È tipico dei grandi cineasti quello di riuscire a fissare nella memoria collettiva un immaginario riconoscibile eppure sempre nuovo. Donatori generosi di universi in cui perdersi, riempiti da tradizioni letterarie, riferimenti cinematografici, quesiti sulla realtà e, soprattutto, la rilettura delle pagine della loro vita (si scrive per se stessi, prima di tutto, sempre e comunque). Mondi in cui ogni cosa è possibile, persino farsi beffe di quel cinismo serioso e disincantato che pervade sempre più le nostre vite e che dà a tutti una scusa per non credere più, soprattutto in se stessi. Nel caso di Paul Thomas Anderson, forse il più grande cineasta contemporaneo, ci si trova spesso di fronte ad un mosaico così variegato da rendere difficile persino scegliere un orientamento, una direzione da cui poter cominciare a muoversi, per quanto uno spunto da cui partire c’è sempre. Con quello si muovono i primi passi, quello si porta fino alla fine e poi si torna indietro, aggiustando man mano i passaggi, allargando il raggio. Lo dice spesso proprio lui: “scrivere una sceneggiatura è come stirare.“, un esercizio molto simile a quello che ha portato alla luce la sua nuova fatica, nella sua testa, non è difficile capirlo, da diversi anni.
Seguendo questo fil rouge non si può che iniziare la recensione di Licorice Pizza con la voglia trasparente del regista di distaccarsi da ciò che ha mosso gran parte della sua filmografia per lasciarsi andare a qualcosa di ancora più personale, ripartendo, paradossalmente, da dove tutto è nato. Non a caso questo desiderio viene espresso all’indomani de Il Filo Nascosto, ciò che di più solenne e quasi sacrale ha partorito Anderson, che per il suo nuovo ritorno a San Fernando Valley abbandona qualsiasi elemento accessorio, dagli scritti di Thomas Pynchon da cui è stato tratto Vizio di Forma, alle ingombranti biografie che hanno ispirato Boogie Nights, fino al gioco di coincidenze e predizioni alla base di Magnolia, per affidarsi ad una rinnovata libertà.
Partire da una passata, dall’inizio alla fine e poi tornare indietro, lasciando che sia la mano a guidare la mente e non il contrario. Vedere solo dopo i sentieri che si sono percorsi.
Così la pellicola più intima di Paul Thomas Anderson diventa anche uno dei suoi film più pieni e stimolanti dal punto di vista cinematografico, in cui è possibile riscontrare gran parte della sua formazione creativa e della sua costellazione immaginativa.
Licorice Pizza, che si rifà al nome della catena di dischi esistente nella zona della California in cui il regista ha trascorso la sua infanzia, diventa il perfetto contenitore di questa ballata dalla natura episodica, ricca di alter ego, citazioni e riferimenti, illuminata da un sole della Valley evocativo del calore dell’asfalto e di colori sgargianti (è la seconda fotografia curata dal regista, stavolta anche accreditato assieme a Michael Bauman). Per le sue strade giocano a rincorrersi i due protagonisti, prede di un amore sconclusionato come quelli reali, fatto di piccole cose e per questo lontano dal mondo dei grandi, che sembra abitato da fantasmi piuttosto che da persone in carne ed ossa.
Da tempo non più scaldate dal tepore della luce andersoniana.
La pellicola è nelle sale italiane dal 17 marzo 2022, distribuita da Eagles Pictures.
Lui e lei
Estate, 1973. Primo disco, I Put a Spell on You di Nina Simone.
Gary Valentine (Cooper Hoffman) è in fila per le foto dell’annuario scolastico quando nota l’imbronciata Alana Kane (Alana Haim), una delle assistenti dell’agenzia che si occupa degli scatti.
Lei gira con pettine e specchio per permettere ai brufolosi quindicenni (che non a caso già corrono) di darsi un’ultima sistemata prima che la loro immagine rimanga impressa per sempre. Già controcorrente.
Lui, infatuato sin dal primo momento, ne approfitta, anche se la sistemata se l’è già data, l’abbiamo visto, e si lancia alla conquista della ragazza con un approccio tra il simpatico e il molesto.
Lei lo respinge, affascinata, lusingata e un po’ incredula.
