The Last of Us, l’analisi del primo episodio della serie Sky

PlayStation Productions: progetti in uscita nel 2023 e in lavorazione

La serie di The Last of Us ha debuttato su Sky e su NOW il 16 gennaio. Ecco il primo appuntamento con l’analisi episodio per episodio per andare a scoprire i punti di svolta di ciò che ci offrirà Neil Druckmann.

Il seguente articolo contiene spoiler sul primo episodio, analizzato cercando di mantenere i riferimenti del videogioco e facendo dei richiami comprensibili per chi ha già giocato l’opera originaria. Per chi, invece, fosse vergine dell’esperienza The Last of Us, andremo a snocciolare quelle aggiunte che hanno reso la narrativa della serie molto più fitta e completa di quanto fosse stato fatto nel 2013 su PlayStation 3 dal team di Naughty Dog.

Un prologo al servizio della pandemia

Partiamo da dove ha più senso farlo, ossia dall’inizio. The Last of Us, col suo primo episodio, decide di generare il proprio plot da prima rispetto a quanto fatto dal videogioco. Siamo nel 1968 e l’opening si concentra all’interno di uno studio televisivo, in un classico talk show serale degli Stati Uniti, durante il quale si racconta ciò che in futuro nemmeno troppo lontano potrebbe colpire la popolazione. Da quello che è un tono scanzonato, spensierato, si passa a un’analisi molto più sentita e complessa, che andrà a deflagrare negli avvenimenti che all’inizio del secondo episodio vi saranno spiegati in maniera più dettagliata.

Un aspetto di per sé molto intelligente, molto furbo, per spiegare ciò che nel videogioco, invece, veniva relegato a pochi dettagli, alla curiosità del giocatore stesso, chiamato ad analizzare al microscopio articoli di giornale e piccoli dettagli sparsi qui e lì. Non è solo più una questione di una pandemia “perché sì”, ma c’è l’intenzione da parte di Druckmann, dieci anni dopo, di raccontare ciò che è accaduto per scatenare quel problema. Tra le nostre mani c’è una concretezza che il videogioco non aveva voluto (o saputo) darci e che a distanza di dieci anni, adesso, il suo creatore ha deciso di fare. Senza fermarsi qui.

Un cambio temporale

Proseguiamo e il salto temporale ci conduce nel 2003, un’epoca diversa rispetto a quella del videogioco, che era ambientato nel 2033, ma vedeva il prologo dipanarsi vent’anni prima, nel 2013. Una scelta figlia del fatto che The Last of Us, nel suo presente, finirà per essere ambientata nel 2023, in un’epoca a noi contemporanea, che vuole cavalcare l’onda del disastro Covid-19 e che vuole, altrettanto, darci un senso di attualità che altrimenti non avremmo avuto, catapultati dieci anni nel futuro. Torniamo al 2003, quindi, una scelta che muta leggermente il setting del videogioco, costringendo, tra l’altro, Joel a rivedere la propria playlist.

“Future Days” dei Pearl Jam è uscita nel 2013, che non è più l’anno di The Last of Us: per il protagonista non sarà più possibile suonarla alla chitarra, quindi, rinunciando a un momento che era diventato facilmente iconico nella testa di tutti i videogiocatori. Peccato, ma poco cambierà, perché siamo sicuri che nel momento in cui – semmai ce ne sarà bisogno – Joel dovesse riprendere in mano la propria chitarra, ci sarà modo di cambiare gusti e indirizzarsi verso qualcosa che non sia necessariamente dei Pearl Jam.

Inevitabilmente il primo episodio è molto incentrato su Sarah, la figlia di Joel. La ragazzina – per chi ha giocato già The Last of Us – sarà il fulcro, di lì a poco, dell’intero plot twist, di ciò che andrà a cambiare per sempre la vita di suo padre e la sua condizione di vita. La bravura di Druckmann, in questo caso, sta nel fatto di aver sì ripercorso in maniera pedissequa le vicende raccontate nel videogioco, ma di averle arricchite con degli elementi che nell’esperienza controller alla mano non avremmo avuto di vedere.

La bravura di Druckmann, in questo caso, sta nel fatto di aver sì ripercorso in maniera pedissequa le vicende raccontate nel videogioco, ma di averle arricchite

Quindi Sarah che si reca da un rigattiere per mettere a posto l’orologio del padre, rubandogli dei soldi, è un’altra aggiunta, un’altra contestualizzazione a ciò che accadrà di lì a poco, ossia un dialogo ripreso in maniera pari pari al videogioco: “Dove hai preso i soldi per ripararlo?” – “Droghe, vendo droghe pesanti” è lo scambio che avviene tra Joel e Sarah sul divano, in una sera normale tra padre e figlio, che è destinata, però, a rimanere forse l’ultima, in quel contesto tranquillo e sereno.

