Delta, intervista a Michele Vannucci: “un tentativo di creare immaginario”

Delta è il secondo lungometraggio del regista Michele Vannucci, esordiente sei anni fa con Il Più Grande Sogno, una storia biografica sfumata con il fiabesco in cui si parlava di riappropriazione della propria vita all’interno di una comunità della periferia romana. Un debutto figlio di un’idea precisa, che ha restituito al pubblico un professionista consapevole del mezzo cinematografico, soprattutto per la sua capacità di sfruttare il genere per fare cinema popolare, ma rimanere comunque agganciato ad un certo tipo di autorialità.

Questa sua seconda fatica, prodotta da Groenlandia, Kino Produzioni e Rai Cinema e disponibile nelle sale dal 23 marzo 2023 con Adler Entertainment, è una sorta di contraltare rispetto all’opera prima. Un racconto più oscuro, dark, meno sognante, pur avendo comunque ereditato diversi nuclei creativi, soprattutto per quanto riguarda la sfera emotiva del regista. In entrambi i casi infatti c’è una vicinanza enorme tra il rigore del cinema di genere e il coinvolgimento personale di Vannucci, anche se stavolta lui e il suo team hanno deciso di alzare notevolmente l’asticella, ampliando l’orizzonte della loro visione cinematografica e cercando di creare immaginario.

Una sorta di sfida / invito al pubblico italiano che si sta abituando ad una riscoperta del cinema di genere, ma che qui si trova di fronte ad una creatura ancora più particolare (originale, anzi, meglio originale, specialmente pensando al nostro mercato attuale), sia per la struttura del racconto che per i due nomi grossi coinvolti nel progetto.

Uno è Alessandro Borghi, con il quale Vannucci aveva già lavorato nel suo lavoro precedente, e l’altro è Luigi Lo Cascio. Due icone appartenenti a due generazioni differenti e a due scuole drammaturgiche differenti e il cui scontro, anche solo dal punto di vista fisico, è suggestivo e interessante.

Abbiamo avuto la possibilità e la fortuna di poter incontrare Michele Vannucci, con il quale abbiamo cercato di analizzare questo “film strano“, come lo ha definito lui stesso, che tanto può rappresentare per il cinema italiano da un punto di vista della visione e, perché no, anche dell’ambizione, di lavoro sul genere e come tentativo di parlare ad un pubblico oseremo dire nuovo.

 

Intervista a Michele Vannucci

Stiamo attraversando un momento storico in cui il movimento italiano sta riscoprendo il cinema di genere, un modo per parlare ad un pubblico più ampio in modo autoriale, e Delta non solo si piazza in un posto di prima fila in questa tendenza, ma va anche oltre, alzando notevolmente l’asticella. Com’è nato il film nello specifico e, in generale, qual è il rapporto tra il “genere” in quanto tale e una storia?

I film nascono un po’ per caso, o meglio, io li incontro per caso, poi nascono perché toccano qualcosa di me. Storie che stanno in giro e che qualcuno mi racconta e che a volte succede mi rimangano impresse per un mese o due. Ecco, quel perché di solito è il tema del film, ciò che mi unisce ad esso. E quel perché mi aiuta a capire anche il tono e il genere.

Penso che ogni storia abbia un genere di riferimento. Se tu mi racconti una storia io per capirla, per empatizzarci, la incasello in un altro filone di storie simili, dentro un genere, sviluppando delle aspettative. Capire il genere che sottintende le biografie che incontro è una delle cose più divertenti del mio lavoro.

Delta, come Il più grande sogno, è nato per caso. Mai avrei pensato di fare un film sulle periferie romane prima di incontrare Mirko Frezza, così come mai avrei pensato di fare un film così fino a quando ho incontrato i racconti del fiume di Marco Falciano, cioè Osso. Lui lo incontrai nel 2017, anche se già c’era in me il desiderio di perdermi dentro il fiume, ma all’inizio, essendo talmente fissato nel trovare il genere dentro le biografie, stavo scrivendo un documentario, tipo Sacro Gra, composto da sei storie ambientate nel fiume. All’interno di questo grande racconto corale c’era anche la vicenda delle guardie ittiche volontarie di Ferrara, chiamate I pirati del Po. Penso sia semplicemente capitato che mi ha ossessionato più di altre. Ho quindi cominciato a seguirli di notte, in ronda, iniziando a raccogliere i perché di tutta quella comunità.

