Della serie: “l’articolo che non avreste ancora voluto leggere“. Neanche io scrivere eh, siamo sulla stessa barca, non vi pensate.
Ora come ora mi passano per la mente almeno una decina di modi per cominciare un commento finale a Better Call Saul. Potrei per esempio iniziare facendo un inevitabile paragone con Breaking Bad, il titolo madre da cui l’intero universo narrativo albuquerqueano deriva, del suo essere più pop, ma molto meno consapevole, oppure si potrebbe cominciare con un parallelismo tra la figura di Jimmy McGill e quella di Walter White, ancor più evidente nelle ultime puntate, o, ancora, perché no, di come Vince Gilligan e Peter Gould siano riusciti a creare qualcosa di talmente importante da aver rappresentato un erede perfetto a quello che è stato “un battesimo alle serie televisive” per moltissime persone in giro per il mondo (una cosetta ci scapperà su tutto, eh, sia chiaro).
Si potrebbe parlare della capacità degli autori di riflettere sul mezzo audiovisivo e mischiare cinema e televisione, inventare e rivisitare tempo e spazio, creare immaginari e poi smontarli, varcare la linea sottile tra personaggi e persone, avendo sempre rispetto degli spettatori, cercando di dare loro il meglio. Sempre.
Si potrebbe iniziare in molti modi, tutti però direbbero la stessa cosa: non c’è stato mai nulla come Better Call Saul prima d’ora. Sia in funzione del suo universo di appartenenza, sia come prodotto a sé stante.
Perfezione è un termine azzardato, un po’ vuoto e anche un po’ mortificante quando si descrive qualcosa, eppure esso diventa improvvisamente il più avvicinabile alla compiutezza totale del risultato ottenuto dal gruppo di lavoro (dagli autori al cast) grazie ad una visione che parte da lontanissimo e che, nel suo procedere coerente, elegante, colto, quasi ricostruttivo in termini psicoanalitici, ha dato origine ad un metodo costruttivo brillante, funzionalmente inesorabile, fermo, suadente e puntuale, come un orologio.
Le ultime sei puntate di Better Call Saul sono su Netflix, disponete come volete, l’unico consiglio che ci permettiamo di darvi è quello di gustarvele, se potete, con qualche giorno di stacco l’una dall’altra, così come la loro visione è stata concepita.
Da qui in poi ci saranno spoiler, anche visivi. Non ci assumiamo responsabilità.
La forza della consapevolezza
Breaking Bad è stata una base che ha dato a Gilligan e Gould una tranquillità tale da non essersi mai dovuti preoccupare dell’affanno di catturare, di imporsi, di attirare o di smuovere.
Un pubblico già c’era, fin da prima della primissima puntata andata in onda nel 2015, così come i personaggi e le loro storie, con il peso non indifferente che si portavano dietro.
Il rischio allora era quello di deluderlo, questo pubblico.
Eventualità che gli autori non hanno mai neanche considerato, anzi, approfittando che la strada da seguire fosse già ben presente nelle loro teste, hanno pensato bene di appoggiarsi alle possibilità di avere già assicurata un almeno iniziale buona fetta di audience. Alla fine è tutto sempre e solo una questione di punti di vista.
Per di più si partiva da uno degli under dog per eccellenza, quasi una macchietta nel contesto dove era stato conosciuto. Saul Goodman ha incarnato in pieno uno di quei personaggi che il pubblico ama, ma da cui nessuno si aspetta più di quello che è il ruolo assegnatogli. Un battitore libero, ma di seconda linea. Insomma, il profilo perfetto per creare qualcosa che si smarcasse dal peso di cui sopra, ma non per evitare di farsene carico (cosa che poi sarebbe accaduta, una volta che gli autori avessero trovato piacere nel farla succedere), ma perché avrebbe permesso di ricostruire da zero un mondo e di elevarlo fino a renderlo addirittura più grande del suo predecessore e così poterlo inglobare, aggiungendo dettagli, sfumature, umanità e bellezza.
Better Call Saul è lo spinoff di Breaking Bad, per quanto egli abbia una dignità propria e per certi versi sia addirittura il migliore tra i due titoli, ma di questo ne fa una sua forza. Esso raggiunge un’emancipazione nella misura in cui accetta un legame.
Lo si vede nelle sliding doors tra i personaggi, nei richiami visivi, nelle inquadrature che ritornano (sia all’interno della serie che tra le due), nei legami che puntualmente si ripropongono, nel percorso dei personaggi, che corrono sempre sullo stesso filo.