Niente spore, ma il disgusto è salvo

Ben presto veniamo a contatto anche con ciò che riguarda principalmente gli infetti. Non sono zombie, questo lo sappiamo già e lo confermiamo anche a chi non ha mai avuto modo di approcciare le vicende di The Last of Us. Sono degli esseri che si stanno mutando a causa del fungo che diffonde la pandemia, in grado non solo di attaccarsi agli animali, ma anche alle persone. Dalla loro bocca emergono dei piccoli tentacoli che Sarah è costretta a vedere non appena si palesa dinanzi ai suoi occhi il primo infetto, ossia la sua vicina di casa, che poco fa aveva visto sulla sedia a rotelle. Niente più spore, insomma, come sicuramente avrete letto, ma solo queste tragicamente orripilanti protesi orali.

Ciò che succede dopo è rappresentato con la dovizia di chi ha voluto tentare una sfida vinta: riprodurre una scena così come l’aveva creata nel videogioco. Questo è l’elefante nella stanza, perché le inquadrature che vediamo quando ci troviamo controller alla mano sono figlie di un lavoro fatto ex novo, da zero, che si può permettere di posizionare la telecamera ovunque il designer voglia, senza preoccuparsi di concetto di spazio e di tempo. Se nel videogioco, quindi, durante la fuga ci ritroviamo a vedere le mani di Joel sul volante e nel frattempo anche ciò che gli si para dinanzi, sul parabrezza, in un prodotto girato con attori veri questo non sarebbe stato possibile, a meno di realizzare un POV posizionato over the shoulder, che in un’auto non è comodissimo.

Non solo sfrutta gli occhi di Sarah come visuale in prima persona, sostituendo la telecamera alla ragazza, ma allo stesso tempo riesce a darci visibilità di quello che è un primissimo piano del volto della figlia di Joel, preoccupata di ciò che sta accadendo

E invece Druckmann ci prova e ci riesce, perché non solo sfrutta gli occhi di Sarah come visuale in prima persona, sostituendo la telecamera alla ragazza, ma allo stesso tempo riesce a darci visibilità di quello che è un primissimo piano del volto della figlia di Joel, preoccupata di ciò che sta accadendo: continua a essere lei la protagonista di quel segmento narrativo, di quel prologo, calandoci ancora di più nelle sue vicende e nelle sue storie, nei suoi sentimenti. La scena all’interno dell’auto lanciata ad alta velocità tra la gente, per sfuggire al dispiegamento dell’esercito americano, è fondamentale per ritrovare un ricongiungimento tra ciò che il videogioco ci ha lasciato e ciò che adesso vuole lasciarci la serie.

Ellie non è l’unica

Perché, d’altronde, poco dopo il primo episodio di The Last of Us va a mostrarci qualcosa di ancora più intenso. Innanzitutto, Ellie non è sola: vent’anni dopo quel prologo, nel 2023, al di fuori della zona di contenimento ci sono altri bambini che camminano isolati, abbandonati. Forse l’errore, in quel caso, è stato sopprimerli prima del tempo, perché si sarebbero potuto trovate molte più Ellie, non solo lei. Al di là di questo, per la ragazzina dovrà arrivare il momento di una backstory, per raccontarci che cosa le è successo e da dove arriva, perché è in quelle condizioni e soprattutto qual è la sua reale natura. È infetta, ma nasconde qualcosa che ben presto verrà svelato da Tess.

Chiudiamo questa analisi sottolineando l’approfondito lavoro svolto nella caratterizzazione di Joel. Druckmann ha voluto lavorare ancora di più su quelle immagini che gli restano impresse nella memoria e che rappresentano il vero trauma che l’uomo ha vissuto vent’anni prima del presente di The Last of Us. Lo rivede dinanzi a sé, lo ha rivisto ogni sera prima di andare a dormire, forse anche durante il pieno giorno, mentre il sole non gli impediva di rimuginare su ciò che si era presentato davanti ai suoi occhi in quella notte del 2013. Ed è quello il trauma che si porta dietro e che lo spinge a compiere determinati gesti, al di là di quella edulcorazione della violenza che sostituisce un colpo di pistola a una scazzottata. Joel è quello: è diventato così per un motivo e l’intenzione di questa serie è farci empatizzare con l’uomo che porta dentro di sé un fardello pesante e ora è pronto ad addossarsene un altro. Che ancora non sa, sarà una seconda possibilità.

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