Quante volte in questi ultimi anni ci siamo imbattuti in frasi come: “ma questo è l’8 e mezzo di questo” oppure “si, questo è l’Amarcord di quest’altro” all’uscita di pellicole provenienti da grandi nomi della cinematografia europea e americana. Tante, no? Che vuol dire? Beh, o che noi italiani siamo stati dei precursori di questa tendenza oppure che siamo incredibilmente autoriferiti quando commentiamo le nuove uscite. O entrambe le cose. Ma, ancora più importante, che in un momento di grande crisi di creatività come questo gli autori più noti o avanti con gli anni stanno trovando rifugio nell’avventurarsi in varie ed eventuali summe di se stessi. Autobiografie fortemente introspettive in cui essi ripercorrono la loro storia, intrecciandola con la poetica filmica, fino al fatal incontro, a qualsiasi piano esso sia avvenuto. Lo ha fatto Cuarón, di recente Sorrentino e Branagh e quest’anno Iñárritu e Gray (anche se il film di quest’ultimo da noi arriverà nel 2023). Ognuno di loro lo fa a modo proprio, ovviamente, ma tutti rispettano degli appuntamenti imprescindibili. Ogni regola ha però la sua eccezione e chi poteva essere a rappresentarla se non il regista che ha fatto dell’eccezione il suo cavallo di battaglia?
Steven Spielberg è uno dei cineasti che più di ogni altro ha raccontato se stesso con i suoi film attraverso metafore, allegorie ed estremizzazioni. Di fatto non c’è mai stata una pellicola in cui non fosse possibile trovare un chiaro riferimento ad un periodo cruciale della sua esistenza e, dopotutto, è stato lui per primo a non avere mai fatto mistero di come abbia sempre preferito nascondersi “dietro le pellicole di fantasia perché sono un rifugio molto comodo e piacevole.”
Tutto diventa ancora più paradossale se pensate a come non abbia effettivamente scritto quasi nessuno dei suoi lavori.
The Fabelmans invece nasce dalla sua penna (insieme a quella del bravissimo Tony Kushner, già collaboratore del cineasta di Cincinnati in Munich, Lincoln e West Side Story) ed è (dichiaratamente) la sua pellicola più personale perché la prima in cui è lui stesso al centro della scena, ritratto in quell’arco di tempo che inizia con il suo primo incontro con il cinema e finisce nel momento in cui acquisisce la (o si arrende alla) consapevolezza di non potersene, semplicemente, più separare.
Un album dei ricordi invece che un fantasioso esercizio metaforico (come ha detto anche lui in uno dei trailer rilasciati) o, per dirla in parole povere, l’esatto opposto di ciò che ha fatto finora con la sua filmografia e anche un po’ quello che hanno fatto tutti i suoi colleghi.
La vetrina stavolta è la realtà, ma l’unica cosa che importa è l’elemento dell’immaginazione.
Spielberg scrive un racconto di formazione teoricamente ineccepibile, in cui si pone come perno centrale, sempre proattivo e in controllo e non come una spugna assorbente l’ambiente circostante, trasformata da esso, e ci mette dentro tutto i suoi film perché, fondamentalmente, gli interessa parlare solo di loro (e della mamma probabilmente, interpretata forse dalla migliore Michelle Williams di sempre) al punto da sfociare nel metacinema.
Un film autobiografico che trova il suo piano senso quando il suo autore non c’è.
Una splendida eccezione. Dicevamo.
“Io sogno per vivere.”
The Fabelmans è un film molto complesso che sta tutto nei suoi primi 10 minuti. Bella ‘sta definizione.
Non perché è il momento in cui “il piccolo Spielberg” (lo chiameremo così d’ora in poi) incontra il grande schermo attraverso lo sguardo di uno dei suoi registi preferiti (quelli grandi, totali e di ampissimo respiro), Cecil DeMille, ma perché ad introdurlo ci sono le sue due anime, rappresentate dai genitori, che sono già gradienti della sua persona e non elementi guida. Non a caso il bambino riesce a tornare ad esprimersi non grazie a loro, ma solamente dopo la rivisitazione autonoma per immagini dell’esperienza che lo ha ammutolito.
