Margini, intervista a Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti: “Esiste il centro delle cose, la periferia delle cose e poi ci siamo noi.”

Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti

La folgorazione della Settimana Internazionale della Critica di Venezia79 è anche l’unico film italiano in concorso nonché vincitore del Premio del Pubblico. Parliamo di Margini, scritto e diretto da Niccolò Falsetti e scritto e interpretato da Francesco Turbanti e prodotto, tra gli altri, dai Manetti Bros., che fanno anche un cameo, come un cameo lo fa anche Zerocalcare, che del film ha realizzato la locandina.

La storia di un gruppo punk formato tre componenti, Michele, Edoardo e Jacopo, amici da sempre, a Grosseto, nel 2008 che provano a organizzare un concerto. Fine.

Questo è il racconto di Margini in tre parole e, vi dico la verità, dovrebbe bastare ed avanzare per convincerci a vederlo.

Il film di Falsetti e Turbanti è un racconto ordinario, ma straordinario della provincia, dimensione esistenziale prima che geografica, luogo che è possibile analizzare solo attraverso i contrasti che lo abitano. Per farlo i due autori adoperano il loro cuore e il loro sangue, ovvero il punk, inteso sia come genere musicale (i protagonisti, interpretati dallo stesso Turbanti, insieme ai bravissimi Emanuele Linfatti e Matteo Creatini suonano davvero) sia come modo di approcciarsi alla vita, quindi in contrapposizione con l’ambiente che si abita.

In questo senso il film può essere letto come una lettera d’amore alla provincia, che diventa anche agente rivelatore delle contraddizioni dei protagonisti e degli sbagli che compiono, costantemente, mentre cercano di portare avanti i propri sogni.

Anche ai margini si può lottare per trovare se stessi.

Insomma il film è bellissimo e straconsigliato.

Noi abbiamo intervistato i due autori, che ci hanno parlato della nascita del film, del loro rapporto con i personaggi, con il punk e con i luoghi in cui sono cresciuti (che sono gli stessi della pellicola), ma anche della loro “anomala” collaborazione, di cosa intendono quando parlano di sogni, di “palude invisibile” e di essere proprietari di un macchina a Grosseto.

Noi li ringraziamo.

 

Intervista a Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti

Margini è un racconto punk e quindi un’anima punk, il che lo rende un film “contro”, contro la provincia, contro l’immobilismo, la città. Un film che vive e si racconta per contrasti.

Niccolò:

Hai centrato un punto.

Il nostro è un film che si racconta per contrasti perché ci siamo accorti che per raccontare la la provincia, la città di Grosseto nello specifico, la cosa migliore era fare uscire fuori tutte le sue contraddizioni. Specialmente se poi decidi di collocarci il punk, che è il contrasto ideale quando vuoi far emergere tutti gli altri: il silenzio di una città calma e tranquilla e il fragore del mondo underground, il fermento dei ragazzi e l’immobilismo dell’ambiente, la voglia di far qualcosa di nuovo e sentirsi sempre rispondere con qualcosa di vecchio.

Mi ha fatto strano quando hai detto è un  “film contro”, ti avrei voluto correggere. Margini non è un film contro, ma è un film su quella roba là, solo che quando devi parlarne è meglio farlo di sponda o, meglio, noi non siamo stati in grado di parlarne in altro modo che non fosse questo.

Se parli di provincia dritto per dritto forse non la vedi davvero, ma se ci metti un mezzo di contrasto arriva più forte. Se ci pensi i nostri personaggi sono i primi a essere provinciali, quindi alla fine non può essere contro la provincia.

Francesco:

Non è un manifesto contro la provincia ecco.

Mi spiego meglio, diciamo che Margini è un film che si muove solamente “mettendosi contro”, quindi racconta tutto così perché è il suo modo di farlo, lo fa anche con i suoi protagonisti, che fondamentalmente vanno avanti sbagliando qualsiasi scelta.

Niccolò:

Qui ti seguo già di più.

L’osservazione che abbiamo fatto è che visto che facciamo un film che ha un grande rapporto con la quotidianità, la cosa più sensata era aprire allo spettatore una piccola porticina sua una storia straordinaria e invitarlo a vedere cosa ci fosse dietro. Bisognava guardare molto in piccolo per cercare i volumi e conflitti giusti.

