Intervista a Gabriele Mainetti: “Il cinema italiano può cambiare.”

Gabriele Mainetti

Freaks Out di Gabriele Mainetti e Nicola Guaglianone è una pellicola che ha tentato di cambiare il corso della storia recente del cinema italiano. Un film di genere pensato per essere un’opera da fruizione popolare con dietro un lavoro mastodontico sia dal punto di vista realizzativo sia contenutistico, in grado di guardare ad un linguaggio cinematografico oltreoceano con la convinzione di poterlo rielaborare secondo i canoni della nostra tradizione.

Di più, un film che ha offerto una possibilità di approfondimento del mondo cinematografico italiano contemporaneo, in termini sia di realtà produttiva che di logiche di accoglienza per quanto riguarda la critica e, soprattutto ci permettiamo di dire, per quanto riguarda il “nuovo” pubblico. Oltre che un grande spunto di riflessione su cosa è ora il nostro panorama e cosa potrebbe diventare o almeno (e questo forse è ancora più interessante) verso quali lidi alcuni nomi importanti stanno cercando di indirizzarlo.

Una pellicola evento, nell’epoca in cui di questa parola si è spesso abusato, che, come ogni evento che si rispetti, è risultata anche divisiva fin dalla presentazione a Venezia78.

Abbiamo incontrato Mainetti allo scadere della quarta settimana di programmazione nelle sale italiane, durante le quali si è mosso lui in primis per accompagnare il più possibile il suo film e così toccare con mano la reazione degli spettatori.

Con lui abbiamo avuto una chiacchierata molto ampia, in cui si è parlato non solo della vicenda esistenziale di Freaks Out, ma anche delle sue aspettative come autore, di come sono cambiate prima e dopo il film, della sua visione del cinema italiano attuale e delle sue speranze per il futuro.

In occasione dell’uscita in home video di Freaks Out, precisamente dal 16 Febbraio, condividiamo con voi l’intervista a Gabriele Mainetti.

Intervista a Gabriele Mainetti

Ormai siamo alla quarta settimana di presenza nelle sale per Freaks Out e tu stai girando come una trottola dall’inizio della distribuzione. Sei soddisfatto della reazione del pubblico che hai incontrato nelle varie sale?

Sono molto soddisfatto.

Credo che sia importante una reazione così in questo momento storico molto difficile in cui, dopo Lo Chiamavano Jeeg Robot e nonostante l’importante successo di pubblico e di critica che ha riscosso, non ci sono stati altri esempi di cinema di genere così importanti. Lungi da me passare da presuntuoso affermando questo, ma penso sia al di fuori di ogni sospetto dire che si è trattato di un caso a parte, senza qualcosa che abbia realmente seguito le sue orme.

In 6 anni di assenza il pubblico si è di nuovo “diseducato”, per così dire, a questo tipo di pellicole e secondo me, soprattutto durante la pandemia, a causa dell’iper investimento dei produttori di commedie all’italiana sulle varie piattaforme c’è probabilmente stata una sfiducia del pubblico anche ad investire soldi per andare in sala.

Eternals, Dune e No time to die si sono salvati soprattutto per una lunghissima fidelizzazione che hanno con la gente, casi differenti dal mio film, che infatti ha sofferto al momento dell’uscita. Io in primis mi aspettavo forse una risposta diversa, ma quello che sta succedendo è la stessa cosa successa con Jeeg, anche se, calcolando l’affluenza nelle sale in proporzione ad allora, l’incasso è raddoppiato. A parte questo, il pubblico mi è sembrato comunque contento, soddisfatto, stupito e caloroso. Cosa che ho verificato con mano, ma anche leggendo sui social. Mi sono messo a fare pure delle ricerche con gli hashtag, pensa. Questo aspetto mi ha riempito il cuore.

Ho ricevuto anche attestati di stima e ringraziamenti da un certo tipo di miei colleghi. Altri, tra registi e produttori, gente e amici di cinema che ho sempre chiamato e incoraggiato, non mi hanno chiamato, tolto qualche nome che mi ha molto sorpreso.