Il conflitto, la sofferenza reale di matrice autobiografica nella pellicola c’è, per carità, soprattutto di fronte alla crisi della coppia e quindi del nucleo familiare, ma non è mai realmente ciò che preme al regista perché non produce “la” conseguenza.
Il protagonista è convinto fin da subito della sua vocazione, preda di una fascinazione per l’immagine che è poi quella per il cinema primordiale, che veniva montato analogicamente, “tagliato a mano”, scandito, fissato e poi ricomposto.
C’è solo un eco di tutto ciò che è la sua vita, la quale però perde fondamentalmente importanza sin da subito di fronte a ciò che accade tra “lui e il cinema”, tant’è che la reiterazione di ciò che sta succedendo nella testa del nostro caro piccolo Spielberg, fatta nel tentativo di collegarlo a quello che accade intorno a lui, penalizza tutto il film. Il momento della separazione genitoriale esplicita la differenza tra questi due livelli, infatti com’è totale il passaggio in cui il figlio si immagina riprendere la disperazione della sua famiglia tanto è inutile il successivo dialogo tra lui e la sorella. Eccezione forse è lo splendido incontro con lo zio Boris, unica reale presa di coscienza che avvicina il film a ciò che ha dichiarato di essere e poi non è stato quasi per nulla.
A Spielberg interessa farci vedere il suo cinema nella sua vita e non la sua vita in quanto tale.
Gli interessa farci vedere Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, la fonte di ispirazione di un personaggio di Indiana Jones o come è nato il primo cazzotto ai nazisti o, ancora, farci entrare nella sua mente da regista sul set che fu la prima radice di Salvate il Soldato Ryan e così via.
Gli interessa mostrarci come ha sempre vissuto di sogni, perché solo quelli gli mostravano la verità sulle cose.
La rivelazione
E ecco che arriviamo all’aspetto più catartico di ogni biopic che si rispetti, la rivelazione. Scoprirne l’identità è fondamentale per inquadrare la natura della pellicola di turno.
Il momento più alto del film sta nella celebrazione della potenza del cinema come modalità di riflessione sulla vita ed infatti una delle scene più importanti è quella in cui il piccolo Spielberg mostra alla mamma il tradimento. Straordinaria metafora di come le immagini siano espressione ultraintima del ragazzo, che invita la donna nel suo cuore / armadio / sala cinematografica per mostrarle attraverso di loro ciò che non ha la capacità di dire in altro modo.
Essa deve essere però vista nel modo giusto, perché non è importante ciò ci rivela del figlio, quanto ciò che il cinema del regista riesce a cambiare nello spettatore.
La rivelazione ultima del film infatti nulla ha a che fare con il biopic, ma arriva nel momento in cui Spielberg si fa finalmente da parte, sparisce e lascia parlare solamente la macchina da presa, quella diretta da lui, che è capace di andare talmente oltre la realtà da scioccare lo spettatore, coinvolto al punto da scoprire cose nuove di se stesso.
Questo è il dono che il cineasta ha sempre voluto fare al pubblico.
Non il film in cui Spielberg si mette più a nudo (guardare semplicemente E. T. per credere) ma il film in cui esplicita il suo rapporto con lo spettatore, fondamentale per la sua idea di cinema, con il quale vuole condividere qualcosa che ha attivamente creato, che ha visto, immaginato e, soprattutto, scoperto. Il cinema come continua riscoperta della verità, questo è ciò che rappresenta per Spielberg e ciò che il suo film (non) più intimista e personale vuole raccontare. Un biopic al contrario, in cui gli interessava tutto tranne se stesso, ma solo il cinema e ciò che ha sempre voluto farci.
The Fabelmans è una splendida eccezione. Dicevamo.