Nelle prime settimane di sopralluogo, 2016/2017, ci muovevamo con Couchsurfing e tramite esso dormivamo a casa delle persone e vivevamo con loro. Mi ricordo che trovai ospitalità a casa di un ragazzo vicino Cremona, che mi faceva dormire sul divano di casa sua al primo piano. I genitori stavano al piano terra. Mi ricordo una stufa a carbone, lui che suonava il violino, il padre autodidatta. Con loro trascorrevamo il tempo a parlare della vita. Una cosa meravigliosa che mi è successo anche a Rovigo, Andria, Porto Tolle.

Mi ricordo una famiglia di contadini, che organizzò la proiezione de Il grande sogno a casa loro con il dvd insieme agli amici della valle. Quella sera mi sono ritrovato a parlare del film con tutti loro. Dopo il nostro primo soggiorno ci lasciarono casa sempre aperta.

Ecco Delta è nato per incontrare queste persone.

delta

Insisto: perché proprio il genere western?

Oltre il mio innamoramento per il fiume, ha giocato un grande ruolo la mia angoscia profonda verso la quantità di armi che vengono detenute legalmente in Italia: 12 milioni di armi per 1 milione e 200mila stimato di persone (e parliamo di stime perché il Viminale non fornisce dati certi), dato impennato negli ultimi 10 anni, periodo in cui il trend legato a furti e rapine è crollato. Siamo quindi diventati uno dei Paesi più armati d’Europa mentre la criminalità sta crollando.

Questo è il dato che, insieme alla mia paura verso la nostra crescente incapacità di empatizzare con l’altro e il bisogno di crearsi sempre un nemico, dovuta ad una manipolazione che giorno per giorno ci arriva addosso, ha creato in me l’immaginario western fiabesco, il quale consente una mitopoiesi del nemico, che si stacca apposta dal cronachistico.

Cioè?

La storia del bracconaggio sul fiume vive varie fasi: una dal 2008 al 2012, in cui i bracconieri stanno sul fiume, ma nessuno se ne accorge; una seconda dal 2012 al 2016, che è quella dello scontro in cui le guardi ittiche cercano l’appoggio delle istituzioni che rispondono in maniera sottodimensionata e una terza in cui è stata affrontata dalle forze dell’ordine in modo massiccio per far decadere il fenomeno.

A me non interessava la parte del profitto, ma il racconto della frontiera: la storia di una famiglia che parte perché costretta e che, nonostante compia degli atti criminali, spera di avere una vita migliore.

Questo, come nei western degli anni ’70 scatena una furia che ho scelto di ambientare in Emilia dato che per lingua e tradizione è uno dei territori più pacifici di Italia. Cani di paglia fu un film che metteva a nudo le contraddizioni di un Paese che cercava di liberarsi della violenza e di quanto al maschio fosse chiesto di usarla per affermarsi nella propria comunità. Il percorso che fa Dustin Hoffman è simile a quello che fa Luigi Lo Cascio.

In che modo hai cercato di inquadrare dunque il bracconaggio?

Io non volevo raccontare il bracconaggio in maniera descrittiva, volevo che fosse mitologico, perché mi sembrava necessario uscire dagli steccati descrittivi per raccontare le migrazioni attraverso un nuovo punto di vista.

Mi sentivo persino a disagio nell’incontrare i bracconieri sul fiume Po perché il mio sarebbe stato per forza uno sguardo dall’alto al basso (di un cittadino che guarda lo straniero) e quindi ho passato delle settimane sul Delta del Danubio, il Paese da cui partivano i bracconieri, per poter stare con loro. Nella narrazione del migrante l’errore più grosso che si compie sta nello sguardo.

La seconda cosa che volevo fare era spostare il film su un livello fiabesco quindi non racconta la storia del bracconiere che va in cerca di un pascolo più florido, ma è la storia di un uomo che è andato via da quel fiume perché da quel fiume si capisce che non si è sentito accolto. Ha trovato a casa lontano, ma poi per amore di ciò che si è costruito lì è costretto a tornare. La storia di un uomo che si confronta con la propria identità che ha negato fino a quel momento.

Alessandro Borghi

Cosa ti ha fatto innamorare del fiume?

Il fatto che sembri un posto così ostile, quando in realtà nasconde tante persone di una generosità commovente. Nella solitudine e nell’insicurezza del paesaggio nasce la curiosità. Insicurezza intesa anche in senso politico.

Ho passato 2/3 anni sul fiume, passando tanto tempo con un ornitologo, perché mi colpiva tantissimo la storia degli uccelli migratori (il Po fa parte delle tre rotte migratorie europee), specie che si sono sviluppate naturalmente con il grasso necessario per fare il viaggio dalla Scandinavia al delta. Mi piaceva immaginare che il delta del Danubio e del Po fossero per gli uomini la stessa cosa, terre che non appartenessero veramente qualcuno, ma spazi in cui gli uomini sono liberi di muoversi.