Pensarsi Spielberg nella propria cameretta, quello sì che è facile. Ma poi il set è un’altra cosa.”, lo stavo scrivendo su un post poco fa. Il cinema va cambiato nei fatti, troppo facile puntare il dito contro e giudicare. Freaks Out, al di là di tutte le sue imperfezioni, ci ha provato con tutto il cuore.

Io lo dico sempre, ma non me lo scrivono mai: sfido tutti produttori italiani a fare un film così a queste cifre. Perché il problema non è che Freaks Out è costato quasi 13 milioni, ma è che è costato solo 13 milioni e rimane comunque il terzo incasso italiano vero post pandemico.

L’incontro col pubblico è la cosa che più di tutto mi convince a non raccogliere gli inviti provenienti dagli Stati Uniti, che mi spinge a proteggere il nostro spazio e a salvaguardare quello che stiamo cercando di fare qui da noi.

La mia eloquenza registica trova la massima espressione nella lingua italiana perché racconta di personaggi che oltreoceano neanche riescono a capire, forse. La tragicommedia è una realtà tutta italiana, mutuata dal dramma verdiano e dalla commedia dell’arte ed è grazie alla loro unione che sono nati quei personaggi pazzeschi frutto della mente di geni come Sonego, Age, Scarpelli, Benvenuti, De Bernardi, Vincenzoni e tutti coloro che hanno creato quella commedia all’italiana pazzesca che io metto nel mio cinema.

Se mi vado a privare di questo e vado in quello spazio artificioso che sono gli Stati Uniti un po’ mi dispiace, ma non posso pensare il cinema in due camere e cucina.

C’è qualcosa che ti ha scoraggiato in particolare?

Mi ha scoraggiato la poca fiducia che c’è stata all’inizio.

Anche se, ascoltando vari pareri, posso pensare che un film che ha a che fare con il circo e la Seconda Guerra Mondiale per certi aspetti può indisporre l’italiano… non so. Ma il film una volta visto ha attivato un passaparola e ha generato una tenuta che non ha avuto nessun altro “nostro” film.

Quindi sei soddisfatto o no?

Sono contento di quello che ha fatto rispetto a come era partito.

Chiaramente l’investimento chiedeva una fiducia maggiore al pubblico, che però non ha in assoluto nei confronti del cinema italiano.

D’altra parte c’è da dire che Freaks Out al momento ha fatto delle vendite all’estero gigantesche e questo ripaga noi produttori di molto, perché abbiamo investito e sofferto e questa sala qua ci terrorizzava.

Freaks Out

A proposito di estero, ti è dispiaciuto dell’accoglienza che ha riservato a Freaks Out la stampa americana?

Ma sai, per il mio rapporto particolare con l’America quella cosa mi ha ferito in parte.

Ero curioso di scoprire come avrebbero accolto una reimmaiginazione proveniente da un’altra cultura del loro modo di fare il cinema.

Forse bisogna fare come Boong Jon-hoo, che crea sempre un senso di colpa nei confronti degli americani o magari non lo hanno apprezzato perché è un film che ha nel suo spirito anche quello di arrivare a raccontare di un partigiano, immagine dell’angelo che si consocia con la forza statunitense per combattere il pensiero nazista e marxista, che arriva a mettere le mani addosso a una ragazzina.

Possiamo fare un breve recap della vicenda “esistenziale” di Freaks Out?

Il film è partito nel 2018 ed è finito nel 2020 produttivamente parlando.

Il soggetto è stato concepito a dicembre 2015, poi per una serie di motivi legati alla natura complessa della pellicola è stato accolto e accettato solo un anno dopo e a quel punto abbiamo cominciato a scrivere. La sceneggiatura era pronta nel 2017. Da lì viaggi, impegni, campagne e via dicendo e siamo riusciti a partire a maggio 2018. Dicembre 2020 era pronto.

I problemi in produzione reali sono cominciati a film partito, perché fu chiaro in quel momento come sarebbe costato più di quanto doveva all’inizio, quando aveva accettato di coprire le spese Lucky Red. A quel punto ho iniziato io a mettere i soldi con la mia società e poi, fortunatamente, è entrata la RAI, che ha dato la possibilità al film di essere quello che è oggi.

