Mi è capitato di sentire qualche giorno fa un monologo di un noto stand up comedian nostrano (uno dei più bravi a gusto mio, non “il più” per la presenza di un fuoriclasse conclamato), tale Filippo Giardina. Nell’occasione egli evidenziava l’incompatibilità della concezione capitalista dell’accumulazione della ricchezza con quella socialdemocratica dell’equità sociale nel momento in cui la nostra società prevede la successione. Non tanto per quanto riguarda la fredda logica, ma più che altro per come questo momento viene vissuto dagli attori in causa, soprattutto i ricchi co la faccia spaventosa, coloro che si sono fatti un mazzo tanto per arrivare in alto e ora devono passare le seconde case, le ville in Sardegna e i conti in banca ai rampolli che manco sanno bleffare a poker. Ecco, Succession, la serie più bella del momento (ma per davvero) parla più o meno di questo, nella maniera più lucida, profonda e intelligente che si sia mai vista.

Erano un paio di anni fa quando Jesse Armstrong, giornalista prima che sceneggiatore, non a caso, sottopose all’ancora “libera dalla Disney” Twenty Century Fox una sceneggiatura per un lungometraggio sulla famiglia e sul personaggio di Rupert Murdoch, fondatore di News Corporation e proprietario proprio della FOX, oltre che di giornali come The Sun, New York Post, New York Magazine The Times e, come se non bastasse, azionista di maggioranza di MySpace per un certo periodo. Si, il  77° uomo più ricco del mondo secondo Forbes, che però non ha comprato, apparentemente. Un pacchetto di un conglomerato mediatico che di fatto somiglia molto a quello di Logan, capostipite della famiglia Roy, per la cui creazione probabilmente gli autori hanno preso ispirazione da Murdoch stesso, anche per la parabola esistenziale del magnate originario dell’Australia.

Succession

Un profilo per una saga famigliare che non poteva non interessare Adam McKay, uno dei più brillanti e lucidi narratori dell’America del giorno di oggi, nonché uno che di collaborazioni con i giornalisti se ne intende e non poco (ecco spiegato il “non a caso” del paragrafo precedente). C’è lui dietro a Succession, insieme a Will Ferrell, non solo in veste di produttore, ma anche come regista della prima puntata della prima stagione (2018). Una, ma sufficiente per delineare un registro linguistico, che è diventato tratto distintivo della serie tutta e uno dei suoi incredibili punti di forza grazie al lavoro dell’eccezionale team di registi capeggiati da “sir” Mark Mylod.

Dunque, dovreste vedere la creatura di Armstrong per la presenza di McKay? Perché promette di essere uno degli spaccati d’America moderna più importanti sul piccolo schermo? Perché parla di imperi mediatici e controllo delle informazioni in un’epoca in cui il potere passa tutto da lì? Perché tratta dell’anima nera del capitalismo? O magari perché vi piacciono le saghe familiari? Di tutto un po’. Si, ok, ma nessuno di questi motivi basta realmente.

Probabilmente è più giusto dire che dovreste vederla perché è la serie meglio scritta, diretta, musicata (ave Nicholas Britell) e interpretata su piazza.

Più diretto? Vi fareste un torto a negarvela.

The Royal Roys

La storia del titolo è incentrata intorno alle vicende della famiglia Roy, una delle più ricche del mondo e beneficiaria di una considerazione simile a quelle che nel passato ispirarono i nomi reali. Una dinastia di conti, baroni, duchi, re e quindi, come da buon costume, circondata perennemente da una sorte di corte dei miracoli. Un folto gruppo composto per lo più da scalatori sociali, parassiti di varia natura e dimensione e membri più lontani dal nucleo stretto della famiglia che vogliono un posto a tavola con tanto di targhetta con il loro nome sopra.

Si apre con l’ottantesimo compleanno del self made man Logan Roy (intrepretato da Brian Cox), il patriarca, il maschio alpha, colui che ha creato da zero il vasto impero mediatico che ha preso il nome di Waystar Royco e che ora deve fare i conti con l’età, gli acciacchi e, cosa ancora più importante, un mondo che sta cambiando troppo velocemente perché un “dinosauro” come lui possa rimettersi al passo.

La conseguenza naturale? Scegliere un erede, ci sono ben quattro opzioni disponibili, Logan è anche fortunato.

