The Whale, la recensione: dalla parte della balena bianca

The Whale

Quanto amore si può avere per un personaggio per dedicargli un film? Quanto amore si può avere per un personaggio per dedicargli un film in cui è chiuso in una stanza, quasi sempre seduto su un divano? Quanto si può amarlo per raccontarne rozzezze e peccati? Ritrarlo nello stato peggiore in cui si può ridurre un essere umano, perso nelle sue stesse debolezze, schiacciato dal peso delle sue sofferenze? Quanto si può amarlo per renderlo comunque il centro delle vicende in cui è inserito? Renderlo comunque una figura potente, attrattiva e magnetica per tutti, compreso il pubblico.

Nella recensione di The Whale, diretto da Darren Aronofsky e prodotto dalla A24, in concorso alla 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, vi parliamo di un film soprattutto (lo avrete capito) d’amore verso il suo protagonista, ma nella misura in cui egli (e tra le mille metafore dell’obesità questa è molto interessante) è la summa di tutti i peccati e loro conseguenze, non solo propri, ma anche degli altri, di coloro che hanno intrecciato la loro vita con la sua. Se ne è fatto fatalmente carico, al contrario del suo grande amore.

La pellicola è tratta dall’acclamata rappresentazione teatrale, in parte autobiografica, di Samuel D. Hunter (che ha messo mano anche alla sceneggiatura del film), che il cineasta statunitense vide e amò una decina di anni fa, ma non traspose mai sul grande schermo.

Per fortuna, perché altrimenti non avremmo avuto Brendan Fraser ad interpretare il protagonista.

È impossibile non leggere infatti un riscatto personale nell’interpretazione dell’attore dell’Indiana, tornato ad affacciarsi nel cinema che conta in No Sudden Move del signor Steven Soderbergh, ma che qui è veramente perfetto, sia nello spirito che nelle fattezze. Lo sguardo dolce, il tono della voce, la fronte ampia, l’attaccatura dei (pochi) capelli, ma anche il modo di muoversi in scena, di portare quel peso, che fa tremare ad ogni movimento, suscitando, allo stesso tempo, una grande commozione.

Lui è sempre sotto assedio, aggredito anche quando è aiutato, perché egli è il primo ad aggredirsi.

L’affetto che non rifiuta puntualmente è solo quello che si tramuta nella sua arma per allontanare gli altri, mentre quello che gli viene offerto sembra, ai suoi occhi, un gesto fatto per autosoddisfacimento più che di reale altruismo, indi per cui, accettandolo, si fa quasi un atto di comprensione. Lui, che trova una parvenza di pace solamente quando lavora o si perde nelle letture delle tesine (una in particolare).

Al riparo dal mondo, in isolamento, mentre fuori piove. Incessantemente. Una balena che non sà nuotare.

Viaggio a tappe

Charlie (Fraser) è un insegnante di college online, che si occupa dell’insegnamento della stesura di tesine, tenendo la camera però sempre spenta, in modo che nessuno possa vederlo.

Si nasconde dai suoi studenti a causa del suo aspetto, così come fa anche con il fattorino che gli porta da tempo le pizze a casa e con tutto il resto del mondo, almeno fino a quando la sua amica e infermiera Liz (Hong Chau), l’unica a cui è permesso entrare in casa, chiude a chiave la porta.

A Charlie non serve l’aiuto degli altri, nessuno può salvarlo e, cosa ben più importante, lui non vuole essere salvato. L’unica cosa che accetta per darsi sollievo è la lettura di un’analisi su Moby Dick.

Eppure ogni tanto un aiuto può servire, come quello che casualmente arriva da un giovane missionario di nome Thomas (Ty Simpkins), membro della chiesa chiamata New Life, il quale inaugurerà una settimana di importanza capitale per la vita dell’uomo.

Da lì in poi, infatti, cominciano a comparire sull’uscio della sua porta tutte le figure più importanti della sua vita, compresa la figlia adolescente Ellie (Sadie Sink), ognuna rappresentante le tappe di un viaggio all’interno di se stesso in cui il professore riallaccia i fili con il suo passato alla ricerca di una guarigione non fisica, quanto spirituale.

Ognuno di questi incontri assume per l’uomo la doppia funzione di uno strato da scavare e un modo nuovo per tentare di scardinare il meccanismo che gli ha avvelenato la vita, portandolo a volerlo soffocare con una montagna di cibo.

Cercare di fare un passo, di nuovo, verso il mondo, vuol dire farlo verso se stessi.

Un nuovo inizio

Non c’è da sorprendersi che Aronofsky abbia deciso di ricalibrare il suo cinema dopo il doppio flop, per motivi differenti (uno oggettivamente è un brutto film, mentre l’altro è forse un po’ troppo libero, ma comunque sincero), e non c’è da sorprendersi che si sia “affidato alle cure” della A24, che nel rivitalizzare i suoi progetti ha fatto le fortune di tantissimi autori statunitensi.

