Dopo un’attesa quasi infinita, considerando la prima data d’uscita fissata per lo scorso fine dell’anno, causa COVID, i Manetti Bros. riescono a portare il criminale mascherato più famoso di sempre del mondo del fumetto al cinema. O meglio, a ripotare se consideriamo lo psichedelico e futurista film del 1968 di Mario Bava.

Apriamo, quindi, questa giornata di film al cinema – la seconda di una settimana intensissima – con la recensione di Diabolik, la pellicola che da vita alla Clerville e a tutti i suoi personaggi, positivi e negativi, creata nel 1962 da Angela e Luciana Giussani e protagonista dell’omonima testata pubblicata dalla casa editrice milanese Astorina. Del resto, in un mondo dove il cinecomic è ormai evento attesissimo e giudice del botteghino, era questione di tempo prima che si cominciasse a fare sul serio usando le nostre proprietà intellettuali.

Per carità, Gabriele Mainetti aveva già preceduto tutti, facendosi il suo antieroe made in Torbella, divertendosi facendo un film capace di divertire. Un film dal linguaggio semplice, veloce e soprattutto accattivante. Una pellicola fruibile da qualsiasi tipo di pubblico, dal più esperto al più giovincello, da chi vuole andare a caccia di citazioni e easter eggs a chi, invece, vuole solo lasciarsi intrattenere da un buon film.

Ma, appunto, Lo chiamavano Jeeg Robot è completamente originale. In Italia abbiamo nel mondo dei fumetti personaggi iconici che hanno fatto la storia a livello mondiale. E mentre aspettiamo che Sergio Bonelli lanci il suo universo, dopo alcuni tentativi disastrosi da parte di terzi nell’usare Dylan Dog in maniera ben poco convincente, i Manetti Bros. hanno preso la palla al balzo. E chi meglio di questo grande duo di amanti di genere poteva dare vita al Re del Terrore? Non lo so, forse nessuno. Ma al tempo stesso questo Diabolik non è esattamente il tipo di operazione che ci saremmo aspettati.

Era abbastanza prevedibile che non tutto sarebbe andato secondo i piani. Un po’ di puzza di bruciato si sentiva già da un po’, ma a noi piace crederci, crederci fino alla fine, soprattutto quando si parla di cinema di genere, soprattutto quando si parla di due esponenti così brillanti per il cinema italiano come i Manetti Bros.. Purtroppo la conferma ci arriva e ci arriva proprio dopo la visione del film.

recensione di Diabolik

Non possiamo parlare di Diabolik come un brutto film perché no, non è vero. C’è tantissimo amore e cura per il cinema di genere, per il linguaggio filmico, per il fumetto in generale e per questo personaggio.

Eppure il film non funziona e non funziona nella complessità di progetto volto, appunto, a dare la sua visione di “cinecomic” che possa abbracciare un pubblico vasto, divertendolo ed intrattenendolo. Non ci riesce e neanche ci prova.

I Manetti Bros. scelgono la strada della densità, dell’omaggio esagerato, dalla riproduzione pedissequa. Firmano un film distaccato, esteticamente affascinante ma dall’anima fredda dove, come unica vera punta di diamante, abbiamo una straordinaria Miriam Leone, incarnazione perfetta di un’Eva Kant che dona vita, brillantezza e sensualità ad un film fatto di toni teatrali, enfatizzati con personaggi fin troppo macchiettistici completamente schiacciati da una recitazione macchinosa e priva di pathos che ci portano direttamente in bilico tra il fotoromanzo e lo sceneggiato.

Faccia a faccia col classico

recensione di Diabolik

Prima di addentrarci meglio in questa recensione di Diabolik, lasciatemi fare un paio di doverose premesse. Diabolik è un classico. Un classico in tutti i sensi per quanto riguarda il genere, per quanto riguarda il suo protagonista e la sua protagonista. È anche un fumetto enormemente influente e che ha dato stimoli importanti per il mondo fumettistico italiano (e non solo) e quello legato ai suoi personaggi, venendo tradotto praticamente in tutto il mondo.

Un criminale freddo, cinico, spietato e senza scrupoli creato dalla mente di due donne. Due donne che hanno letteralmente fondato un impero con Diabolik il quale, dopo soli due numeri dall’uscita, viene affiancato nel terzo da una donna: l’affascinante e letale Eva Kant, la quale non è assolutamente la tipica donna zerbino succube dell’uomo freddo e cinico – come del resto dirà anche la sua interprete nell’opera dei Manetti – ma è un’icona di stile, eleganza ed emancipazione. Modello di furbizia, intelligenza e scaltrezza. Un personaggio in continua evoluzione che funge anche da input per un approfondimento più psicologico, ed un cambiamento più umano, nei confronti di Diabolik stesso.

