Il Festival di Venezia è ormai entrato nel suo vivo e al terzo giorno siamo già in zona calda, caldissima e i film “del cuore” cominciano a prendere forma sul grande schermo. Sicuramente in questa recensione di Bones and All sarà facile capire che sì, Luca Guadagnino ci riesce ancora una volta e confeziona una pellicola che ha fatto innamorare, e perfino commuovere, gran parte del Lido.
Mentre la folla di fan ha iniziato ad invadere il red carpet fin dalle primi luci del mattino, noi abbiamo visto nella proiezione dedicata alla stampa il film tratto dall’omonimo romanzo di Camille DeAngelis che, proprio in questi giorni, è tornato nuovamente edito in Italia, questa volta per la Oscar Vault di Mondadori.
Nel cast troviamo la giovanissima Taylor Russell nei panni della protagonista Maren e accanto a lei l’acclamato Timothée Chalamet, alla sua seconda collaborazione con il regista italiano dopo Call Me By Your Name, nei panni del compagno di viaggio Lee. Ma i nomi prestigiosi non mancano di certo in questa pellicola; infatti, nel cast più “adulto” troviamo un inquietantissimo Mark Rylance in uno dei suoi ruoli migliori, Chloë Sevigny, Michael Stuhlbarg, André Holland, perfino il regista David Gordon Green ed una breve apparizione di Jessica Harper, la dolce e innocente Susy del Suspiria di Dario Argento che si è già ritrovata a lavorare con Guadagnino proprio nella rivisitazione del suo Suspiria, presentato nel 2018 al Festival di Venezia.
Bones and All è uno di quei film estremamente complessi e al tempo stesso molto semplici e, proprio per questo, efficaci. Guadagnino non si limita a trasporre semplicemente un testo, del resto non ha mai lavorato in questo senso neanche nei precedenti Melissa P. o Chiamami Col Tuo Nome. Il lavoro di trasposizione attuato dal regista passa per un processo privato ed intimo. Probabilmente questo potrebbe essere il suo lavoro più personale in assoluto, ed ecco perché anche più emotivo. Non solo viene fatto suo il testo, ma soprattutto inserisce quelli che sono elementi legati al suo vissuto, citazioni cinematografiche, storiche, ed anche un uso interessante del genere.
Guadagnino firma una pellicola sospesa tra l’ordinario e lo straordinario, un road movie che diventa anche un film sul cannibalismo ma che a sua volta è un coming of age e, ancora, si tramuta in un film sull’amore, sulla libertà, sulla diversità ed emarginazione.
Incredibile quanti generi e riferimenti convergano insieme in una realizzazione di altissimo livello, dalla regia alla sceneggiatura, dalla recitazione alla messa in scena, passando per la colonna sonora curata dallo stesso Guadagnino, utilizzando brani recenti e brani che incarnano meglio la sua adolescenza.
Del resto, il film è ambientato nel Midwest degli anni ’80, ovvero la perfetta incarnazione di quell’ombelico al centro del quale convertivano tutti i giovani nomadi alla ricerca di se stessi, per loro scelta o meno. Ragazzi e ragazze cacciati, scappati, abbandonati. Figure sullo sfondo alla ricerca del loro posto nel mondo, alla ricerca della propria felicità, della proprio comunità. Ed è proprio un enorme senso di comunità che si respira all’interno di Bones and All, passando per la chiave del cannibalismo che diventa metafora di una fame ben più profonda ed intima di quello che si potrebbe pensare.
Ovviamente il tutto in quel perfetto stile poetico per immagini di Luca Guadagnino, ormai perfettamente riconoscibile, capace di rendere elegante e raffinato perfino il più cruento degli atti.
L’identità, la giovinezza e l’amore ai tempi del cannibalismo
Maren (Taylor Russell) è una giovane ragazza sulla soglia della maggiore età. In poche e semplici inquadrature ci viene presentata con un viso pulito, vestita di pastello e dagli abiti larghi e con un padre eccessivamente maniaco del controllo. In quelle stesse inquadrature e con brevi e concisi dialoghi mai didascalici, capiamo che non ha molte amiche a causa dei continui spostamenti e del carattere poco permissivo del padre.
Quando un’amica la invita a dormire, Maren la informa dell’impossibilità dettata dal padre e l’amica le suggerisce di andare da lei di nascosto. Sebbene l’uomo si mostri apparentemente tranquillo e anche molto disponibile nei confronti della figlia, un attimo dopo chiude la porta della sua stanzetta con un catenaccio per la notte, senza essere a conoscenza del piano di Maren.
Quella che sembra una semplice ragazzata per sfuggire al controllo di un genitore possessivo e vivere finalmente le piccole brezze adrenaliniche di quella età, si rivelerà essere uno spiraglio su un segreto decisamente più oscuro che riguarda Maren e la sua stessa famiglia, o meglio la madre di cui la ragazzina non ha memoria.
