Sembrava ieri quando nella cornice del Locarno Film Festival del 2021, Abel Ferrara annunciava l’intenzione di tornare in Italia per il suo prossimo film e occuparsi di una delle figure di riferimento del cristianesimo. Neanche tre mesi dopo e già era a Lecce per l’inizio delle riprese, affiancato dal suo protagonista, Shia LaBeouf, scelto, a detta del cineasta statunitense, per una affinità trovata proprio nel momento spirituale tra le loro due esistenze. E a giudicare dal carattere e dalla carriera di Ferrara, quasi mai senza compromessi e, anzi, mossa sempre da una spiccata sensibilità, dubitiamo che abbia mentito.
Nella recensione di Padre Pio, presentato in occasione della rassegna Giornate degli Autori di Venezia79, vi parliamo di una pellicola per tanti versi da sempre nel destino dell’autore nato in Bronx.
Pensate che una statua del santo accompagnò tutta la sua infanzia, dal momento che era situata nella chiesa del quartiere dove crebbe insieme alla famiglia, emigrata proprio da terra nostrana. Questo fatto, legato alla forte spiritualità della carriera di Ferrara (basta soffermarsi sulle tematiche della famosa Trilogia della Redenzione dei primi anni ’90, ma in generale di tutta la sua collaborazione con lo sceneggiatore Nicholas St. John) e alla sempiterna predilezione per gli emarginati, di recente focalizzata su figure realmente esistite, lo dimostra ulteriormente.
Un’altra tappa “inevitabile”, dunque, nel cammino di un pensiero cinematografico che non accenna a fermarsi, continuando a sperimentare linguaggi e a cercare l’esplorazione di anime affini.
Come disse Martin Scorsese, amatissimo (e come dargli torto) da Ferrara stesso, il cinema per lui è stato spesso un modo per cercare Dio o trovare un modo per interpretarne i segnali, rimanendo, puntualmente, deluso da se stesso. Un fattore che lo distingue dal collega regista del film di cui parliamo, il quale pare aver trovato un suo modo di entrare in contatto con il divino: narrare le vite di uomini da esso ispirati e che hanno, per tanti versi, incarnato maggiormente il suo mistero.
Il contatto con il divino
Il 17 febbraio 1916 frate Pio (LaBeouf) giunse a Foggia, restandovi fino alla fine del mese di luglio, quando arrivò per la prima volta a San Giovanni Rotondo, nel convento di Santa Maria delle Grazie. Durante tale permanenza egli cominciò ad avere delle visioni, in prevalenza notturne, sempre più violente, che lo accusavano della sua debolezza, facendo valere contro di lui dei peccati ascrivibili alla sfera della codardia e della pavidità nei confronti della sua Nazione e dei suoi fratelli.
Parallelamente, nel paesino calabrese, fanno ritorno dalle violenze del Primo Conflitto Mondiale i pochi uomini riuscitisi a salvare.
L’atmosfera che trovano non è però delle migliori, causa di un’Italia ormai profondamente cambiata lontano dal quel fronte dove l’unica logica che muove il sole e l’altre stelle è quella dell’uccidere o dell’essere ucciso. Infatti coloro che sono rimasti a casa, rei di aver trovato il modo di impiegare le proprie menti e le proprie braccia in un modo differente da quello di puntare un fucile contro un altro uomo, avevano accolto e nel tempo maturato un avvicinamento politico differente da quello presente in Italia all’epoca.
E la prospettiva di potere, per la prima volta, partecipare a libere elezioni, aveva infervorato i loro cuori e ispessito le loro intenzioni.
Un momento di grande tumulto nella comunità, che viene accompagnata nel suo difficile percorso dal frate con tutte le armi di un uomo che sta combattendo una sua guerra interiore per trovare se stesso nel suo cammino di fede.
Per lo più chiuso nel convento, Pio ascolta le confessioni dei paesani che nel suo consiglio si rifugiano, dividendo questo compito con quello di essere il tramite di Dio di un messaggio per gli uomini tutti, ovvero quello di una violenza imminente ancora più grande di quella che si è appena conclusa.
Una violenza che la comunità sperimenterà presto anche sulla propria pelle.
Guerra santa e guerra politica
Abel Ferrara si cimenta, dopo Pasolini, Tommaso (che è in un certo senso “il più diverso”, ma ci sta ugualmente bene nel discorso), Siberia e Zero and Ones, con un racconto che corrisponde per diversi aspetti, soprattutto tematici, ad una crasi tra loro.
Padre Pio, già a partire dal taglio del suo protagonista, si posiziona a metà tra il racconto degli alter ego veri e propri (impersonati quasi sempre da Dafoe) e quello di una summa spirituale a termine un cammino interiore che passi per un confronto / scontro con se stessi (molto più vicino, dunque, al film con Ethan Hawke).