E poi, diciamolo pure, in un modo o nell’altro Diabolik è entrato nella nostra vita. Spesso è difficile ricordare esattamente quando, ma è successo. Magari in prestito da un amico, incuriositi da una copertina, il numero x lasciato sul lettino in spiaggia dallo zio o dal cugino più grande. C’è un fascino selvaggio e magnetico che lega il lettore a Diabolik, tanto nell’appassionato quanto in colui al suo primo incontro con il famoso criminale ed il suo mondo.

recensione di Diabolik

Soprattutto quando si è più giovani, a volte bambini, e si inciampa in uno di quegli albi piccoli e pratici proprio per i lavoratori, così come erano stati concepiti all’epoca per entrare nelle tasche degli operai degli anni ’60, si prova una sorta magnetismo mistico nei confronti di questa storia. Differenti sensazioni corrono lungo il corpo: da una parte l’idea di poter leggere qualcosa di proibito, qualcosa che non capiremo fino in fondo ma che ci affascina; dall’altra parte la consapevolezza è che tra le mani abbiamo qualcosa che, forse, i nostri genitori vorrebbero non leggessimo.

Ed, in fondo, Diabolik è proprio questo: qualcosa di estremamente affascinante e letale.

Il re del terrore di cui tutti hanno paura. Il diavolo nero dagli occhi di ghiaccio. L’ombra dietro un vicolo. Un fantasma sull’uscio della porta. Ammantato da un’aurea tanto sensuale quanto fatale. O meglio, Diabolik dovrebbe effettivamente essere questo, ma non è esattamente quello che si legge nel film dei Manetti Bros..

Partiamo dall’inizio. Anzi, no. Partiamo dal numero 3!

recensione di Diabolik

Antonio e Marco Manetti riescono a dare egregiamente vita alla storia del mito di Diabolik e partono proprio dal numero più affascinante dell’inizio della storia di questo criminale, Diabolik 3. Quello dove il suo percorso viene intrecciato con quello di Eva Kant, vedova e ricca ereditiera dal passato oscuro e torbido quasi quanto quello del nostro feroce protagonista.

Nel film non manca la nemesi perfetta di Diabolik, ovvero l’ispettore Ginko. Un uomo ossessionato dalla cattura di Diabolik, che vota tutto se stesso alla ricerca del criminale senza mai lasciare nulla al caso, ormai abbastanza allenato a comprendere gli enigmi più astuti e i piani più ingegnosi che l’intelligentissimo criminale riesce a mettere in piedi. Ma Diabolik è sempre un passo avanti a tutti.

E poi non mancano quei personaggi secondari, quelli che però ci danno un’informazione fondamentale su Diabolik: si, un criminale a sangue freddo, è vero, ma anche lui con una sua morale. No, non certamente un Robin Hood, ma l’illegalità di Diabolik arriva a colpire quei criminali che, invece, agiscono nella legalità, sottraendo loro quando hanno “guadagnato” attraverso perfidi giochi di potere, inganni e ricatti.

Di sfondo abbiamo una stupenda Clerville, studiata nei minimi dettagli, a partire proprio dall’atmosfera che ci conduce a vivere l’esperienza di un film noir degli anni ’60 – merito anche della colonna sonora creata ad hoc da Pivio e Aldo De Scalzi – mentre intorno a noi le pagine delle sorelle Giussani prendono vita. Lo vediamo nei tagli di regia, nelle modo in cui i personaggi e i loro dettagli vengono inquadrati, esattamente come se di fronte a noi ci fossero le tavole di un fumetto, senza però ricorrere ad effetti grafici come nel caso di Sin City. Da questo punto di vista, tutto scorre in maniera naturale, con un lavoro di fino avvenuto su carta, storyboard e poi su pellicola.

recensione di Diabolik

Tutto bello. Tutto bellissimo. Ma… Eh si, c’è un ma. Il ma che, purtroppo, fa cascare tutto questo come un castello di carte. Possiamo raccontarci quello che vogliamo per giustificare l’evidente imperfezione di questo film che, più l’osservi, più ti appare come un bel vestito degli anni ’60. Uno di quelli di oggettiva ed innegabile bellezza, ma che sa di vecchio. No, non vintage, perché il vintage può essere ancora portato. Ciò che è fuori tempo massimo, capito in che senso? Ecco, il Diabolik dei Manetti Bros. è quel vestito.