Come hai scelto i luoghi?

In realtà la scelta dei luoghi è avvenuta molto prima del set. Li ho scelti e ci ho scritto sopra. C’è stata una prima stesura, poi ci siamo mossi con i due scenografi, Lupo Marziale e Laura Boni. Il primo ha fatto più la parte di esplorazione e la seconda di costruzione.

Quando cominci a delimitare un territorio che ami così tanto il rischio di perdere lo sguardo è enorme, quindi è complicato creare una struttura drammaturgica che rispetti il viaggio che fanno i protagonisti e il tentativo è stato quello di partire da una comunità del fiume più ferrarese e piano piano aprire l’orizzonte per andare verso il delta.

Io ho scritto la sceneggiatura e da quella abbiamo dedotto un dossier in cui c’erano tutte le location con una breve descrizione, la Emilia Romagna Film Commission mi ha messo in contatto con 18 amministrazioni comunali della Bassa, abbaiamo organizzato un incontro dal vivo e io con delle slide facevo vedere tutte le location che mi servivano. Gli amministratori mi hanno poi fatto le loro proposte. Questo processo mi ha portato andare mano nella mano con le persone nei più piccoli comuni, un modo per entrare in contatto con la comunità.

Hai parlato di questa manipolazione che porta alla necessità di costruirsi un nemico, una cosa che assale anche i tuoi protagonisti, nonostante tentino una fuga.

Entrambi i protagonisti fuggono dalla loro comunità per colpa del contesto in cui si muovono.

Uno fugge dal presente e da una sicurezza che ha sfiorato, mentre l’altro è in fuga dal passato e da qualcosa che l’ha sovrastato e l’ha condannato. Entrambe, come nella tradizione western, li portano a scoprire il selvaggio che è dentro di loro. Un viaggio alla scoperta dello scuro, della condizione umana, non un viaggio in cerca di qualche tipo di risposta di tipo sociale o comunitario. Non penso che Cuore di Tenebra parla della condizione sociale del colonialismo in quel finale, non se mi spiego (sorride).

Per assurdo secondo me il viaggio di Osso è un viaggio di appropriazione di una ferocia umana che va al di là del fiume. Un modo di rapportarsi alla natura, alla fauna e alle bestie propria degli anni ’50 e ’60, quando esistevano ancora le tonnare e si pescava con le bombe a mano. La cosa che mi interessava al livello cinematografico era raccontare come nello stesso spazio potessero vivere due comunità distanti nel tempo: il modo di vivere dei bracconieri corrisponde molto a quello della generazione del padre di osso.

Luigi Lo Cascio e Alessandro Borghi

Vorrei mi parlassi di questa scelta meravigliosa di unire Alessandro Borghi e Luigi Lo Cascio.

Alessandro e Luigi rappresentano due icone e io volevo uno scontro extra cinematografico perché i western vivono anche di questo.

Mi piaceva poter fare un cinema popolare in cui l’attore si porta un bagaglio di aspettative che poi il film in qualche modo può anche smontare. Loro due insieme sono una figata pazzesca ed è l’unica cosa di cui mi faccio i complimenti, loro due nel fiume sono una roba unica. Sono convinto che la loro forza supererà la prova del tempo.

La cosa che mi dispiace di Delta è che ci ha messo veramente tanto ad esistere. Dal momento in cui l’ho pensato ad oggi sono passati 6 anni. 6 anni di solitudine, perché quando stai per 3, 4 anni con una ossessione senza riuscire a costruire un film è dura. Poi è arrivato anche il Covid… In questo tempo noi come comunità ci siamo allontanati dal cinema. Il cinema è diventato più chiuso, meno spazio democratico di incontro di persone che vogliono vivere una storia e basta e più luogo di appartenenza.

Le sale funzionano nel momento in cui ci sono comunità che vivono quello spazio, ma non si riconosce più a livello culturale medio che la sala è uno spazio di tutti. La pandemia ci ha creato un’angoscia nel condividere emozioni in sala: andiamo sempre più verso un bisogno di stare da soli quando ci mettiamo a nudo. Stiamo perdendo uno spazio democratico e questo mi fa arrabbiare più di tutto il resto.

Delta poteva essere fatto in maniera molto facile, come se fosse “Il più grande sogno 2″: uno sguardo antropologico all’interno di una comunità, con un protagonista e un antagonista. E invece è un tentativo assurdo e ambizioso di creare immaginario con un racconto con due protagonisti, cercando di portare spettatori nuovi in sala.

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