Riuscire a restituire un ritratto generazionale è una delle ambizioni topiche di ogni pensatore, al di là delle sue coordinate temporali, sociali e geografiche. Restituirne un pari completo è un esercizio che bazzica dalle parti delle utopie intellettuali, già il realizzarlo in modo credibile è uno scopo alto. Ad ogni modo e comunque la vogliate vedere, dipingerlo per renderlo ricevibile passa dalla imprescindibile “sincronizzazione” con il linguaggio che si decide di adottare per tentare l’impresa.
Nella recensione di La persona peggiore del mondo, in concorso a Cannes74, vi parliamo di un titolo che per fare (benissimo) almeno l’ultimo dei compiti elencati, decide di affidarsi ad un dramedy che racconta 4 anni di una millennials dalla vita che tanti definirebbero sregolata perché al di fuori dei canonici schemi prestabiliti, ma che invece cerca solo di seguire la sua strada. Dentro ci sono sia la sua vicenda esistenziale, emotiva e psicologica, sia la brillante descrizione dello spettro di insicurezze che la società pone nello stabilire i suoi confini e nell’offrire i suoi punti di riferimento. Percorsi e totem inadeguati, da cui molti si sentono minacciati, come nel caso della protagonista, che trova nella sensazione di essere sempre fuori posto l’unica compagnia costante, la stessa che facilmente può portare a darsi giudizi “leggermente” fuori scala.
Una pellicola sorprendente per certi versi, la quinta di un regista poliedrico come Joachim Trier, che ci ha abituato ad una maturità notevole nell’affrontare i generi diversi (la destrutturazione della famiglia borghese in Segreti di famiglia o il thriller sovrannaturale in Thelma) e una arguta ricercatezza nelle sue volate cinematografiche.
Ricercatezza fatta con sapienza, soprattutto in questo caso, elemento che gli ha permesso anche di concedersi alcune superficialità (o semplificazioni) in sede di scrittura, un po’ giustificate in realtà dalla liquidità della generazione che vuole ritrarre, incomprensibile la maggior parte delle volte anche a chi ne fa parte.
12 capitoli più un prologo e un epilogo, come il titoli con cui è stato distribuito il film in Francia suggerisce esplicitamente (Julie en 12 chapters), struttura da romanzo più che da film, con una protagonista molto letteraria, interpretata splendidamente da Renate Reinsve, premiata sulla Croisette come migliore attrice. 12 capitoli, 4 anni, una ragazza e due storie d’amore (una con Anders Danielsen Lie, attore feticcio del regista, e l’altra con l’ottimo Herbert Nodrum) dai tratti fortemente diversi, sullo sfondo una Oslo vintage, fatta di “circoli” letterari tenuti al “buio” del focolare domestico, librerie, fotografie e vetrate colorate.
Le tante Lei e l’esercizio della messa a fuoco
Julie (Reinsve) è una studentessa modello, ancora intrisa da forti ricami familiari che la indirizzano verso la facoltà in cui i voti possono essere più facilmente traducibili in punti di forza. Quale? Beh, pare medicina. Julie è però interessata ad andare più a fondo di una semplice lettura anatomica della vita e dunque cambia presto studi. Psicologia. Le risposte non sono ancora però quelle “giuste”, la lettura di una vita non può essere ridotta allo sguardo freudiano (per quanto sia un “pensatore sempre fine perché autocritico” e bla bla), meglio uno sguardo personale, che la catturi per istanti, puntando il proprio obiettivo.
Dunque, da fotografa che paga le bollette lavorando tra i libri, la ragazza si imbatte una sera in Aksel (Danielsen Lie), malinconico e cinico autore di un fumetto underground, con protagonista una “Lince” (di nome e di fatto) con l’ano a forma di stella marina, un po’ sessista, un po’ contradditorio, un po’ egoriferito. In una sola parola: libero. Per quello che è possibile, magari proprio questo le piace di lui.
Ma si può essere liberi a 44 anni? Si può essere liberi a 28? È utile esserlo?
La libertà è un concetto che sfugge in primis ai protagonisti. Innanzitutto, liberi da che? Dal desiderio di maternità? Dalle proprie, scomode (e per chi non lo sono), eredità familiari? Dalla dimensione fascista che possono assumere le derive e le trasfigurazioni di pensieri come quello ecologico/ambientalista o quello della parità di genere? Dai turbamenti della woke culture? Dal MeToo?