Con quello sguardo specifico abbiamo notato che, appunto, è nei contrasti che si dipanava lo scontro tra i protagonisti e l’ambiente intorno a loro, uno scontro che non poteva che avere un eco anche interiore e quindi ci serviva per raccontare anche una loro lotta con se stessi.

Il punto è che questa materia non è mai una roba che ha un vettore solo, ma ha sempre tante sfaccettature, che emergono solo quando immetti dei contrasti.

Margini

Quanto c’è di autobiografico nel film?

Niccolò:

Una parte di noi è stata quella roba là.

Rivedere il film è bello perché, soprattutto con il lavoro di scrittura, siamo comunque riusciti a prendere le distanze dai personaggi al punto da riuscire a goderci la visione e dire: “sto guardando la storia di Michele, Edoardo e Jacopo, non il film sulla mia vita.”.

Anche se eravamo partiti proprio male…

Francesco:

Si, eravamo partiti facendo, come ha detto il nostro batterista: “un collage di elementi della nostra vita”.

Tu devi sapere che noi abbiamo una band ancora attiva, i Pegs, ed in qualche modo era inevitabile che prima la stroncatura venisse da là, dato che loro sono stati i primi con cui abbiamo parlato del film. Lì per lì mi ricordo che ci siamo anche quasi rimasti male, si pensava di aver fatto meglio. In realtà aveva straragione.

La prima stesura era troppo vicina ai personaggi, al punto che non erano ancora tali. Il discorso è che tu puoi guardare la realtà, sguazzarci dentro, provare a prendere tutto quello che ti serve, perché ci deve essere un collegamento tra quello che scrivi e quello che hai vissuto, ma la narrativa, fare storie è tutto un altro discorso. Noi dovevano ancora fare quel salto lì.

Ad un certo punto abbiamo preso le distanze da questi grumi di roba che chiamavamo personaggi ai quali piano piano sono spuntate le gambe e hanno preso la loro strada. Noi li abbiamo solo seguiti, anche se rimane, ovviamente, una parte di noi stessi in loro.

Niccolò:

L’autobiografia ci è servita a due cose.

La prima è cercare di mantenere un certo livello di autenticità, sia per quanto riguarda il mondo underground sia per quanto riguarda la nostra città. Volevamo trasmettere l’autenticità nelle situazioni che scrivevamo, cercando di non scivolare nell’autobiografia più totale. La domanda era sempre: “siamo in grado di fare questo processo non scadendo nel caricaturale o nella forzatura narrativa?

La seconda era raggiungere una spontaneità nella recitazione tale che le permettesse di coinvolgere lo spettatore al punto di fargli pensare: “Questa cosa potrebbe essere successa anche a me se fossi cresciuto in provincia.”

Margini è un film che ad una prima visione può essere visto come costituito da una storia lineare e anche abbastanza classica: la realizzazione di un sogno. Ma il modo in cui è affrontato è assolutamente peculiare.

Niccolò:

L’intenzione era ragionare sulla retorica del sogno, sia nel contesto del film , ma anche in relazione al nostro gruppo e in generale.

La maremma è storicamente una palude e noi utilizziamo questa metafora per parlare della provincialità in generale. Se sei in una palude devi sgambettare altrimenti affondi, la fanghiglia ti sommerge, quindi devi cercare di stare in moto, il che non vuol dire arrivare da qualche parte, ma solo rimanere a galla.

Il fatto è che questi ragazzi hanno dei sogni molto più grandi rispetto al posto dove sono, anche se questa dimensione si traduce semplicemente nell’immaginare qualcosa di diverso o di tuo, salvo poi trovare un mondo e una società che si oppongono.

Francesco:

Infatti il film si dice di “sognare in piccolo”.

Niccolò:

E lo fa con affetto, questa è l’altra cosa che ci interessava.

La contraddizione sta nel fatto che c’è una volontà coercitiva, ma non avviene quasi mai con il manganello, tendenzialmente è un placido coccolarti.

Francesco:

È più subdola ecco.

Grosseto è uno di quei posti incensati per essere i più verdi o quelli di solito al centro di quei sondaggi come “il posto in Toscana in cui sta meglio, dove c’è l’aria buona e il mare”, che è tutta roba che teoricamente è vera, motivo per cui non volevamo far vedere i palazzoni di periferia, che è diversa dalla provincia.