È possibile replicare una cosa simile nel nostro Paese?

No.

Addio cinema di genere ad alto budget quindi?

Quello che è successo non si può più fare.

Che si faccia un altro film da 10/15 milioni di genere credo di si, ma ci deve essere qualcuno che garantisca che quella cosa venga fatta bene.

Si darà in mano a grandi autori con grande credibilità.

Ma tu sei un grande autore.

Ti ringrazio.

Si potrebbero fare dei tentativi di genere con meno soldi magari, io li ho visti. Forse manca la visione.

Freaks Out

Torniamo un po’ sullo specifico di Freaks Out. Il tuo è un film fatto con 13 milioni, ma sembra fatto con il triplo dei soldi. Un paio di scene mi hanno particolarmente colpito: la scena del bombardamento della piazza poco dopo la presentazione dei protagonisti e quella in cui si sprigiona il potere di Matilde. Come ci avete lavorato con i ragazzi di EDI?

La scena del bombardamento nella piazza di Viterbo è quasi tutta realizzata dal vero, quello che la CGI ha fatto è stato giuntare i tagli, ma con dei fakes cut. Ovvero, sfruttare anche un solo fotogramma di immagine che oscura la camera per tagliare così da non far accorgere lo spettatore e dare un senso di piano sequenza.

Una cosa basilare, noi l’abbiamo fatta in un giorno, ma se avessi avuto più tempo l’avremmo potuta fare anche senza, semplicemente usando il montaggio. Nello specifico i tagli erano 5, poi i VFX hanno compositato sul fondo qualche esplosione e, in particolare, hanno rifatto la distruzione e la caduta del campanile.

Per quanto riguarda il potere di Matilde… lei era ricoperta con una pelle provvista di led con una frequenza che permetteva alla luce di vibrare e io con una manopola regolavo l’intensità della luce. I VFX dopo hanno rimappato il tutto con un modello 3D dell’anatomia di una donna per lavorare con la luminescenza.

La tua attenzione per le colonne sonore dei tuoi film è risaputa e, come è stato in Lo Chiamavano Jeeg Robot, anche qui te ne sei occupato in prima persona insieme a Mario Braga, sfruttando anche l’abilità di preveggenza di Franz, che ti ha permesso di spaziare con la scelta musicale a livello temporale. Cosa ti ha spinto a scegliere proprio quelle canzoni?

Allora, l’idea che Franz potesse prevedere il futuro è nata da un’immagine che Nicola (Guaglianone) aveva in mente di inserire, ovvero quella di un nazista che mentre ballava con un pallone gonfiabile, che riproduceva il mondo, come ne Il Dittatore di Chaplin, cantava “Il mondo” di Jimmy Fontana.

A me però sembrava un po’ ingiustificata come scelta, quindi gli dissi: “Ma come “Il mondo” di Jimmy Fontana? E’ una canzone degli anni ’60! Dovrebbe poter vedere il futuro!”. Ecco lui mi rispose, semplicemente, “Beh, fico.

Allora sai che c’è? Facciamo una colonna sonora della mia adolescenza, hard rock anni ’90.

Tra le cose “meno carine” scritte su Freaks Out c’è un rimprovero riguardo il poco approfondimento di alcuni personaggi. Sappiamo che hai dovuto eliminare delle scene, tra le quali alcune proprio legate ai personaggi. C’è n’è una in particolare che avresti tenuto?

C’è del materiale legato al personaggio del Gobbo che sarebbe stato interessante tenere.

Una scena in particolare che lo mostrava in un momento di intimità, in cui era nudo, all’interno della sua tenda e aveva appena fatto l’amore con Cesira. Quella scena mi manca tanto.

Però sai, in un film corale è sempre difficile andare in fondo a tutti, anche se tutti quanti hanno un proprio arco narrativo.

