Sempre più caro il tema dell’identità alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia che, come vedremo in questa recensione di L’Immensità di Emanuele Crialese, diventa centro totale del racconto attraverso la storia di Adriana che, in realtà, si è sempre sentito Andrea e di sua madre Clara, una mamma un po’ bambina confinata nel suo ruolo di genitore e moglie insoddisfatta.
Il tutto si apre quando la famiglia Borghetti, composta da Clara e Felice e dai tre figli, tra cui Andrea il più grande, si trasferisce in una nuova casa a Roma. Felice è quasi sempre fuori per lavoro, mentre Clara si occupa della casa e dei figli. Il suo sguardo è malinconico, distante, eppure cerca di fare il meglio che può per non far mancare nulla ai suoi bambini, da una carezza ad una risata.
I tradimenti di Felice non le interessano nemmeno più. I due hanno smesso di amarsi da molto tempo e tutto quello che li unisce sono proprio i figli, eppure Clara sembra non bastargli più neanche quello. Vorrebbe andarsene, vorrebbe un divorzio, una nuova possibilità, ma in una famiglia borghese di quel periodo, le apparenze contano più dei sentimenti stessi. In più il difficile momento che sta passando Andrea, la cui famiglia si ostina a chiamarlo Adriana credendo solo che si tratti di una stupida fase di ribellione pre-adolescenziale, non fa altro che inasprire ancora di più i rapporti e rendere ancora più tesa la situazione tra le mura domestiche e non solo.
In particolar modo Andrea sviluppa un forte attaccamento morboso e protettivo nei confronti di sua madre proteggendola da qualsiasi uomo, in primis suo padre, soffrendo non solo per la costante ricerca di se stesso ma anche per quella muta sofferenza della madre che, il più delle volte, stenta a comprendere per davvero.
Io vengo da un’altra galassia e tu non puoi fare niente per aggiustarmi.
Emanuele Crialese ci porta così nell’album fotografico della sua famiglia, in una porzione di storia della sua stessa vita nel cuore degli anni ’70, del suo rapporto coi parenti, sua madre in particolare, suo fratello e sua sorella e se stesso. Un viaggio nella memoria che porta alla luce tensioni, rapporti, farfalle nello stomaco ma anche un feroce bisogno di libertà, mentre lo scherno e il pregiudizio diventano un’arma a doppio taglio.
In un certo senso è come se si volesse portare lo spettatore anche a riflettere su quanto difficile, alle volte, possa essere la felicità, soprattutto quella degli altri a discapito della propria, sulle responsabilità dei genitori nei confronti dei figli e su quanto faticoso sia crescere, soprattutto in un corpo che non ci appartiene.
Dividendo il racconto tra lo sguardo e la vita di Andrea e l’ombra della depressione che avvolge di giorno in giorno Clara, Emanuele Crialese prende le strade del racconto di formazione, dell’autobiografia, degli affreschi di quelle donne sull’orlo di una crisi di nervi. Non a caso la Clara del regista italiano, tanto ricorda alcuni dei personaggi iconici del regista spagnolo Almodovar, su cui la Cruz ci ha fatto letteralmente le ossa.
Un ritratto sicuramente intimo ma che fin troppo spesso resta incastrato in una struttura classica, poco coraggiosa e priva di un vero tono, di un’orma, di una traccia di stile riconoscibile e riconducibile all’autore.
Sembra quasi che lo sguardo del regista voglia essere impersonale. Voluto o meno che sia, questo non fa altro che allontanare lo spettatore dal cuore pulsante della storia, il quale riesce ad empatizzare indubbiamente con la figura della madre ma a restare distante da tutto il resto.
Una storia vera non basta
Quante volte ci è capitato di leggere all’inizio di un film il “tratto da una storia vera” o venire a sapere a posteriori che il film appena visto è tratto da un’esperienza persona del/della regista e dello/a sceneggiatore/trice? Non così poche. Eppure questo elemento dovrebbe semplicemente essere un valore aggiunto ad un film che, di base, dovrebbe tranquillamente andare sulle sue gambe e commuovere grazie alla potenza delle immagini e non alla suggestione o empatia che si può provare nei confronti di chi l’ha fatto.
Basti pensare ad esempi come Pieces of a Woman, Roma o È stata la mano di Dio, giusto per citarne alcuni, dove sono state messe al servizio della storia alcune esperienze personali degli autori, senza però forzare lo spettatore nel provare necessariamente un’emozione.
