The Last of Us: le curiose origini, tra Romero ed Elliot Page

Sono ormai tre settimane che The Last of Us sta monopolizzando l’attenzione degli appassionati di serie tv, polarizzando inoltre le discussioni degli appassionati di videogiochi riguardo alla solitamente fallimentare pratica della trasposizione filmica, che nel caso del serial targato HBO ha invece dato enormi frutti. Ma da dove arriva questo successo? Com’è nato The Last of Us? In questo speciale vi racconteremo qualche aneddoto interessante in proposito, senza farvi spoiler sulla trama del videogioco o della serie tv.

La prima versione del gioco è uscita a giugno del 2013, su PlayStation 3, a un anno e mezzo dall’annuncio della sua esistenza a fine 2011 e dopo una gestazione durata circa tre anni. Il nucleo centrale della storia, tuttavia, era nei pensieri di Neil Druckmann da molto, molto tempo prima.
Druckmann, ora game designer di spicco, produttore e vice-presidente dello studio di sviluppo del gioco, Naughty Dog, nella seconda metà degli anni 2000 era un semplice – per quanto brillante – designer entrato nella compagnia nel 2004 in veste di programmatore, la cui idea piacque così tanto da implementarla nella nuova IP action-adventure che ND voleva provare a sviluppare, dopo il grande successo dei primi due Uncharted. La base sarebbe stata simile, ma sia lo stile di gameplay che quello della storia avrebbero avuto afflati ben diversi, in stile survival, con elementi stealth e una vicenda drammatica a far da sfondo.
L’idea di Druckmann (affinata da tutto il team nel corso dello sviluppo della produzione) era perfetta: una riluttante figura genitoriale dal tragico passato e una figlioccia difficile e misteriosa collaboravano per sopravvivere in un mondo alla deriva.

Druckmann erano anni che aveva questa storia in mente, e aveva già provato a darle forma fisica in vari modi. Quando era ancora uno studente universitario presso la Carnegie Mellon University della Pennsylvania, un giovane Neil ebbe l’opportunità di partecipare a un progetto che vedeva nientemeno che la partecipazione diretta di George Romero, celebre cineasta “padre” del genere zombie. Ogni studente doveva sottoporre un’idea di progetto e quella scelta da Romero sarebbe stata portata avanti dalla classe. Indovinate un po’ quale fu il concept ideato da Druckmann? Quello di un rude poliziotto col compito di proteggere una ragazzina durante un’apocalisse zombie. Il concept aveva due particolarità: il protagonista maschile era malato di cuore, e nelle situazioni in cui era sofferente per la sua malattia il controllo passava alla ragazza, ribaltando i ruoli del personaggio protettore e di quello protetto, e aumentando esponenzialmente dramma e tensione. In più, il titolo si voleva ispirare a ICO, nel rapporto tra i due protagonisti e il fatto che la ragazza fosse muta, cosa che rendeva i tentativi di comunicazione tra i due ancora più struggenti. Tuttavia, l’idea non piacque granché a Romero, finendo in un cassetto.

Druckmann, ad ogni modo, anche dopo essersi laureato ed essere entrato in Naughty Dog, sentiva di voler sviluppare quel concept, e provò a farlo tramite un fumetto: dovevano essere sei albi, e la serie si sarebbe intitolata The Turning. In questa versione, il poliziotto era invece un criminale dal tragico passato, in cui aveva perso la figlia e, con essa, la sua umanità, ma l’incontro con una ragazzina che ha bisogno di lui gli cambia la vita. Suona un po’ come il Leon con Jean Reno e Natalie Portman, e non è detto che non potesse esserci una qualche ispirazione oltre a quella dichiarata del John Hartigan di Sin City.
Anche questa volta, però, il progetto naufraga perché gli storyboard proposti ad editori indie specializzati non vengono sufficientemente apprezzati.
La rivincita di The Turning arriverà solo all’interno di The Last of Us: il vecchio cabinato con cui Ellie “gioca” in una sezione riporta sulla scocca proprio il titolo “The Turning”, che dunque, almeno nella finzione, ha avuto modo di esistere.

Anni dopo, Druckmann convince i piani alti di Naughty Dog di provare a modellare la loro nuova IP sul suo pitch, ma la strada è ancora lunga. Arriva così l’intuizione che rafforza il concept. I mostri non saranno generati da mutazioni chimiche, virus o simili, ma sarà qualcosa di decisamente originale, per quanto basato sulla realtà: l’infezione da cordyceps, di cui il game designer viene a conoscenza tramite un documentario, rimanendone subito affascinato.
La giovane protagonista femminile è immune all’infezione, e il protagonista maschile deve trarla in salvo anche perché studiandola si potrebbe trovare una miracolosa cura. In questa fase, il gioco si intitolava Mankind, ma recava con sé un elemento controverso: l’infezione era specifica del genere femminile, che dunque stava portando all’estinzione l’umanità. Lo stesso Druckmann si convinse presto che si trattava di un risvolto potenzialmente misogino, e quindi diffuse il contagio a tutti i generi. Oltretutto, Druckmann voleva far risaltare il contrasto tra l’antieroe maschile (che scopriremo capace e determinato, ma anche fallibile e sconvolto dai sensi di colpa) e quella femminile, che doveva essere lontana dagli stereotipi sessualizzanti tipici di molti videogiochi, quindi voleva evitare un’idea controproducente come quella originale.

A sinistra, la versione preliminare del character design, seguita da quella “rivista”.

E, a proposito della protagonista femminile, c’è un aneddoto che ora si confonde quasi con la leggenda. Il primo rendering reso pubblico del volto della protagonista Ellie, difatti, somigliava un po’ troppo a quello di Elliot Page da teenager, quando veniva da pellicole come Juno, X-Men – Conflitto finale e Inception. Anche il nome, in effetti, è praticamente lo stesso: difficile non pensare che ci sia stata un’ispirazione diretta. Niente di strano, a ben vedere, perché infinite volte i personaggi dei videogiochi sono stati idealmente modellati addosso ad attori realmente esistenti, e solo con l’avanzare della tecnologia del motion capture prima e del performance capture dopo (nonché dell’aumentare degli investimenti negli stessi) attori hollywoodiani sono stati invitati a partecipare direttamente in progetti videoludici.

La cosa non passò inosservata alla community di utenti PlayStation, e venne anche chiesto in merito al diretto interessato (su Reddit) cosa ne pensasse.

Immagino che dovrei essere lusingata, ma dato che sto effettivamente recitando in un videogioco dal titolo Beyond Two Souls, non è una cosa che è stata apprezzata.

Una frase che non implica, in realtà, che ad essere infastidita fosse lei in prima persona, quanto forse i vertici di Quantic Dream, che effettivamente l’avevano ingaggiata e non “presa in prestito” senza permesso. In effetti la situazione fu leggermente imbarazzante per Naughty Dog e per Sony stessa, dato che i due videogiochi erano entrambi esclusive PlayStation 3 al tempo: quando l’avventura sviluppata da QD è stata annunciata, TLOU era già in produzione da diverso tempo, dunque il team di ND aveva probabilmente preso spunto da Page inconsapevole di essere sul filo del rasoio: sta di fatto che, senza proclami o risposte di altro tipo, il character design di Ellie cambiò, con dei lineamenti del volto un po’ diversi, ispirati anche all’attrice che le diede voce e movimenti, Ashley Johnson. Non venne cambiato il nome della protagonista, però: sarebbe stata una diretta ammissione di “colpa”.

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