Nella giornata di ieri il quotidiano britannico The Guardian, in concerto con un consorzio internazionale di testate e giornalisti, ha pubblicato un’inchiesta dall’eloquente titolo “The Uber Files“.
L’inchiesta rivela alcune sconvenienti verità sulla startup che ha rivoluzionato il mondo della mobilità, dichiarando guerra al monopolio dei tassisti. I giornalisti hanno messo le mani su un gran numero di file, informazioni e conversazioni private dei dirigenti di Uber. Il ritratto che ne emerge è inquietante, sotto molti profili.
Ad esempio, le conversazioni ottenute dai giornalisti evidenziano lo stile spregiudicato dei dirigenti della compagnia, a partire da Travis Kalanick, che di Uber ne è stato il fondatore e, fino al 2019, il CEO. «Siamo un’azienda ‘fottutamente’ illegale», aveva scritto nel 2014, con una certa punta di orgoglio, Nairi Hourdajian, che all’epoca era il responsabile globale della comunicazione di Uber.
Complessivamente, l’inchiesta Uber Files si basa su un totale di oltre 124mila documenti riservati di Uber, tutti prodotti tra il 2013 e il 2017, ossia gli anni dell’ascesa di Uber. Nel frattempo sono cambiate moltissime cose: Kalanick non è più il CEO di Uber e l’azienda ora sembra interessata a mantenere un profilo più istituzionale, abbandonando l’idea di sfidare la leggi e i governi e rinunciando a molte delle sue ambizioni più visionarie o stravaganti (come la guida autonoma e i taxi volanti).
I soldi alla politica, giornalisti e ricercatori
Uber, si evince dall’inchiesta, da una parte avrebbe scientemente sfidato le regole in vigore, allargandosi spesso in zone grigie della legge, in modo da espandere rapidamente i suoi servizi e mettere il bastone tra le ruote ai tassisti. Dall’altra, l’azienda ha investito molto per costruirsi dei solidi rapporti con la politica, in modo che questa chiudesse un occhio sul suo stile spregiudicato, o addirittura lo promuovesse apertamente come esempio positivo di innovazione.
Negli Uber Files emerge un nome su tutti, ossia quello dell’attuale presidente francese Emmanuel Macron. Travis Kalanick era riuscito a stabilire un rapporto di estrema confidenza con il politico, al punto che i due si chiamavano per nome. In alcuni messaggi che risalgono al 2014 Macron avrebbe garantito per Uber, promettendo che avrebbe cambiato le leggi per favorire l’azienda e i suoi interessi.
Spesso i rapporti di amicizia con gli esponenti della politica venivano ‘comprati’ a suon di cospicui finanziamenti alle loro campagne elettorali. Lo stesso modus operandi sarebbe stato replicato in 40 paesi, tra cui Italia, Francia, Germania e Russia.
Sempre con l’obiettivo di guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica, Kalanick avrebbe anche destinato una grande parte del budget di Uber a favore di alcuni ricercatori e scienziati, in modo che producessero studi che dipingessero in modo positivo il ruolo di Uber – tra le altre cose – nella lotta all’inquinamento o nella diminuzione del traffico urbano.
Secondo l’inchiesta pubblicata dal Guardian, tra il 2013 e il 2017 Uber avrebbe speso almeno 90 milioni di euro in campagne di lobbying per ingraziarsi i partiti politici e i governi.
Secondo il settimanale L’Espresso, in Italia Uber avrebbe utilizzato l’ambasciatore americano John Phillips per avvicinare l’allora premier Matteo Renzi.
Per quel che riguarda l’Italia, è l’Espresso a svelare le strategie del colosso americano adottate per conquistare la politica. “Italy – Operation Renzi”, veniva chiamato internamente il tentativo di influenzare l’allora premier dell’Italia, che dai manager di Uber veniva definito “un entusiastico sostenitore di Uber”.