Eppure tutto è diverso nella misura in cui lo è la forma scelta per i due titoli.
Better Call Saul punta sulla maestria delle sue professionalità, sulla cura maniacale verso il lavoro, sul suo voler creare uno spaccato tra sé e tutti gli altri titoli suoi contemporanei. È un procedere quasi impercettibile, ma che non si perde mai in momenti ripetitivi o situazioni inutili. La regia, la scrittura (forse la cosa più straordinaria), la fotografia, le prove attoriali sono calcolate al millimetro, al punto che ogni cosa assume un suo senso sia autonomamente che in relazione al resto.
Ogni concezione visiva, ogni movimento di camera, ogni battuta, ogni silenzio, ogni oggetto di scena, la posizione di ogni fonte di luce, tutto è pensato alla creazione di un qualcosa che possa puntare all’eccellenza prima che a qualsiasi altra cosa e l’eccellenza per chi ci ha lavorato è stata la costruzione di una realtà dove poter raccontare una storia con al centro delle persone.
Catturarne la vita, centrare l’anima, renderne comprensibili paure e desideri, testimoniarne il cambiamento.
E se tu avessi una macchina del tempo?
Dalla risoluzione della vicenda legata a Lalo Salamanca (uno dei migliori cattivi della tivù, chi pensa il contrario può smettere di leggere adesso), passata per la non trascurabile dipartita di Howard Hamlin (Patrick Fabian), è caduto ciò che dava a Better Call Saul un orizzonte leggibile, in funzione del quale succedeva tutto quello che succedeva, lasciando così spazio a ciò che era rimasto sempre sullo sfondo, ovvero l’eco di una conclusione che avrebbe trovato i suoi lidi da ben altra parte.
L’epilogo della serie è ciò che la eleva definitivamente perché riesce ad esaltare tutto ciò che aveva costruito fino a quel momento, dimostrando come l’intero impianto non ha mai avuto nulla di superfluo.
Non c’era la mira di raggiungere un climax epico, né quello di trovare uno scioglimento tensivo alla fine del viaggio o un twist di trama da lasciare a bocca aperta, ma terminare una storia mantenendo fede a ciò che l’ha contraddistinta dal resto per sette lunghi anni: l’importanza dei dettagli. Se vale nella vita perché non dovrebbe valere per il cinema?
La forza del personaggio di Gustavo Fring (Giancarlo Esposito) sta nell’eccezione che trova nel lasciarsi andare davanti ad un bicchiere di vino, quella di Mike (Jonathan Banks) sta nel suo non premere il grilletto per lasciare ad un altro figlio la possibilità di una sua scelta, anche se coincide con ciò che più l’ha ferito. Quella di Lalo (Timothy Dalton) nella lucidità sottomessa all’affetto, quando riesce a dialogare al telefono con lo zio Hector (Mark Margolis) traducendo il suono di un campanello, quella di Nacho (Michael Mando) nell’incontrare una esitazione prima di fare del male e non quando deve assumersi una responsabilità.
La forza della narrazione sta nella sua capacità di creare una tensione in grado di perdurare per una stagione intera e, allo stesso tempo, di sostituire puntate su puntate per la costruzione di un personaggio con appena due scene. Una cosa che ti puoi permettere solamente grazie ad un metodo di scrittura che trascende una fruizione cronologicamente ordinata, sia in un verso che nell’altro, perché trova un suo metodo di sviluppo nella logica di un racconto che si forma nella mente di chi guarda, esulando, infine, dalla linea conseguenziale. Ancora una volta “approfittando” della portata di Breaking Bad (frase posizionata ad hoc per frecciatina che si lega alla questione dello spinoff di prima ecc…).
La forza della serie è l’investimento di un tempo effettivo nella manipolazione consapevole del tempo della fiction, che diventa sempre più fondamentale man mano che si avvicina la sua scadenza.
Walter e Jimmy
La storia di Walter White ha il suo focus nel processo di emancipazione da un mondo che lo ha trattato come una pedina da adoperare piuttosto che da includere, anche se una scelta il fu Heisenberg l’aveva anche avuta, purtroppo ci ha pensato la sua intera vita ad abbatterlo al punto da non riuscire a prenderla, come se non ne fosse meritevole.
