The Last of Us, il commento al finale tra serie e videogioco

The Last of Us

Quando nel 2013 si decideva di cominciare a giocare a The Last of Us lo si faceva fondamentalmente per un motivo: l’amore per le storie ambientate in scenari post apocalittici.

I più esperti diranno che il motivo era che si trattava di un gioco Naughty Dog e aveva gli stessi autori della saga di Uncharted, anche se poi Neil Druckmann (l’autore della storia di Joel ed Ellie insieme a Bruce Straley) non prese parte al terzo capitolo della serie, quello immediatamente precedente l’uscita del titolo.

Il passaparola fece il resto, perché fin dalle primissime settimane si sparse la voce della qualità altissima del prodotto, sia dal punto di vista delle caratteristiche videoludiche (grafica, gameplay e level design, poi chi è più esperto di chi sta scrivendo l’articolo potrà meglio specificare) che della trama.

La trama, appunto, un fattore di enorme rischio quando ci si approccia a storie appartenente a questo tipo di immaginario e che si gioca tutto specialmente nella risoluzione finale. In come termina una vicenda del genere e soprattutto in come si arriva alla conclusione. Perché facilmente si può rischiare di banalizzare, di risultare già visto. Dopo tutto ci sono dei riferimenti famosissimi come The Road di Cormac McCarthy per la storia padre / figlia, ma anche titoli come The Walking Dead che del post apocalittico su piccolo schermo ha fatto man bassa nell’ultima decade o Resident Evil in campo videoludico.

La trama, appunto, un fattore di enorme rischio quando ci si approccia a storie appartenente a questo tipo di immaginario e che si gioca tutto specialmente nella risoluzione finale.

The Last of Us

L’adattamento HBO stesso, nonostante l’ormai conoscenza generale della bontà del materiale di partenza, l’approccio innovativo, la spinta della critica e la qualità audiovisiva, si è dovuto scontrare con dei preconcetti nel pubblico, superati poi naturalmente nel corso delle puntate. Laddove sono stati superati.

Tutto ce lo si gioca, insomma, sempre e comunque, in dirittura d’arrivo. La cosa più importante, perché rimane negli occhi e nei cuori di fruitori vari ed eventuali, e anche quello, nella fattispecie, più facile da sbagliare.

The Last of Us è una storia diversa proprio per questo, perché il finale non lo sbaglia, anzi, ne fa la sua forza, sia in termini di originalità assoluta, che di coerenza endogena. Perché sul suo impatto e sul suo grigio si fonda l’intero meccanismo narrativo. Chi ha giocato anche alla Parte II sa a cosa ci riferiamo.

 

Il mondo ed io

Il finale di The Last of Us è nel suo primo atto. La coerenza sta tutta lì: un padre che, per colpa del mondo (rappresentato da un militare che esegue un “semplice” ordine proveniente dall’alto) e non dei contagiati, perde la figlia, ovvero tutto ciò che ha di più caro nella sua vita. E che, dunque, quando incontra qualcuno che riesce a colmare questo vuoto gigante, non vuole più perderlo, anche a costo di vederlo bruciare, questo mondo.

La storia di Joel ed Ellie può essere letta come una grande storia d’amore, che nel suo essere estremizzato (come sono i sentimenti che animano l’umanità presente nell’universo pensato da Druckmann e soci) diventa egoista, violento, selvaggio e spietato. Il mondo non è un posto terribile, ma lo è chi lo abita. L’atto terribilis di cui si è macchiato il Cordyceps è di aver rivelato questa verità.

Il nostro protagonista non fa eccezione. La differenza tra lui e tutti gli altri è che possiamo vedere quali sono le motivazioni che lo hanno portato a divenire quello che ora è. Nient’altro. Motivazioni valide per un finale come quello che si è pensato, ma valide come possono essere quelle che muovono le azioni degli altri. Caduti durante il cammino.

Il mondo non è un posto terribile, ma lo è chi lo abita. L’atto terribilis di cui si è macchiato il Cordyceps è di aver rivelato questa verità.