Margini viene da una canzone degli Ultimi, che si chiama Ai margini, nella quale si dice “che c’è oltre la periferia? C’è il mio paese”. Esiste il centro delle cose, la periferia delle cose e poi ci siamo noi.

La provincia va oltre, potresti starci benissimo: c’è il nido, la mamma, un posto che ti tenta perché ti promette di poterti rimettere in sesto, quando tu invece hai bisogno di confliggere, guerreggiare, metterti al fronte.

Ecco perché la battaglia che vogliamo raccontare è più subdola. Il nemico è meno evidente, perché sei confuso da questo tipo di coccola. Per questo devi sgambettare, perché questa palude è metaforica, invisibile, ma ti impantana ugualmente.

Francesco Turbanti

 

Che poi nel film quando c’è il contrasto familiare questa palude si sente molto, altro che metaforica.

Francesco:

Ma si perché lì sono i personaggi stessi che hanno bisogno di tirar fuori il loro conflitto, per la loro sopravvivenza.

Un’altra intenzione era che gli antagonisti della storia fosse approcciati in modo plurale. Antagonista è la provincia con tutte le sue sfaccettature, soprattutto perché è in grado di far emergere i limiti dei protagonisti.

C’è stato un commento su Facebook che mi ha colpito molto in cui un utente diceva: “Non mi piacciono questi personaggi di Margini perché sono dei coglioni, un elogio alla mediocrità”, una cosa del genere. Io ho pensato che era vero, sono proprio dei mediocri e a me piacciono per questo, perché sbagliano e perché sono umani e quindi questa roba qua confligge ancora di più con l’antagonista.

Voi siete, diciamo, un duo molto particolare a livello lavorativo, uno regista e sceneggiatore e l’altro sceneggiatore e attore, quanto è preziosa questa peculiarità?

Niccolò:

Una risorsa impagabile, in cui ti accorgi quasi solo al montaggio. Noi ci conosciamo dall’estate della sua quinta elementare…

Francesco:

… che funziona di più di all’estate della tua prima media…

Niccolò:

… un botto di tempo comunque.

Mentre scrivevamo io non ragionavo sul fatto che Francesco era un attore, ma è chiaro che lui aveva un orecchio particolare per i personaggi e le loro battute, avendo in sé già prefigurato tutto il processo di confronto reciproco per arrivare a recitare come io avrei voluto e come il film avrebbe richiesto.

Dunque saltava diversi passaggi e spesso mi chiedeva: “proviamola, senti come suona questa battuta o questo dialogo”.

Francesco:

Secondo me il discorso è che c’è un’abitudine a pensare che il regista sia anche autore, cosa che invece non è scontata, perché sono due lavori con una dignità autonoma.

Noi siamo una coppia autoriale anomala, infatti anche raccontarci è complicato. Se ci hai fatto caso il film abbiamo deciso di firmarlo come “un film di Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti”, che non è una roba canonica, dato che di solito c’è solo il nome del regista. Questo perché abbiamo curato insieme dall’inizio alla fine tutti i passaggi.

È successo per esempio che ad un certo punto, in una fase della produzione generale, che va dallo sviluppo al post, c’è stato un momento del set in cui ci siamo dati dei ruoli rispetto alle nostre competenze e la nostra formazione. Lui si è messo a dirigere e io ad interpretare. Ora, questa roba qua quando si parla di scrittura per noi ha funzionato tantissimo perché io do un apporto dal punto di vista attoriale e lui registico.

Una cosa figlia di questo rapporto è stata la scelta di andare in sala prova con gli attori a suonare prima ancora di arrivare al momento della lettura, per creare qualcosa che ci legasse ancora prima del set.

Niccolò:

Io ho sentito molto il bisogno di fare questo.

Il fatto è che io ho fatto molta pubblicità e in quel campo gli attori li conosci quasi sempre direttamente sul set, è molto raro che si faccia un provino di persona, dunque la mia palestra registica è stata un po’ quella che poi si ripropone in tutti i progetti in cui sei lontano dal processo di casting, che invece a noi sono serviti per conoscere Emanuele e Matteo, ecc… Tutto il parterre è stato provinato e dunque una volta iniziate le riprese erano già in qualche modo accordati.