A seguito di un incidente, i due devono rimettersi in viaggio ma questa volta Maren resterà sola, senza neanche la figura paterna, costretta a fare i conti con se stessa, con la sua vera natura.
La fame di Maren è una fame quasi atavica, primordiale e primitiva. Qualcosa di estremamente simile al nostro bisogno di nutrirci, di bere, di dormire; eppure, questa tipologia di fame fa paura. Sembra quasi una perversione, qualcosa di orribile e contronatura. Il viaggio di Maren inizia proprio da qui: natura.
La sua natura. Quella che la lega ad una madre che non c’è mai stata e che adesso deve essere scovata, e che la legherà ad una serie di figure che, esattamente come lei, fanno parte di quella tribù fatta di istinto, bisogno ed esistenza ai margini.
I cannibali di Luca Guadagnino, i quali hanno volti diversi, esistenze differenti ma condividono tutti un senso di solitudine che li divora ancora più della fame stessa, sono una vera e propria comunità ma senza quel senso di appartenenza tipico poi delle comunità. Anzi, l’agognano. Ed, infatti, “cannibalizzano” se stessi e anche i loro simili, sviluppando un senso di morbosità viscerale perfino più letale del loro stesso istinto predatoriale. Predatori destinati a vagare alla ricerca del proprio posto, succubi di quella stessa fame che, come dicevo prima, non è una perversione, un feticcio, una devianza ma un vero e proprio bisogno.
Una forma diversa di umanità, capace ancora di amare, bisognosa forse di quei sentimenti colmati proprio con il sapore della carne, l’odore del sangue, la consapevolezza di dover divorare qualcuno di simile a loro per potersi sentire davvero parte di un qualcosa, parte di un mondo, che li ha esclusi.
Eppure, ognuno di loro, nasconde un lato diverso, dall’inquietante Sully (Rylance) al più fragile Lee (Chalamet), passando per il selvatico sconosciuto (Stuhlbarg) con il proprio compagno incontrato sulle rive di un fiume.
Ma ripeto, il cannibalismo è solo la metafora di qualcosa di più grande. Mentre Maren si pone quesiti etici ed esistenziali su di sé, non potendo davvero accettare di sacrificare qualcun’altro per la propria sopravvivenza, gli altri personaggi sono un cumulo di vuoti affettivi ed emotivi che colmano affondando i denti nella pelle, nella carne di qualcun’altro spolpandolo fino all’osso.
Tra dipendenza ed accettazione, uccidi il padre!
Come stiamo vedendo in questa recensione di Bones and All, il cannibalismo di Luca Guadagnino ha diverse chiavi interpretative che passano principalmente dal bisogno, accettazione e dipendenza. Quest’ultima è molto interessante, perché a sua volta si ricollega ad un altro tema molto caro al regista stesso, nonché estremamente attuale: l’uccisione del padre.
Nel mito, l’uccisione del padre, è quel rito di passaggio che definisce la cessazione dell’infanzia nei confronti dell’età adulta. Una metafora di crescita, ma non solo, adottata anche nei confronti di un mentore, di un maestro. In Bones and All è duplice questa cosa. Tanto Maren quanto Lee sono chiamati, o sono stati chiamati, ad uccidere i propri mentori e padri.
I “Romeo e Giulietta” di Guadagnino cercano il loro posto nel mondo, cercando perfino di scendere a compromessi, fingendosi “normali”, accettando un precario equilibrio destinato a finire, senza mai affrontare per davvero i demoni del passato, Ma la natura chiama e gli scheletri a volte tornano a bussare.
Ecco quindi come dall’horror al road movie, Guadagnino passa ad un coming of age molto profondo e maturo, dai toni drammatici finali. Quelle scelte impossibili che la vita ci chiama a fare. Quel coraggio sepolto nella bocca dello stomaco che ci impone di “arrivare fino all’osso” delle nostre questioni, senza lasciare nulla in sospeso.
Tra indipendenza e accettazione c’è un pegno da pagare. Crescere non vuol dire solo essere liberi. Quella libertà va conquistata, quasi guadagnata con il peso delle responsabilità alle quali siamo chiamati a rispondere tutti a prescindere da tutto. Ed è forse questo il passaggio più complesso e feroce che ci viene presentato con una calma, una bellezza poetica e leggera che stringe quasi il cuore, per poi affondare feroce, brutale, senza pietà dentro la carne. Del resto, il dolore arriva sempre quando meno te l’aspetti. Sempre quando ormai hai abbassato la guardia.