Uber avrebbe tentato di avvicinare Matteo Renzi anche attraverso John Phillips, che all’epoca era l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia. L’ex premier nega un coinvolgimento diretto, spiegando di non aver mai seguito personalmente la questione dei taxi e della loro liberalizzazione. “Cose che venivano gestite a livello ministeriale, non dal primo ministro”, ha detto Renzi a L’Espresso.
Il pulsante per cancellare ed occultare i file durante le perquisizioni della polizia
Tra le varie rivelazioni dell’inchiesta, viene menzionato anche un espediente per occultare informazioni potenzialmente compromettenti alle forze dell’ordine. I sistemi informatici di Uber erano dotati di un ‘kill switch’, una sorta di pulsante dell’autodistruzione. Fondamentalmente rendeva inaccessibili tutti i computer di un determinato ufficio, in caso di perquisizioni da parte delle autorità. L’interruttore di emergenza sarebbe stato attivato in almeno sei occasioni diverse: ad Amsterdam, nel 2015, ma anche in Francia, India e Canada.
Travis Kalanick, che attualmente non ricopre più posizioni all’interno di Uber, pur essendone socio, ha negato di aver mai ordinato un simile espediente per eludere i controlli. Attraverso i suoi avvocati, ha dichiarato che l’email ottenuta dai giornalisti potrebbe essere stata contraffatta da alcuni manager rivali, nel tentativo di screditarlo.
«Meglio chiedere scusa dopo che chiedere il permesso prima». Per molti anni Uber ha espanso il suo impero violando sistematicamente le leggi delle nazioni dove operava
Dalle conversazioni dei manager, emerge come Uber fosse ben consapevole di violare sistematicamente le leggi di alcuni dei paesi dove operava. In un certo senso, era il marchio di fabbrica della multinazionale americana. “Meglio chiedere scusa che chiedere il permesso”, si legge in una nota di un dirigente. Ma anche: “Prima partiamo con l’attività, poi attendiamo la tempesta di merda, le regole e i controlli delle autorità e vediamo cosa fare”.
Tra le altre cose, i messaggi di Kalanick sembrano descrivere anche un certo entusiasmo per le proteste violente dei tassisti, viste come un autogol della categoria che avrebbe favorito l’ascesa di Uber e l’approvazione da parte dell’opinione pubblica. Ad esempio, tra il 2015 e il 2016 Kalanick avrebbe ordinato una contro-manifestazione dei driver di Uber, con lo scopo di rispondere alle analoghe manifestazioni dei tassisti che chiedevano che l’azienda americana venisse dichiarata illegale. L’iniziativa sarebbe stata ordinata nella speranza che i tassisti aggrediscano fisicamente gli autisti di Uber. “La violenza è una garanzia di successo”, aveva detto Kalanick in risposta a chi gli faceva notare il rischio di una escalation. Gli avvocati dell’ex CEO hanno messo in dubbio l’autenticità anche di questo messaggio.
In ultima battuta, l’inchiesta mette la lente d’ingrandimento anche sulla complicata salute finanziaria della multinazionale, che avrebbe operato per moltissimi anni senza produrre un solo centesimo di utile. Come già si immaginava, Uber ha rosicchiato spazio di mercato ai tassisti grazie al dumping: ossia proponendo prezzi per le corse iper-competitivi, che erano resi possibili esclusivamente grazie alla continua pioggia di fondi delle banche e dei fondi d’investimento che avevano scelto di credere nel progetto. Una strategia estremamente comune e replicata da numerosi altri colossi americani: prima ti caccio dal mercato con prezzi stracciati, poi, una volta che sono monopolista, pompo nuovamente le tariffe spennando i consumatori. Un obiettivo, quest’ultimo, ancora molto lontano.
Uber ha chiuso un trimestre in positivo per la prima volta solamente verso la fine del 2021. Non per merito delle corse con conducente, ma dell’altro suo business: Uber Eats, il rivale di Deliveroo e Glovo. Peraltro, sarebbe un obiettivo raggiunto esclusivamente grazie ad una certa ‘creatività contabile’.