Nel dubbio è utile esercitarla nelle sue forme più innocue, parlando di man o femsplaining davanti a (diversi) bicchieri di vino o parodiare le nuove e più sensuali forme del green yoga, che salva l’ambiente e fa cuccare su Instagram. Esorcizzando l’inevitabile sopraffazione.
In un mondo labirintico e velocissimo come il nostro alla fine la mente elabora solo fumo, dunque vince la messa a fuoco, la capacità di fermare tutto, di catturare l’istante, perché solo così si può fuggire in uno spazio nostro, senza fare male a nessuno. In fretta però, prima che il mondo torni ad apparire mosso, costringendo ancora a rincorrerlo.
Come si fa ad essere la persona peggiore del mondo?
Quello di Trier è un film che vive di meravigliosi momenti di lucida accettazione della propria emotività. Tutti sparsi in un percorso sovrastrutturato che ha esatto la scelta di affidarsi ad un ordine didascalico per essere fruibile sullo schermo.
Funzionale per adattare una scrittura cinematografica che per quanto arguta e piena di frecce al suo arco (terzo occhio, voiceover, onirismo, CGI, sbalzi temporali) e in grado di dare prova di un ottimo uso dei repentini cambi da toni ironici e leggeri ad altri più drammatici e profondi, risulta imperfetta nell’accompagnare lo spettatore in ogni momento. Semplicità sposa universalità, ma difficilmente è applicabile al racconto della giungla che è diventata questa nostra realtà, specialmente se si è così affezionati ai personaggi che si raccontano (tutti belli e interpretati a meraviglia). Solo pochissimi ci riescono. Già riuscire a farlo senza retorica o banalità è un successo.
In mezzo alle montagne russe emotive che sono il lasso di tempo raccontato della vita di Julie, quello che rimane è un poetico e spietato senso di inadeguatezza che avvolge la protagonista, preda della trappola ricattatoria di una realtà che fa sentire colpevoli gli stessi a cui fa credere che nulla sia mai abbastanza opportuno da riempire la loro vita e che nulla lo sarà mai.
Per orientarci il regista ci dona Lei, fin dalla primissima scena, ci dona il suo corpo, il suo viso, i suoi occhi, i suoi tagli di capelli e i suoi amori. Lei, figura cangiante, mutevole e imperfetta. Metafora del mondo che vive.
Esistere in un’epoca con tante insicurezze, intraducibili anche per l’intero pensiero Occidentale e incomprensibili per chi invece dovrebbe preparare ad affrontarle, non è una condanna a non innamorarsi o a non trovare la propria strada. Magari fuggendo, contraddicendosi, tornando sui propri passi, cambiando idea senza motivo o per uno che si ritiene anche leggermente buono.
La cosa importante è resistere alla tentazione di definirsi, anche quando persino passare per La persona peggiore del mondo fornirebbe quel senso di “pace identificativa” che si pensa possa donare la possibilità di capirsi.
La persona peggiore del mondo è al cinema dal 18 novembre distribuita da Teodora Film.
La persona peggiore del mondo, in concorso a Cannes74, è la quinta fatica del regista norvegese Joachim Trier. Dramedy europeo che racconta 4 anni della vita della millenial Julie, interpretata da una splendida Renate Reinsve premiata sulla Croisette, attraverso due storie d'amore agli antipodi. Strutturato come se fosse un racconto letterario, in 12 capitoli più un prologo e un epilogo, il film fa della sua protagonista il veicolo per narrare la vita emotiva di una generazione mossa da un senso di inadeguatezza costante di fronte ad un mondo impossibile da imbrigliare e in cui la cosa che più conviene fare è affidarsi ai rari momenti di lucidità emotiva e rinunciare a definirsi. Esercitare una libertà dal tempo in una Oslo vintage, fatta di mostre, librerie, fotografie e vetrate colorate.
- Le prove di tutti quanti gli interpreti.
- La regia di Trier, innamorata della sua protagonista e ottima nel ritratto di questa versione di Oslo.
- L'acutezza della scrittura e la capacità di amalgamare le due anime del dramedy.
- La validità e la profondità del ritratto generazionale che restituisce.
- La capacità di affrontare temi universali senza scadere mai nella retorica.
- L'imperfezione della scrittura sta soprattutto nel non avere un mordente costante per tutta la durata della pellicola.