Di attori feticcio e “nuove” scoperte
Una vera scoperta Taylor Russell in questa veste designata per lei da Luca Guadagnino. Uno sguardo duro per un corpo fragile, ma al tempo stesso così carico di vita. Si muove quasi come se potesse fluttuare sulla terra che calpesta, adattandosi perfettamente ai personaggi che incontra senza mai perdere identità.
Parliamoci chiaro, la protagonista è lei, dall’inizio alla fine. E si mostra più che degna di questo ruolo, mostrandosi in molteplici forme sullo schermo, ognuna di essere il ritratto del cambio che le attraversa il corpo.
Proprio come un vero predatore, il personaggio di Maren sa bene come mimetizzarsi ed adattarsi alle situazioni più folli, al tempo stesso senza mai dimenticare il contatto umano e un forte attaccamento alla propria natura empatica.
Anche Mark Rylance è una piacevole novità nel cinema di Guadagnino. Un po’ mentore un po’ padre e un po’ bambino, Sully è una creatura strana. Una creatura estremamente dissociata e, in fondo, abusata dalla vita. Forse è proprio l’emblema di quel bisogno affettivo che diventa chiave conduttore di tutto il film; un po’ come il personaggio di Michael Stuhlbarg – che abbiamo già visto al fianco di Guadagnino e anche di Chalamet – sicuramente meno presente rispetto a Sully ma ugualmente impattatante e decisamente fuori dall’ordinario.
Nota di merito anche a Chloë Sevigny che per quanto “sacrificata” in un minutaggio irrisorio sa come restare impressa allo spettatore (forse provocandogli perfino un piccolo spavento).
Ed, infine, abbiamo Timothée Chalamet che, invece, è decisamente un volto conosciuto nel cinema di Guadagnino. Lee è un po’ lo specchio più grande di Maren, ma non per questo più maturo. È un personaggio dolce, protettivo, un fratello più grande. Sensuale, “serpentino” ma al tempo stesso anche lui bambino, colmo di vuoti e traumi. Ancora una volta Guadagnino tira fuori il meglio da questo attore, soprattutto il lato più sensibile.
Il vero bisogno è alla fine l’amore
Usando montaggi a contrasto tra sogno ed incubo, musiche che ricordano i toni del precedente Chiamami col tuo nome e il calore di una fotografia di film alla Thelma & Louise, ma un linguaggio narrativo semplice, diretto ma elevato (per qualcuno forse fin troppo), Luca Guadagnino realizza il suo film più intimo e profondo.
Una messa a nudo in bilico tra il saggio e il documentario, con protagoniste due giovani anime perse nella disperata ricerca e accettazione di se stessi. Amandosi. Consumandosi. Divorandosi.
Un inno alla libertà, all’amore, all’indipendenza, alla diversità. Un film che scuote fin dalla prima immagine, arrivando sul finale con il cuore gonfio, il corpo rigido, gli occhi lucidi. Una disanima nelle viscere più profonde dell’essere umano, costantemente diviso tra luce ed ombra, ma pur sempre così disperatamente bisognoso di amare e lasciarsi amare.
In conclusione alla recensione di Bones and All, Guadagnino ci ricorda che noi siamo i cannibali del nostro tempo e che non c’è niente di male nell’essere diversi da un ordinario che, in fondo, non esiste, non è esistito e mai esisterà, ma che gli unici limiti che esistono a questo mondo sono quelli che ci imponiamo.
Bones and All arriverà nei cinema italiani dal 23 Novembre
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In bilico tra il saggio, il documentario e un diario per immagini, Luca Guadagnino con Bones and All firma una pellicola intima e feroce, ma che con delicatezza ci parla di sofferenza, solitudine e bisogno, ma anche dell'importanza dell'accettazione del sé da parte di sé stessi e degli altri. Una pellicola fatta di emarginati alla costante ricerca del proprio posto nel mondo che, quando finalmente arrivano a confrontarsi con i propri demoni interiori, non hanno bisogno di nulla più, l'hanno già trovato.
- La sperimentazione di genere, muovendosi da un tono all'altro ma restando sempre coerente con il racconto
- La metafora del cannibalismo, per quanto semplice, usata in modo potente, intima ed evocativa, emozionando fino alla fine
- La forza interpretativa di Taylor Russell che trova la perfetta armonia nel lavoro di coppia con Chalamet
- Mark Rylance in un ruolo assolutamente inquietante e potente
- Il linguaggio poetico tipico di Guadagnino che si esprime soprattutto attraverso la fotografia e la musica, rendendo elegante ed evocativo qualsiasi cosa
- Il cambio di genere continuo potrebbe destabilizzare i non troppo avvezzi alla sperimentazione
- L'autoreferenzialismo potrebbe risultare stucchevole a chi già non ama il cinema di Guadagnino