The Whale per lui è un nuovo inizio (lo si vede anche come da come tratta il tema religioso, da come si trattiene e si dosa) cosi come lo è per il suo protagonista e così come può esserlo per la casa di produzione, che ha ora nel suo roster una pellicola papabilissima per ricevere i premi più ambiti.

Il cineasta statunitense parte dalle premesse di The Wrestler, si chiude in una stanza, gira in 4:3, fa indossare a Fraser una protesi per farlo arrivare a 600 libre di peso e non gli stacca più occhi di dosso. Dal canto suo l’interprete tira fuori la prova della vita, mettendo dentro il suo personaggio un dolore che ha stampato negli occhi, ma anche una malinconia e una dolcezza incredibili.

The Whale

Lui diventa il centro gravitazionale del film, la camera continua a giragli intorno come le esistenze di tutti questi altri che continuano a far capo a lui, che ne soffrono il confronto, che lo guardano con spavento, ma anche con simpatia, intravedendo una via per assolvere anche se stessi. Tutti, tranne la figlia Ellie, che dopo il suo abbandono è diventata “cattiva”, come dice la mamma, e che pensa che nessuno sia in grado di provare affetto reale, che nessuno può salvare qualcun altro.

Che sia la ragazza la penna dietro la famosa analisi con cui l’uomo è ossessionato?

Il peso di essere il capitano Achab

Quello di Aronofsky è un film che parla delle complessità della vita, dei dubbi atavici intorno alle questioni morali, dei rimorsi che l’amore può generare, di conflitti che esigono la nostra salute come pegno per sopportarli e di come è difficile accettare che possiamo meritarci l’affetto e l’aiuto degli altri, ma soprattutto che dedicarsi agli altri sia utile.

La redenzione di Charlie passa attraverso questa ultima missione, ancora più gravosa dell’incredibile mole che porta ogni giorno su di sé, perché per portarla a termine deve prima convincere se stesso.

Lo sforzo che la balena fa è quello di dare un senso alla caccia del capitano Achab. Di dimostrargli come l’attrazione che lui ha per lei possa essere soddisfatta, ricambiata.

The Whale cerca di concentrarsi sull’aspetto relazionale in modo assoluto, riuscendo a smarcarsi anche da una descrizione dell’obesità che poteva essere pedante, ripetitiva, stucchevole. Fa però fatica nel far arrivare tutti i nodi al pettine. Nel momento in cui c’è bisogno della trasformazione definitiva il film perde nell’equilibrio tra le voglie del suo regista e la volontà / necessità di comunicare al pubblico un certo messaggio (o stato d’animo) e questo può risultare fatale in un film nato e costruito per essere uno specchio. C’è tanta partecipazione nella vicenda da parte di chi lavora dietro e davanti la camera e questo porta la pellicola ad aprire tante strade per arrivare ad una fine che non poteva che essere didascalica nel suo far convergere, tradendo nell’ultima parte uno spirito fino a quel momento assolutamente coerente.

75
The Whale
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

The Whale è il nuovo inizio di Darren Aronofsky, prodotto da A24 e in concorso a Venezia79, e, ancor di più, di Brendan Fraser, che regala una prova straordinaria nel ruolo di Charlie. Tratto dall'omonima opera teatrale di una decina di anni fa, il film, tutto ambientato praticamente in una stanza, vede il suo protagonista come un centro gravitazionale dalla natura ambivalente, perché appesantito dai rimorsi e dalla sofferenza, ma comunque magnetico per le vite delle persone che varcano l'uscio della sua porta. Un titolo in cui il cineasta americano cerca di dosarsi dall'esasperazione che lo ha contraddistinto ultimamente, ricalibrando il suo sguardo e la sua scrittura per cercare un fil rouge più asciutto. Per quanto può esserlo quello di un viaggio interiore, facendo leva su una forte empatia con lo spettatore e ragionando sulla potenza delle relazioni.

ME GUSTA
  • L'interpretazione di Brendan Fraser è straordinaria.
  • La regia di Aronofsky è dosata, fluida, ragionata e dinamica.
  • La potenza emotiva che il film sprigiona è efficace.
  • La resa della malattia è veramente ben riuscita, così come la metafora che c'è dietro.
  • Molto bello il parallelismo con Moby Dick e il capitano Achab.
FAIL
  • La seconda parte del film tradisce un certo ragionamento dietro le scelte dosate della prima parte.
  • La conclusione arriva al termine di un'esplosione di fili che costringe ad un finale didascalico per ritrovare un punto comune.
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