Ci tenevo molto a questo perché quando due attori si conoscono sul set anche mettersi una mano sulla spalla diventa complicato. E si vede, se ne ha il sentore. Per noi superare questo step è stato il momento delle prove.

Perché il 2008 come anno per ambientare Margini?

Niccolò:

Il 2008 è stata una scelta che abbiamo discusso molto perché avevamo paura rimanesse sullo sfondo, c’era solo questa didascalia iniziale che lo indicava ed era in sceneggiatura da tante stesure.

Tutte le ricadute narrative in questo senso si spendevano in piccole cose, dunque ci siamo interrogati se fosse troppo poco, una percezione impalpabile, un pretesto, quando invece noi volevamo uscisse, ci tenevamo molto. Anche i Manetti ci fecero questa domanda, il che ci ha portato a dire: “dobbiamo rispondere in maniera autoriale.

Voglio aprire una parentesi sul realismo: l’1 a 1 non funziona se non nei documentari. Non si può semplicemente mettere una camera e riprendere, tutto quanto deve essere ricostruito e puoi riuscire a farlo benissimo, ma per arrivarci c’è tutto un lavoro di messinscena dietro che deve essere curato. Detto questo, ci siamo concentrati nel raccontare il 2008 mettendo in scena la fine di un mondo analogico, un altro margine, e l’inizio di quello digitale. Questo passaggio ci serviva per un discorso filologico fondante, ovvero in quegli anni nasceva un gruppo punk a settimana, e per creare uno scenario in cui mancasse l’alibi della crisi.

Noi volevamo creare la visione di una realtà sociale che non ti dava uno spazio per un concerto non perché non ci fossero i soldi, ma perché preferiva fare Ludovico il Bavaro, questo ci serviva per far emergere ancora di più il conflitto con il nostro essere hardcore.

Margini

Il distacco dal realismo e l’approccio del magico, il finale che forse non forse accade realmente, collegata all’uso dell’auto.

Niccolò:

In realtà questo elemento magico ci veniva molto fuori dai personaggi.

Il finale è stato il frutto di quello che ci ha insegnato il nostro terzo sceneggiatore, Tommaso Renzoni, cioè prendere le distanze dai personaggi, però al contempo era anche la capacità di ascoltare cosa avevamo scritto fino a quel momento.

Il discorso della macchina accede a due cose per noi molto rilevanti, una è il discorso è in rapporto all’autobiografia, nel senso che a noi c’ha cambiato la vita quando ci hanno dato la macchina, perché ci ha permesso di muoversi, ci ha dato autonomia, ci ha permesso di goderci la parte bella della nostra città. Al contempo però è anche rifugio, proprietà, un’estensione di camera tua. C’era anche l’idea romantica della macchine di Grosseto vittime di una forza centripeta che le fa girare intorno senza andare mai da nessuna parte, finendo per tramutarle semplicemente in degli spazi isolati per ragazzi che possono sfogarsi cantando a squarciagola.

L’altra cosa è collegata al fatto che in un discorso di messa in scena la macchina salva, specialmente quando hai degli attori caldi, perché essa diventa uno spazio sicuro, neanche gli sguardi devi dare. Assistetti ad un incontro tra Monicelli e Kiarostami a Capalbio in cui parlavano proprio di quanto è bello girare con gli attori in macchina perché sono liberi, protetti senza esserlo forzatamente, il regista non è lì con loro, il mondo continua ad andare avanti e la recitazione comincia ad essere sottratta a se stessa ed esce la spontaneità.

Progetti futuri?

Francesco:

Tanti, non si sa bene quali arriveranno prima.

Niccolò:

Io ne ho uno che possiamo dire serenamente: il tour italiano dei Pegs!

Francesco:

Vero! È uscito anche il disco nuovo se qualcuno vuole farsi male.

A parte questo, qualcos’altro è nato ad un certo punto durante la lavorazione di Margini, ed è stato anche quasi inevitabile dato che tra tutto ci abbiamo messo 7 anni per tirarlo su. Il tutto è nato durante l’ultimo stop, quello più importante, ovvero quando la pandemia ci ha fermati e isolati in un momento in cui eravamo pronti a partire, mettendoci indirettamente nelle condizioni di ideare un nuovo soggetto, nato a distanza. Ecco, possiamo dire che da poco è stato portato avanti con la bozza di una prima stesura.

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