La versione del frate portata sullo schermo è, come d’accordo anche la Storia, quella di un “santo in formazione”, il quale decide di passare del tempo in solitaria proprio in quel convento, perché in esso ha modo di scatenare una guerra notturna che egli sente necessaria per compiere un suo passo decisivo verso Cristo. La trasformazione del suo spirito, ma anche del suo corpo in un certo senso, passa però per una reazione a quello che nel mondo intorno a lui sta succedendo, divenendo di fatto tramite di un messaggio che Dio indirizza a tutto il creato.
Questo non è solamente un film di guerra, ma un film di conflitto, che tocca la sfere spirituale e poi umana fino ad arrivare a quella politica e sociale.
Una pellicola composta strati legati da un unico filo conduttore in cui, ordinatamente, si amplia sempre più il campo di azione dei fatti che interessano alla narrazione, lasciando, se mi permette, anche una prospettiva molto più intransigente sull’idea di redenzione che Ferrara ha evidentemente maturato in questi ultimi anni.
In questa sua rinnovata faziosità e voglia di condanna sta il senso di affiancare e (in un senso di minutaggio e peso narrativo) sovrastare la figura del Santo con il racconto dell’eccidio di San Giovanni Rotondo, consumatosi il 14 ottobre 1920, giorno dell’insediamento in Municipio dei socialisti che avevano vinto le elezioni contro una coalizione composta da fascisti, militari, liberali e grandi e piccoli proprietari.
Vennero uccise 14 persone e ferite 80 tra il corteo dei vincitori.
Il suo fulcro della pellicola rimane però quello della risoluzione del conflitto all’interno del frate Santo, sulle cui mani compare la famosa stimmate come monito da parte di Dio riguardo quello che verrà, qui anche resa come identificazione di Cristo con il dolore di coloro che saranno le vittime designate.
Dal punto di vista formale l’autore statunitense decide di raccontare una storia di fiction con un registro il più possibile vicino a quello documentaristico e per certi versi punk più che neorealista. Il dop è una figura praticamente assente, intervenuta solamente in post produzione nella persona di Alessandro Abate (Martin Eden), ma il risultato assomiglia più alla fiction che al cinema vero e proprio, anche quello più artigiano che il cineasta del Bronx ha sviluppato dopo il periodo romano, soprattutto nei momenti surreali. Le musiche non sono invece efficaci, (ben) curate ancora una volta da quel Joe Delia che iniziò a collaborare con Ferrara ai tempi de Il cattivo tenente. La recitazione in inglese da parte dei nostri compaesani non risulta invece, purtroppo, sempre efficace.
Padre Pio è in pieno un film di Abel Ferrara, quindi estremo, provocatorio, schierato, egoriferito, ma anche appassionato e vivo. Senza compromessi appunto, anche a costo di sfiorare, a tratti l’irricevibilità dalla maggior parte del pubblico. Il suo cinema rimane però arte, che, con tutte le sue ruggini e le sue rigidità, ha ancora la capacità di arricchire.
Padre Pio è la pellicola di Abel Ferrara con protagonista Shia LaBeouf presentata nel corso della rassegna Giornate degli Autori di Venezia79, che si concentra sul racconto, in chiave spirituale, della permanenza del santo nel convento di San Giovanni Rotondo all'epoca dell'eccidio del 1920. Il film è l'ennesimo capitolo di una carriera passata a narrare le vite degli emarginati e il loro rapporto con il divino, la loro ricerca di Dio e il conflitto interno che si trovano a dover superare per abbracciarlo. Ultimamente sempre più legato al mondo del documentario e del biopic, Ferrara dà vita all'ennesima testimonianza della sua ricerca interna, rappresentate man mano da alter ego o uomini realmente esistiti, non rinunciano neanche stavolta alla dimensione politica e sociale. Titolo che scontra con le ruggini, le rigidità e la dimensione egoriferita di un cinema che però rimane arricchente, se si decide di leggerne i punti di luce.
- Il titolo è l'ennesima prova di un pensiero cinematografico libero, appassionato e vivo.
- La versione pensata per il racconto del santo non è banale.
- Il fatto storico che racconta è un modo per scoprire qualcosa di importante e troppo facilmente dimenticato occorso nel nostro Paese.
- La recitazione degli attori italiani in lingua inglese non è sufficiente.
- La fotografia rimane in bilico tra il punk, il documentaristico e una sorta di simil neorealismo, scadendo nella fiction.
- La sceneggiatura è molto rigida, impostata, soprattutto nella parte dialogata.
- Il titolo sembra spesso chiudersi di fronte allo spettatore, non permettendogli di avere voce in capitolo.