Il tuo è un cinema di genere fantastico, se vogliamo, ma è basato quasi totalmente sui personaggi che scrivi con Nicola Guaglianone. Quanto conta l’elemento fantastico, appunto, quando li scrivete?

Zero.

Noi vogliamo che il nostro personaggio sia il più vero possibile, in modo che poi l’elemento fantastico possa risultare a sua volta credibile. Questo perché a seconda di come ti rapporti con il fantastico cambia tutto.

Se conosci bene il tuo personaggio individui una modalità reale che ha nel rapportarcisi, non fittizia. Un modo per renderlo vero anche in relazione al conteso culturale in cui vive.

La presa di coscienza dei poteri per Enzo si traduce in un “Vado a rubare un bancomat.”, un pensiero italiano, non americano. Chi vuole imitare quel cinema là mai avrebbe fatto accadere questo come mai avrebbe dato i poteri nelle mai di un outsider di Tor Bella Monaca, dove io mi sono esibito per sei anni a teatro, dove mio padre ha lavorato per dieci anni e dove Nicola ha fatto l’assistente sociale.

Per farti capire che noi mettiamo sempre le nostre esperienze al servizio della storia.

Gabriele Mainetti

Sei più Franz o più Matilde?

Mi piacerebbe essere più Matilde.

Come mai le donne hanno un’importanza così grande nei tuoi film? Sia in Jeeg che in Freaks Out sono loro che salvano la situazione, in modo diretto o indiretto.

Perché le donne hanno avuto e hanno tutt’ora un ruolo fondamentale nella mia vita.

Sono cresciuto fra le donne: le cugine, le zie, le nonne… sai, anche quando sono entrato nell’adolescenza, in pieno terremoto emotivo, mi sono sempre trovato meglio con le ragazze che con i ragazzi.

Io penso che loro siano delle coscienze nettamente più forti di noi e che siano in grado di gestire il dolore molto meglio degli uomini, che ne hanno paura, che cercano di rimandare in ogni modo le sofferenze emotive, come se non le se potessero neanche permettere. Le donne invece sono molto più forti, non si spaventano, accettano la profondità umana e riescono a permettersi di affrontarla.

Per questo non mi piacciono i ruoli maschili riservati alle donne, li trovo di una mortificazione esagerata per le loro potenzialità, che invece sono ben diverse da quelle degli uomini.

Sappiamo che ti sei laureto con una tesi su Romero. Non è che stai pensando ad un horror come tuo prossimo film?

Si, ci sto pensando, insieme a tante altre cose.

Non sono convintissimo. Magari quando sarà finito il viaggio di Freaks Out avrò le idee più chiare. Devo capire come lo farò in caso.

L’horror è un genere che fa riferimento ad un immaginario ben preciso, con le sue regole, i suoi linguaggi e le sue strutture, quindi è facile fare storcere il naso quando esce da questi schemi, trasformandosi, non so, magari in una storia d’amore. Per me però i film devono essere quello che sono e devono funzionare.

Magari utilizzerò l’horror per raccontare qualcos’altro, come ho sempre utilizzato anche il genere fantastico. L’importante è che sia la trasfigurazione di un’idea contemporanea, sennò non ha neanche senso farlo.

Ultima domanda: Freaks Out è un film che si serve del circo per parlare di concetto di famiglia, che è poi simile a quella che sono poi i Diavoli Rossi ed è quella che manca a Franz. Che tipo di famiglia è e cosa ti affascinava raccontare?

Il circo è una famiglia itinerante, nomade. L’idea era quella di distruggere le mura domestiche e permettere ai suoi membri di compiere un viaggio, in questo caso facendo spettacolo in giro per il mondo.

Vedilo come un viaggio nel cinema, perché il film, oltre a raccontare la diversità, racconta molto il nostro cinema e come può cambiare.

Perché io penso che possa cambiare, la gente che lo vede è entusiasta. Quello dell’affluenza è un altro discorso, è un altro problema.

Come diceva Sergio Leone: “I film non sono dei critici, purtroppo a volte non sono neanche del pubblico, ma sicuramente sono del tempo.”

Vediamo tra dieci anni chi rimane in piedi.

 

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