L’immensità non si apre di certo con un “tratto da una storia vera”, eppure il sottinteso è quasi una costante all’interno del film, ma senza mai davvero emergere in una sola singola scena. Anzi, l’esatto opposto.
L’immensità appare come un film che avrebbe potuto scrivere chiunque, dirigere chiunque. Il fatto che sia la storia della vita di Emanuele Crialese non cambia ciò che rimane alla fine del film: un senso enorme di insoddisfazione e incompiutezza.
Crialese gioca con i chiaro/scuro delle emozioni, ci regala un personaggio femminile meraviglioso come quello di Clara, una mamma così fragile che vorresti abbracciare in ogni secondo del film, con quello sguardo lucido, lontano, malinconico, talmente tanto bella da oscurare tutto il resto (anche il protagonista stesso del film). Eppure non riesce ad andare oltre il racconto classico borghese del cinema italiano. Non prende una posizione, non osa, non si mette davvero a nudo, non lascia una traccia. È quasi come se il film mancasse d’autore, il che da una storia personale non ce lo si aspetta.
Pensiamo agli stessi film passati in questi giorni dal Concorso come Bardo e Monica dove la traccia dei loro autori è più che evidente, le loro esperienze e quelle dei loro interpreti si sentono sullo schermo ma non per questo i film funzionano di più o di meno. Saperlo o non saperlo, non farebbe la differenza. Eppure ne L’Immensità, sembra quasi che sia “fondamentale” conoscere il vissuto del regista per poter “davvero” apprezzare questo film. Ma sarà vero?
Siamo scettici. La realtà è che L’Immensità non apporta nulla di più e nulla di meno ad un certo tipo di cinema italiano di stampo borghese, queer o meno che sia, tratto dal reale o di pura finzione. Eccezion fatta per Penélope Cruz e la sua Clara, perfino l’Andrea della giovane Luana Giuliani non convince fino in fondo. Dovrebbe essere il protagonista, ed invece sembra quasi una voce sulla sfondo.
Ancora troppo acerba, poco preparata, la Giuliani per quanto esprima quel tipico sguardo arrabbiato della sua età, non riesce mai davvero a colpire. Non è mai un tutt’uno col personaggio. Esattamente come Crialese, sembra quasi restare distaccata dalla storia. Distaccata da tutto il resto. L’empatia? L’emozione? La sensibilità? Perché tutto questo non riesce davvero a trasparire?
Ci sono dei momenti di gioia in cui Crialese è straordinario. Le scene d’insieme, il cantare e ballare apparecchiando o giocando su un prato verde. Quei piccoli attimi di felicità che ci ricordano che siamo vivi. Quei ricordi colmi della nostalgia e leggerezza del passato, dell’infanzia, ma appunto sono solo attimi cuciti in un film che non parte mai, rimane tronco, resta in superficie e lascia l’amaro in bocca.
Di più, di più, molto di più ci si aspettava da un’opera di questo tipo così personale ma che ha il paradosso di essere talmente tanto impersonale da essere un film come tanti. Già visto. Già vissuto.
L’immensità sarà nelle sale cinematografiche dal 15 Settembre con Warner Bros.
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Quello di Crialese è un film classico, che colpisce per il cuore della relazione tra i suoi personaggi, in modo particolare per il rapporto madre e figlia, e che si muove un po' come se fosse una cartolina dal passato. Al tempo stesso si fa un po' ridondante dal centro in poi, finendo col restare sul finale inconcluso, tronco. Un film delicato, anche dolce e fortemente legato alla storia del regista, ma che al tempo stesso non riesce ad emozionare fino in fondo, lasciando un po' troppo di amaro in bocca.
- Penélope Cruz, straordinaria come sempre, in un ruolo dolce e spezzato che fa venire voglia di abbracciarla teneramente
- Il rapporto madre e figlia, cuore insieme all'identità di genere del film
- Un film che resta troppo in sospeso, quasi come se mancasse un pezzo alla storia, con un finale tronco che lascia insoddisfatti
- Struttura abbastanza classica che non aggiunge nulla di nuovo e che a tratti si fa ridondante
- C'è uno sguardo freddo, impersonale, quasi troppo distaccato che rende il film privo di una vera traccia d'autore