“I’m not going on a date with you kid, you’re 15!”
Sulle note di July Tree comincia la maratona musicale dei due ragazzi, in un estate in California del 1973.
Paul Thomas Anderson decide di giocare il rapporto tra i suoi protagonisti sulla linea sottile tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’età adulta, anni cruciali in cui è facile perdersi proprio perché anche solo pochi mesi fanno una differenza epocale per la propria autopercezione.
A venticinque anni si è vittime dell’idea inconscia di tornare bambini, alle prese con l’ingresso in un mondo dei grandi a cui si ambisce, ma di cui si ha molta paura. A quindici, d’altro canto, tutto il mondo gira intorno a sé e nulla è impossibile, anche essere meglio degli adulti, grazie soprattutto a propria quel tipo di incoscienza che è antidoto eccezionale contro la preoccupazione.
Gary non è avvenente, ma ha autostima da vendere: un attore e uno showman agli albori, ma già uomo su misura, dai modi carismatici e dall’ottimo fiuto per gli affari. Per la sua figura Anderson si lascia ispirare da quella del produttore bambino Goetzman e vuole per l’interpretazione niente meno che il figlio di uno dei suoi migliori amici, nonché uno dei più grandi interpreti della sua generazione, il compianto Philip Seymour Hoffman.
Alana è una ragazza desiderabile per chiunque la incontri, ma rimane l’ultima di tre sorelle e, come tale, nonostante si ritenga già una donna, è ancora costretta a giustificare al papà l’orario del rientro a casa. L’attrice è stata una delle forze propulsive per la realizzazione della pellicola, infatti Paul Thomas Anderson da tempo collabora con lei e le sue sorelle (tutte presenti nel film), che formano la band musicale delle Haim.
Il regista cavalca il concetto secondo il quale un amore adolescenziale sia necessariamente quello della scoperta del proprio Io nell’altro, trasformandolo in un gioco in cui l’obiettivo è trovare, con l’altro, il proprio posto nel mondo. Scoprire un partner al fianco del quale correre, al di là di paure razionali e preconcetti derivativi. Un processo in cui si deve essere disposti a confondersi per ritrovarsi, arrendendosi, prima di tutto, a se stessi.
Loro sono meravigliosi nelle mani di Anderson, che li modella, li veste e li sveste; li rende goffi, solari, buffi e poi sensuali, romantici e magnetici e poi ancora insicuri, spaventati e tormentati. Irresistibili nel loro scambiarsi i ruoli in continuazione, sullo schermo, nel loro personalissimo gioco a scacchi e nei cuori degli spettatori.
Loro e gli altri
Se dovessimo trovare proprio un riferimento letterario a Licorice Pizza si potrebbe azzardare nelle strisce dei Peanuts, soprattutto per la natura episodica della pellicola e per il continuo gioco di separazione tra due modi di essere, due età, due mondi e due velocità di movimento.
Si parte dal particolare per poi allargare lo sguardo.
Dalla crisi del gas del ’73 si passa ad una estate infinita, da un disco si passa ad una catena discografica, da un rapporto che coinvolge solo due mondi ad uno che man mano inizia ad inglobare sempre più realtà.
Una tendenza che porta ai vari scontri su cui si articola tutto il leitmotiv della pellicola.
Quello tra il cinema e l’altro cinema, come nella seconda pellicola di Anderson, lasciando da parte il porno e prendendo in esame il dietro le quinte di pellicole parodistiche di titoli reali come Appuntamento sotto il letto, con protagoniste figure parodistiche di personalità reali come Lucille Ball; ma soprattutto quello tra “il mondo che gira tutto intorno a Gary” e quello “reale”, che poi tanto reale non sembra. Una dimensione animata da comparse tratte da un immaginario ben conosciuto al regista, come il Jack Holden (ispirato all’attore William Holden, che PTA nominò quando gli chiesero con quale attore del passato avrebbe voluto lavorare) interpretato da Sean Penn o il Jon Peters di Bradley Cooper, esilaranti entrambi, come è esilarante il Tom Waits in versione regista di jarmuschana memoria, nel loro essere dei figuranti straordinari e la cui meticolosità di costruzione esalta ancora di più il lavoro di scrittura. Attraverso di loro si percepisce il carattere disgregante di chi ormai è costretto a vivere a quelle latitudini e a quelle velocità, orfano soprattutto di relazioni reali, come la sequenza di una certa cena dichiara esplicitamente.