The Last of Us

Pedro Pascal interpreta un Joel più scalfibile, che parla allo spettatore della sua sofferenza, riuscendo a rompere quell’idea di impenetrabilità che il suo contraltare nel videogioco ostenta fino al momento di rottura totale, dopo la quale decide di farsi carico del “cargo” (appunto) assegnatogli e da lì non ha più un ripensamento, non si ferma più davanti a nulla. Un modo oculato per enfatizzarne la trasformazione.

Una piega coerente degli eventi, dunque, se si pensa a dove si è partiti e all’impatto che Ellie ha avuto sulla vita di un uomo, al punto da divenire più importante della missione stessa a causa della quale sono entrati in contatto. Una missione che, ora lo sappiamo, avrebbe avuto con tutta probabilità un esito determinante per la salvezza dell’umanità.

Dell’umanità, ma non di Joel, che probabilmente non pensa neanche troppo alla vita della simpaticissima pietra (suo malgrado) dello scandalo, ma solamente a sé stesso. Non può rinunciare a lei, non si perdonerebbe mai la perdita di sua figlia, un’altra volta a causa del mondo. Purtroppo, quando si fanno scelte di questo tipo si finisce con l’avere vittima e carnefice.

Il finale come punto di snodo

All’epoca il finale di The Last of Us fu un duplice shock. Da una parte costituiva una conclusione che elevava il titolo ad un livello completamente diverso rispetto ai suoi simili videoludici e di genere, dall’altra ci metteva di fronte ad una presa di consapevolezza urlata per tutto il tempo, ma che in fondo non si riusciva a capire a pieno.

Non esiste una parte giusta e una parte sbagliata.

Craig Mazin, il co-creatore dell’adattamento televisivo, ha sottolineato più volte l’importanza di capire questo aspetto, tant’è che nella conversazione tra David (sempre lui) e la Ellie di Bella Ramsey (semplicemente la più brava di tutti nella serie) si sottolinea proprio questo punto: il bene e il male non sono due categorie scindibili, sono parti della stessa cosa, probabilmente in egual misura. Probabilmente il gradiente cambia a seconda dei casi. A volte sono le facce opposte della medesima cosa. Quello che ci raccontiamo serve solamente per giustificare delle azioni che da altri possono essere viste in modo diametralmente opposto.

All’epoca il finale di The Last of Us fu un duplice shock.

Bella Ramsey

Senza contare che adesso si sa che ci sarà bisogno di adattare una Parte II e che la storia andrà avanti ancora per almeno un altro paio di stagioni, mentre all’epoca si chiudeva così: sul meraviglioso primo piano di una ragazz(ina) che porta il peso della rovina del mondo sulle spalle senza averne coscienza.

Joel, salvandola, la condanna, per proteggerla (proteggere lui) va oltre non solo ciò che è corretto, ma anche contro ciò lei vorrebbe. E tutto ciò è sbagliato, certo, ma una vocetta dentro di voi non può non assolverlo, non può non dire: “ma cosa vi aspettavate che facesse una persona che ha vissuto quello che ha vissuto?

Questione di punti di vista, questione di esistenze che si intrecciano. La moralità è essa stessa solamente una prospettiva alla fine, lo dicono i concetti di eroe e antieroe classico, che in questo caso vengono notevolmente superati. Perché le persone non sono né l’uno né l’altro, ma sono, esattamente, i due aspetti insieme. E le conseguenze dell’ultimo atto di questo finale lo proveranno.

Questione di punti di vista, questione di esistenze che si intrecciano.

The Last of Us finale

Purtroppo non è possibile parlare a pieno di questo aspetto per via degli spoiler da cui bisogna salvare chi non ha giocato ai videogiochi (l’invito è quello di recuperarli, specialmente se avete amato la serie). Per ora diciamo che l’adattamento di The Last of Us si è dimostrato pienamente all’altezza del compito: parlare al pubblico contemporaneo presentandogli la storia di due personaggi non ascrivibili alle regole tradizionali della letteratura del genere.

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