Diabolik è un film per pochi? Verissimo. Diabolik è un film che capiranno in pochissimi? Assolutamente vero. Diabolik è un film respingente per un pubblico non conoscitore del fumetto, del genere e, soprattutto, del cinema dei Manetti Bros.? Senz’altro. Ma questo può bastare per rendere un film comunque un buon film? No, non basta. Al giorno d’oggi, purtroppo, non basta. E quello che Diabolik si manifesta essere è molto chiaro: un bellissimo omaggio travestito da film, ma che rimane irrimediabilmente incastrato nel suo stesso riflesso.

La trappola dell’omaggio

recensione di Diabolik

Scendendo più nel dettaglio della recensione di Diabolik, facciamoci questa domanda: che tipo di operazione è Diabolik? Il vintage, la riscoperta del genere old school è sempre stato un tratto distintivo dei Manetti Bros.. Questo lo abbiamo visto in quasi trent’anni di cinema e televisione, dagli ultimi lavori come quella perla di Ammore e Malavita oppure con L’ispettore Coliandro.

Ecco, parlando proprio di Coliandro, del linguaggio televisivo utilizzato per questa serie, dai toni scenici a quelli parlati, vediamo come l’operazione sia quella sì di creare qualcosa di completamente anacronistico ma che al tempo stesso sorprende lo spettatore. La serie di Coliandro ha una sua coerenza narrativa e visiva, ha delle fondamenta solide, una struttura particolarissima dove ogni episodio è praticamente un film a sé stante, un protagonista (Gianpaolo Morelli) perfettamente in parte, carismatico e che crede con tutto se stesso al personaggio che interpreta, un linguaggio un po’ nostalgico ma che sa strizzare l’occhio anche ad un pubblico più giovane. È un’operazione particolare, difficile anche da inscatolare in un genere o format, ma funziona perché è pensata per funzionare.

Coliandro riporta in vita le pellicole di genere interpretate tra gli settanta e gli anni ottanta, come per esempio quelle dell’ispettore Giraldi interpretato da Tomas Milian, oppure i classici polizieschi di Clint Eastwood, ma riesce comunque a restare fedele in una sua dimensione. Non resta incastrato nella trappola dell’omaggio, nel citazionismo fine a se stesso, nel voler a tutti i costi dare vita a qualcosa nella stessa identica modalità in cui questo qualcosa è stato pensato, perdendo completamente focus, integrità ed anima. Perché dico questo? Perché questo esempio con Coliandro? Perché Diabolik è vicinissimo all’operazione di Coliandro, ma fa esattamente l’opposto.

Più che nostalgia, esaltazione del noir, del fumetto, del personaggio, Diabolik è l’abito dimenticato nell’armadio di cui abbiamo parlato prima: bello si, per l’epoca a cui fa riferimento, ma completamente fuori tempo massimo e con un pregnante odore di naftalina.

Tornando, quindi, alla domanda precedente: che operazione è Diabolik? Un’operazione illeggibile, irricevibile. Un’operazione che parte da un intento meraviglioso, come quello di dare vita ad una delle più grandi icone in ambito fumettistico italiano, ma che si perde completamente nella sua stessa tela. Nella trappola della nostalgia, dell’omaggio e del citazionismo.

recensione di Diabolik

La maniacale cura per i dettagli dei Manetti Bros. è superlativa. La grammatica del cinema di genere è parte del DNA dei Manetti e questo lo sappiamo da anni, non c’è bisogno di un film che lo sottolinei andando però ad esasperare a tal punto i toni da realizzare una pellicola che non funziona. Non funziona nella sua complessità. Ci regala momenti meravigliosi, atmosfere incredibili, ma che al tempo stesso risulta essere illeggibile, inaccessibile ai più. Per gli amanti e i grandi conoscitori del fumetto, sembrerà quasi di vedere le pagine del numero 3 di Diabolik prendere vita. Marco e Antonio Manetti riprendo scene, frammenti, sequenze paro paro al fumetto, costringendo gli attori a movenze, parlate, toni che stonano nel linguaggio filmico.

