Sindrome di Stoccolma: di cosa si tratta?

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La sindrome di Stoccolma prende il nome da un fatto avvenuto negli anni Settanta. Questa sindrome venne teorizzata da un famoso psichiatra criminologo. In pratica, si ha quando il prigioniero simpatizza con il suo rapitore.

 

Quando un ostaggio pensa che morirà vive una sorte di infantilizzazione: infatti, come un bambino, non può mangiare o andare in bagno senza permesso. In questa fase estrema, qualunque concessione da parte di chi lo minaccia suscita enorme gratitudine; al punto che alla fine, negando a se stesso la verità, il prigioniero pensa di dovere a un criminale la sua stessa vita.

psichiatra pioniere nella scienza dei traumi Frank Ochberg, il consulente dell’FBI che ha definito il fenomeno

 

 

Il caso a cui è legata la sindrome di Stoccolma è accaduto nel 1973, proprio nell’omonima città. Un tizio di nome Jan-Erik Olsson entrò armato in banca prendendo in ostaggio quattro impiegati. Passati sei giorni, alla resa del criminale, gli ostaggi lo abbracciarono chiedendo alla polizia di non fargli del male. Poi il nome della sindrome divenne noto nel 1974 quando un’ereditiera molto giovane Patty Hearst fu rapita da un gruppo combattente di sinistra.

Infatti, dopo due mesi di rapimento, Patty fece una rapina a mano armata, il primo di altri numerosi crimini per mano dell’associazione che l’aveva rapita. Al momento del suo arresto, la difesa diede la colpa alla sindrome di Stoccolma definendola come un lavaggio del cervello. Patty Hearst fu però condannata ugualmente a 35 anni di prigione, diventati poi solo 7 anni.