Nicholas Braun e Brian Cox

Questo è quello che pensano tutti e questo è quello che pensa soprattutto Kendall (un magnifico Jeremy Strong), secondogenito nonché più naturale erede al trono designato; sì, con qualche problema di dipendenza alle spalle, ma anche con una lunga gavetta nell’azienda di famiglia all’ombra del padre padrone. Mente lucida e un cuore grande così. Ecco, questo può essere un difetto dopotutto.

C’è poi Roman, detto Romulus (Kieran Cuklyn), un bambino viziato mai diventato realmente adulto e con più di un problema riguardo la figura materna (quelli associabili alla figura paterna diciamo che riguardano un po’ tutti in famiglia); per non parlare di Connor (Alan Ruck), il maggiore che nessuno considera tale, impegnato a comprare falli storici a cifre astronomiche. Forse la più adatta sarebbe Siobhan (Sarah Snook), l’unica donna di casa, poco interessata a farsi manipolare da papino, nonostante la notevole volontà del fidanzato Tom (il bravissimissimo Matthew Macfayden), deciso più che mai a farsi strada in azienda. È lui il parassita di cui vi parlo? Certo che no, lui è innamorato di Shiv. Magari si può pensare a Greg (Nicholas Braun), il “cugino pennellone”, come direbbe mio nonno, che alla scalata dal basso da iniziare nelle vesti di mascotte nei parchi a tema di famiglia preferisce farsi strada ingraziandosi i suoi familiari all’apice, a patto che ci riesca, ovviamente.

Tutti malati di potere, a loro modo. Una combriccola niente male vero?

Un po’ Shakespeare e un po’ Impero Romano

Un incipit molto shakespeariano. C’era una tragedia scritta intorno al 1600 che più o meno iniziava in questo modo e che però Armstrong si diverte a ribaltare, perché laddove Re Lear decidere di dividere il regno tra i suoi figli, qui invece l’Imperatore Logan preferisce dividere i suoi figli, mentre lui continua a gestire l’impero.

Un ricatto geniale, in cui dietro tutta la retorica di un padre che continua ad urlare che “ha fatto tutto per i suoi bambini“, c’è il rifiuto di lasciare loro ciò che per loro ha accumulato. La spiegazione ufficiale è che nessuno si è ancora mostrato all’altezza di sedere su un trono così pesante, ma il tempo è ormai prossimo per una decisione. Ci sono i barbari là fuori, sotto forma delle nuove tecnologie, che esigono il sangue del vecchio.

Alla sospensione di questa atto poi ognuno reagisce come meglio crede.

Succession

La trama di Succession è concepita come una tela che invece di strecciarsi continua a piegarsi su se stessa, in un continuo rimescolamento dei personaggi, ognuno di essi impegnato in una lotta personale per ottenere ciò che pensa lo farà stare meglio. Un comportamento umano e comprensibilissimo. Dio solo sa il perché.

Nessun drama del 21esimo secolo è in grado come questo di mettere in scena una saga familiare di dimensioni così epiche da renderla metafora dell’ossessione per il benessere dopato del mondo occidentale, che grazie al capitalismo e alla democrazia ha acquisito agi che servono solo a renderlo più solo e un milione di buoni motivi per ingozzarsi di psicofarmaci. La vicenda viene divisa per episodi, ognuno dei quali cattura dei momenti chiave della saga familiare (compleanni, matrimoni, meeting), tutti aventi una struttura costruita in modo impeccabile, scritta e pensata al millesimo: nessun dialogo fine a se stesso, nessuno sguardo lasciato al caso. Una tensione continua, intervallata da dei momenti di satira divertenti ed efficaci e potenziata dal mescolamento di registri linguistici differenti, ma integrati veramente alla perfezione.

Umanità al microscopio

La serie è chirurgica nell’usare il potere come strumento rivelatorio per far emergere l’umanità dei personaggi, la vera forza di Succession, con i quali riusciamo perfettamente ad empatizzare proprio per il loro incontrollabile bisogno di ottenerlo, nonostante nessuno di loro sia degno neanche di farsi offrire un caffè. Bambini che fingono di essere adulti, radunati intorno ad un giochino che farebbero di tutto per rubare agli altri, anche distorcere se stessi, costringendosi ad assumere le forme più disparate per non spezzarsi definitivamente.