La sensazione è di profonda innaturalezza, disagio quasi nell’interpretare alcuni personaggi, in modo particolare i comprimari, soprattutto nel caso di Alessandro Roja e Serena Rossi. I loro personaggi, ovvero il viscido Giorgio Caron e l’ingenua Elisabeth Grey, sembrano quasi costretti in una struttura completamente sformata. Ogni frase enfatica risulta stonata. Ogni emozione manifestata, dalla paura allo sgomento, dal dolore alla gioia, è talmente tanto costruita, talmente tanto fedele all’opera originale nel tono e nella realizzazione, da risultare ridicola talmente tanto forzata e macchinosa. Scene che dovrebbero condurre ad enorme pathos, sfociano in un’indesiderata ilarità o sorrisetti imbarazzati.

recensione di Diabolik

E a dare il colpo di grazia ci pensa il terzo atto, un po’ l’epilogo di questo film, diciamo gli ultimi 15/20 minuti. Se fino a questo punto la narrazione era stata messa in discussione dalle scelte interpretative e dal tono dato agli attori, ha saputo comunque difendersi creando un racconto appassionante ed incalzante.

Il colpo di scena, la time bomb, il ribaltamento delle parti. Un secondo atto davvero pregno, ricco di avvenimenti e di passaggi. Si accende qualcosa, una scintilla che si anima e prende sempre più corpo, più consistenza, mettendo da parte il manierismo e i personaggi macchiettistici. Tutto questo, però, viene completamente perso nell’anticlimatico terzo atto.

Lo spettatore perde interesse nei personaggi. In quello che fanno, perché lo fanno, come lo fanno, distraendo da una sequenza action sott’acqua anche molto ben costruita e particolare. Ma nulla, la storia è finita manciate di minuti prima. Ci siamo persi. Distratti. Qualcuno si è perfino addormentato. Manca poco, pochissimo al classico finale di ogni fumetto di Diabolik, con la bellezza, la spensieratezza, la sensualità. Eppure tutto perde di importanza, di carisma, di interesse. Resta un senso di vuoto, amarezza e incompiutezza.

Meno Diabolik, più Eva Kant

recensione di Diabolik

Diabolik ed Eva Kant diventano ben presto facce della stessa medaglia. Questo avviene nei fumetti tanto quanto nel film. C’è da dire, però, che il focus su Eva Kant possiamo definirlo una vera e propria origin story che, in più di un’occasione, mette nell’ombra l’uomo dell’ombra (perdonate il voluto gioco di parole).

Ovviamente non è intenzionale ciò, eppure la percezione è quella. Non solo perché, in fondo, il personaggio della Kant è fondamentale per Diabolik e, come abbiamo detto prima, lei segna un cambiamento profondo nell’uomo. Diabolik non ha mai incontrato una donna come Eva Kant. Una donna passionale ma che non ha paura di lui. Una donna che come lui ha sofferto, si è incattivata ma che, al tempo stesso, non ha dimenticato di avere un organo nel petto chiamato cuore. Solo che Eva è molto più furba, molto più sottile e sa usare ed osare le sue doti al meglio. Non è di certo un caso se negli anni ’60 il personaggio di Eva Kant fu una vera e propria rivoluzione non solo in ambito fumettistico ma proprio in ambito culturale.

Grande icona di emancipazione. Non certo un trofeo di guerra o una tacca sulla cintura o una moglie pronta ad aspettarci davanti al focolare. Come giustamente esordisce il personaggio nel film:

Mogliettina un corno!

In questo è singolare e interessante il confronto tra Elisabeth Grey, l’ingenua infermiera convinta di essersi innamorata di un super impegnato uomo d’affari che risponde al nome di Walter Dorian, e Lady Kant.

Eva non è una donna da salvare. Al contrario, Eva è la donna che salva e salverà Diabolik in molteplici occasioni, fin da subito.

recensione di Diabolik

Miriam Leone in questo film è tutto e, a differenza di Luca Marinelli, è Eva Kant dall’inizio alla fine, dando al personaggio quella forza, sicurezza, sensualità e aggressività che la contraddistinguono. Strepitosa. Magnifica. Bravissima e bellissima. Invece, dell’uomo dietro la maschera cosa vogliamo dire?

Luca Marinelli è un attore straordinario e sono molteplici le dimostrazioni su pellicola; eppure, Luca Marinelli è uno di quegli attori “maledetti”. Quando vuole essere nella parte, lo è fino in fondo. Ci crede e te lo fa credere e ci sono dei momenti in questo film dove l’inespressività sul volto di pietra conduce ai brividi. Peccato che questi momenti siano molto pochi, ben presto sostituiti da un disinteresse nei confronti del personaggio, nei confronti del film, mascherato da distacco e freddezza.

