsiasi dettaglio proposto a schermo. Per la prima volta, inoltre, Nolan ci ha permesso di ammirare delle scene realizzate in bianco e nero con una pellicola IMAX.

Una pellicola 70mm (a sinistra) e una 35mm (a destra) a confronto

Non è solo una questione di immagine, ma anche di suono: così come Tarantino per il suo The Hateful Eight, ma anche Lawrence d’Arabia nel 1962, Oppenheimer sfrutta 6 canali sonori incisi su quattro piste magnetiche sulla pellicola poi usata dalla fotocamera IMAX MSM 9802, messa tra le mani di Hoyte van Hoytema, che già l’aveva gestita per Dunkirk e Interstellar. Nolan, stavolta, ha fatto qualcosa di davvero incredibile, soprattutto nel momento in cui ha deciso di non affidarsi alla CGI per il test Trinity: nulla di irreale, ma tutto vero, tangibile, percepibile. Per farlo Scott Fischer si è affidato alla prospettiva forzata (sì, quella usata da Peter Jackson per creare gli hobbit ne Il Signore degli Anelli), una tecnica che gli ha permesso di riprodurre in miniatura la bomba atomica per poi scalarla in dimensioni epocali, avvicinando il tutto alla camera per renderlo il più grande possibile. Benzina e propano, con polvere di alluminio e magnesio per imitare quel lampo accecante dal quale tutto il team di Oppenheimer si deve nascondere. Ci dispiace avervi distrutto la magia, ma il cinema di Nolan è così: artigianale, come un tempo, nostalgico, vero, pronto a raccontare qualcosa in cui possiamo davvero credere. È una finestra sul mondo, ma vi avevamo promesso niente discorsi filosofici. Solo fredda, pura tecnica.

Si ringrazia Arcadia Melzo per averci concesso la possibilità di fotografare la strumentazione e la pellicola di Oppenheimer.