Le scene che li vedono protagonisti sono come delle parentesi sospese in cui troviamo un’idea filmica quasi da thriller del regista, che volendo comunque mantenere i toni della commedia leggera, ripropone quell’ibrido spiazzante e allo stesso tempo affascinante che ha riempito l’atmosfera di Ubriaco d’amore. Anche se molto meno pronunciato nella sua deriva tensiva.
Ecco perché Gary e Alana non possono fermarsi: farlo vorrebbe dire rinunciare a se stessi e ad una relazione sincera.
Nella testa di PTA
Riprendendo l’epicentro della sua narrazione tipica, Paul Thomas Anderson apre allo spettatore le porte di un mondo mai stato così intimo come questa volta. Non perché ci sia nulla di autobiografico nella storia che racconta (almeno per quello che è di pubblico dominio), ma perché nello svisceramento degli eventi prende man mano corpo la forma più sincera e ingenua del manifesto filmico del cineasta.
Partendo da delle basi che lo avvicinano, come sempre, ma forse ancora un po’ di più, al cinema del suo mentore Robert Altman, Anderson si lascia ispirare da American Graffiti (che è uscito in sala proprio nel 1973), inquadrando per un attimo anche un simil George Lucas, prende in prestito i panni di Scorsese come non ha più fatto dai tempi di Boogie e cerca in continuazione un’impostazione visiva e dei toni che richiamino quelli di Billy Wilder, il maestro della commedia americana per antonomasia.
Lui si ispirava spesso a Lubitsch, in questo caso Anderson si è ispirato a lui, come ha ammesso il regista stesso.
Tra le canzoni dei Doors, di David Bowie, Paul McCartney e via dicendo si materializza davanti allo spettatore una Valley che il regista cerca di far scoprire attraverso i suoi occhi, animandola di un’incredibile energia poetica, un romanticismo frizzante e un’ironia con la quale mette in scena tutto il sessismo, il razzismo e il classismo che hanno animato il pensiero della società dell’epoca.
Licorice Pizza è una polaroid animata, una foto cinematografica con cui Paul Thomas Anderson ha messo in mostra la parte più luminosa e nostalgica della sua anima. Un concentrato di cinema che fa bene a chi lo guarda, che ne riempie lo sguardo e il cuore, che fa sperare ancora in una vita disordinata e negli amori senza capo né coda. Nel vortice caotico del mondo ci sarà sempre posto per chi ha il coraggio di arrendersi all’inevitabile e assecondare se stesso, anche se ciò lo portasse a correre vicino all’ultima persona con cui avrebbe pensato di poterlo fare.
Licorice Pizza è al cinema dal 17 marzo 2022 distribuito da Eagles Pictures.
Licorice Pizza è l'ultimo, meraviglioso, lavoro di uno dei cineasti più importanti del cinema contemporaneo. Paul Thomas Anderson scrive, dirige e fotografa (insieme a Michael Bauman) una storia d'amore tra un quindicenne con la fretta di crescere e una venticinquenne in crisi di identità che ha la forma di una corsa continua e sgangherata durante un'estate infinita della San Fernando Valley. Un'opera intima e fatta di piccole cose, girata con una libertà creativa tale da permettergli di racchiudere naturalmente tutta l'idea cinematografica dell'autore. La pellicola è una polaroid animata che il regista scatta prima di tutto per parlare a se stesso. Un dono agli spettatori, che riempie gli occhi e l'anima, che fa bene alla pelle e al cuore e che ognuno di noi, come lui, può dedicarsi.
- La straordinaria interpretazione del cast in tutti i suoi interpreti.
- La messa in scena mozzafiato della San Fernando Valley.
- La magnifica colonna sonora.
- La rappresentazione della storia di amore e la scelta di mettere da parte una trama troppo stringente.
- La pellicola è un dono agli occhi e all'anima di qualsiasi spettatore.
- La natura più intima e l'assenza di una trama canonica può allontanare.