Marinelli raschia la superficie. Indossa la maschera ma non la interpreta mai davvero. Riesce ad armonizzarsi tanto con la Leone quanto con Mastandrea – unico oltre a Miriam Leone capace di trovare una sua dimensione nei panni di Ginko e nella scelta interpretativa imposta dai registi – ma al tempo stesso ne esce comunque martoriato. La sua interpretazione non convince. Stanca. Annoiata. Del resto, se sei il protagonista e decidi di abbandonare il progetto quando ci sarebbero ancora due film da fare (ricordiamo che il secondo è praticamente completato), un problema ci sarà, no!? E chissà se non sia stato questo, uno dei problemi, ad aver inficiato con la riuscita del film…

recensione di Diabolik

In conclusione di questa recensione di Diabolik, quello che resta addosso è quel senso di assoluta imperfezione e dispiacere. Il dispiacere di quando vedi qualcosa dall’enorme potenziale ma che proprio non ce la fa, non ce la vuole fare. Non vuole andare oltre dicendo che non può andare oltre. Il dispiacere di una grande occasione mancata, di un film che avrebbe potuto essere molto più di un contenitore, molto più di un’opera così limitante e limitata nella fruizione. Un film che non convince neanche se stesso a partire dal suo protagonista.

In parte godibile per l’appassionato del cinema di genere, del cinema dei Manetti Bros. e per chi ama il personaggio di Diabolik, godendo delle inquadrature e dello stile che da letteralmente movimento all’opera di Angela e Luciana Giussani, ma che esaurisce molto in fretta la sua parte “intrattenente”.

Un film schiacciato dal suo stesso bisogno di “rinascita del genere”, dal bisogno di omaggiare senza però passare dall’adattamento, restando talmente tanto fedeli da invecchiare immediatamente come le pagine ingiallite di un vecchio albo dimenticato in soffitta.

Diabolik vive di riflessi, nostalgia e ricordi, ma quel che resta alla fine addosso è un penetrante odore di naftalina.

Diabolik vi attende in sala dal 16 Dicembre con 01 Distribution

 

65
Diabolik
Recensione di Gabriella Giliberti

Incastrati nel voler omaggiare il cinema di genere e il noir, nonché lo storico personaggio e fumetto degli anni '60, i Manetti Bros. confezionano sì l'anticinecomic che, però, rimane un film imperfetto. Un film quasi del tutto incomunicabile, che resta in superficie, abbozza i personaggi e resta intrappolato nella sua stessa rete citazionistica. Le interpretazioni volutamente enfatiche, dai dialoghi artefatti e pomposi, distaccano lo spettatore, rendono la visione stucchevole. Restano impresse le suggestioni, il fascino magnetico di Eva Kant, la cura maniacale per i dettagli.

ME GUSTA
  • L'atmosfera e la cura del dettaglio, tipico dei Manetti Bros., è una gioia per gli occhi e il cuore, restituendo le atmosfere tanto del genere noir quanto del fumetto.
  • La più fedele rappresentazione, nel bene e nel male, che si potrebbe mai vedere di un fumetto.
  • Miriam Leone è il fiore all'occhiello della pellicola, perfetta femme fatale in evoluzione. Non certo una mogliettina servizievole, ma una donna indipendente, coraggiosa e pronta a tutto. Non semplicemente un'amante ma una vera e propria complice. La perfetta incarnazione di Eva Kant.
  • La musica di Pivio e Aldo De Scalzi è sempre una garanzia, ma anche la canzone originale di Manuel Agnelli
FAIL
  • La recitazione, che vorrebbe omaggiare un tono e parlato fumettistico, sfocia nello sceneggiato, nella "soap noir", rendendo molte interpretazioni, soprattutto i comprimari, al limite del ridicolo.
  • La narrazione, e in parte anche la regia, è completamente incastrata nell'omaggio al noir e al fumetto a tal punto da perdere focus e struttura. Il risultato è artificioso, poco scorrevole e privo di pathos.
  • Il terzo atto, quindi l'epilogo della pellicola, è completamente anticlimatico. Lo spettatore è già uscito dalla storia diverso tempo prima e non ha alcun interesse verso la sorte dei personaggi.
  • Luca Marinelli, per quanto risulti molto bene in alcune sequenze, per la maggior parte del film sembra essere completamente inadeguato alla parte, talmente tanto distaccato da dare l'impressione di esserne del tutto disinteressato.
  • L'anacronismo è sempre stato un punto di forza dei Manetti Bros., ma nel caso di questo film diventa il suo difetto peggiore, escludendo automaticamente dal film un pubblico che va dai 50 anni in giù (o comunque per nulla appassionato di Diabolik).