Jimmy McGill fa un percorso simile, anche se il suo incrocia quello con un mondo da cui viene tirato fuori con l’inganno di non essere all’altezza, salvo poi scoprire di poter dire la propria al suo interno, ma ai margini di esso, quasi in una sorta di antro sotterraneo, un purgatorio se volete, almeno finché non rimane solo Saul(etto).
Per il primo è stato un lento scendere all’inferno, per il secondo trovare un posto dove stare più comodo rispetto al paradiso che è costato tutto al fratello Chuck (Michael McKean).
Nel percorso di evoluzione e poi di risoluzione di entrambi i personaggi ci si è sempre trovati di fronte ad un dilemma in primis etico, perché ovviamente siamo parlando di due figure negative, c’è poco da fare, ma mentre per Walter vale la regola del racconto pop, dunque un immaginario che richiede una divisione molto più netta per accedere al tanto chiacchierato fascino del male (non a caso è quasi sempre in prima persona coinvolto in ogni sorta di barbarie), Jimmy è molto più sfumato perché inserito in un contesto che non trova una sua collocazione precisa, pur avendone tutte le fattezze.
Un paradosso che funziona perché si sposa perfettamente con ciò che a McGill / Goodman riesce meglio: piegare una materia che ha come primo compito quello di rendere il poco chiaro, l’indefinito, perfettamente leggibile.
Una base archetipa che dice tanto sul tipo di idea di mondo che avevano in mente Gilligan e Gould, dalla quale si diramano gli archi narrativi di personaggi che, senza nessun tipo di eccezione, si fanno spingere (dagli eventi, dalle persone, dal lavoro, dai familiari, dalle loro debolezze e chi ne ha più ne metta) ai margini fino a trovare dentro di loro degli elementi reazionari che li convincono di voler vivere in quel modo. Di solito sono la rabbia e la ricerca di un riscatto attraverso l’accumulo di denaro, anche se non è mai vero fino in fondo.
This is a love story
La differenza sostanziale nell’evoluzione dei personaggi la fa la presenza dell’arco narrativo di Kim Wexler, che è uno dei personaggi femminili meglio scritti ed interpretati nella storia del piccolo schermo.
Se Jesse Pinkman è stato l’ago della bilancia nelle decisioni di Walter White, Kim è stato il faro che ha permesso a Jimmy / Saul di trovare una via in mezzo ad una tempesta che ne ha sempre offuscato la vista e il giudizio.
Lei è stata il suo specchio più veritiero, il suo lato migliore, come lui il suo, divenendo, infine, l’uno per l’altra, l’ultimo riflesso su cui poggiare lo sguardo per riconoscersi.
Le interpretazioni e la chimica tra Rhea Seehorn e Bob Odenkirk sono stati una delle chiavi di volta del successo di Better Call Saul, perché sono riusciti a creare una storia d’amore indimenticabile nella misura in cui è risultata sempre coerente e funzionale ai loro personaggi e alle rispettive storie. Non c’è mai stata un’uscita sopra le righe, un momento di autocompiacimento, un sentore di un avvicendamento nelle priorità narrative.
In questa direzione si è orientata anche una conclusione di una eleganza e di una delicatezza sopraffina e non c’era veramente un modo migliore per terminare una serie del genere. Il mondo creato da Gilligan e Gould ha sempre avuto delle regole precise e non hai mai fatto degli sconti quando ha dovuto elargire un giudizio riguardanti le azioni dei suoi protagonisti. Lo sa paradossalmente bene anche Kim, che è forse, tra tutti, il personaggio più amato dagli autori (e non vedo come sarebbe possibile altrimenti).
Anche la novità delle redenzione passa per questa regola, nonostante meritasse un premio che a nessun altro personaggio è stato riservato, forse perché nessuno, a parte Jimmy, è mai riuscito a trovare infine se stesso.
Better Call Saul è stato il regalo più bello che si sarebbe potuto fare ai fan di Breaking Bad, quanto di più bello e insperato in un momento storico come questo per il piccolo schermo. Una meravigliosa eccezione, una lezione per chi avrà il tempo e le risorse per creare qualcosa di così grande, ma anche un modo per istruire lo spettatore a pretendere di più, da se stesso e dai creativi. È stato uno di quei viaggi che ti fa sentire fortunato quando torni a casa, ti togli le scarpe e poggi i borsoni sul pavimento, perché te lo senti ancora addosso e non vuoi che vada via.