Da una parte c’è Kendall, vittima del più classico dei complessi edipici, in cui il padre da uccidere è realmente suo padre, mentre la madre è l’azienda di famiglia. Solo l’interpretazione di Jeremy Strong vale la visione della serie, lui è uno di quei 2/3 attori probabilmente alla più classica delle “prove della vita” (possiamo indicare Macfayden, Cuklyn e forse Braun, anche se è la sua carriera è in uno stato ancora troppo embrionale). Lui vittima e carnefice di se stesso; debole perché più umano del suo avversario, cattivo padre perché preoccupato di essere un bravo figlio, risucchiato dal vortice di colui che è stato in grado di trasformare tutto il male e il risentimento del popolo americano nel suo business di punta e che ora lo sta facendo anche con i propri figli.

Sarah Snook e Matthew MacFayden

Dall’altra ci sono Connor, Roman e Shiv sono, per conto loro, ossessionati dal bisogno di una disperata affermazione di se stessi, ma schiavi come non mai del lacerante gioco paterno, che esige che si disumanizzino per diventare il presunto nuovo volto dell’azienda di famiglia. Figli stretti in una morsa in cui devono per forza pensarsi più intelligenti di quello che sono, più importanti e solidi, solo per poi ritrovarsi a vivere dentro una bolla dominata da un solo, semplice, interrogativo: “Chissà cosa pensa papà?“.

Condannati da una insicurezza passata loro dai genitori, che li hanno costretti all’esercizio del nichilismo come unico modo per sopravvivere, a patto di accettare l’infelicità.

Analisi di un’umanità in vitro, osservata al microscopio, controllata e distante, che con il suo pianto ogni tanto rompe le barriere e improvvisamente ci assale, come la sincerità dell’amore di Tom per Shiv e la sua devozione al loro frustrante rapporto, o la gioia di Greg quando riesce a trovare un essere umano con cui entrare in contatto, prima di tornare ad essere quel parassita che deve imparare a diventare ricco.

All’apice della piramide c’è il personaggio di Brian Cox, il re della foresta, fiaccato dalle iene e dal tempo, ma pronto a sbranare i suoi stessi figli pur provare a se stesso e al mondo che lui è ancora meglio di loro.

L’invidia verso il futuro

La questione generazionale, quella con cui ho cominciato ad annoiarvi, è però la punta di diamante della serie. È ciò che la rende attuale, ciò che anima il dibattito intorno ad essa e ciò che la rende allo stesso tempo la più coraggiosa delle altre sia la più banale.

Come tutte le cose più belle e significative, quelle che quando sono compiute sembrano scontate, salvo poi non dormirci la notte.

Succession

In un momento di passaggio come quello che stiamo vivendo le colpe dei padri, che hanno segnato tutte le generazioni, sembrano essere ancora più pesanti per i figli che si stanno affacciando al mondo adesso, defraudati dagli strumenti di cui necessitano per emanciparsi dai suoi predecessori e prendere, con soddisfazione (almeno un po’, non siamo troppo ingordi), il proprio posto nella società.

Per Armstrong questo è dovuto alla disfatta di un sistema mondiale che ha giocato per troppo tempo su dei paradossi, ora caduti in disgrazia definitivamente per lasciare spazio ad una guerra generazionale sanguinosa come mai prima d’ora. Un sistema al tramonto che ha forgiato degli uomini e delle donne così potenti e arroganti da non riuscire ad accettare che i propri figli e le proprie figlie possano godere di una parte di ciò che essi hanno creato, proprio perché nel momento in cui hanno cominciato a farlo lo hanno fatto solo per se stessi.

Questo risentimento prende il nome di equità, giustizia, democrazia e libero mercato. Si parte tutti da zero.

La serie HBO si fa perfetta portavoce di questo smascheramento, sbattendolo in faccia allo spettatore, facendolo sentire lui per primo inadeguato, in un panorama in cui la maggior parte delle programmazioni e dei lavori televisivi (e non solo) lotta per somministrarci un senso di comfort che ha il solo scopo di creare dipendenza.

Succession parla dell’odio e dell’invidia dei genitori verso i propri figli che per esplodere e continuare a divampare non si fa scrupolo alcuno a mettere al rogo anche tutto ciò che paradossalmente più ama al mondo e incolpando sempre e solo loro pe le sofferenze provocate. Dopotutto, se le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, perché dovrebbero i meriti?

Infine un invito alla visione, più di così non so che fare!

 

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