Intervista a Michelangelo Frammartino: “È solo quando ti perdi che trovi cose nuove.”

Michelangelo Frammartino

In occasione del tour che accompagnato la presentazione del suo ultimo film Il Buco, vincitore a Venezia78 del Premio speciale della giuria, in giro per sale cinematografiche del nostro Paese, abbiamo avuto modo di intervistare il regista Michelangelo Frammartino.

Una conversazione lunga e ricca di spunti, in cui il cineasta non ci ha solamente parlato della genesi e della incredibile, quanto sfiancante, lavorazione della sua terza fatica, ad 11 anni dal suo ultimo lavoro, ma anche della sua visione del cinema. Come si è arricchito con questa esperienza irripetibile, cosa ha ispirato e ispira la sua poetica, cosa gli fa battere il cuore quando decide di fare un film e quali sono gli obiettivi che si è prefissato, in riferimento a se stesso e al pubblico.

Ma anche una chiacchierata sulla speleologia, dalla pratica ai suoi possibili significati filosofici ed esistenziali, il boom economico degli anni ’60 italiani, l’esplorazione della frontiera, il confine tra il conosciuto e il non, la differenza tra presenza e rappresentazione, fino alle capacità colonizzative delle attività umane e le sorprese che può riservare la montagna. A patto che uno sia in grado guadare solo lei, dimenticandosi di se stesso.

Intervista a Michelangelo Frammartino

Per Il Buco, ad 11 anni dal tuo ultimo lavoro, hai deciso di tornare per la terza volta a girare nei medesimi luoghi. Da dove parte l’idea del film e cosa li rende così ricchi?

L’idea parte della scoperta del mondo sotterraneo del Pollino, un luogo che già conoscevo, ma che non sapevo avesse un mondo sotterraneo così importante. Importante come la tradizione calabrese riguardante la speleologia, della quale sapevo qualcosa solo tramite Nino Larocca. Due elementi che hanno mosso in me la curiosità per la scoperta delle nostre origini e per tutto ciò che è ancora da noi non è stato toccato, che è rimasto intatto. Mi ha sempre affascinato quella differenza, quasi mai del tutto delineata.

Già quando lavorai ad Alberi, una mia installazione precedente, incontrai uno studioso che mi disse: “sai che non esiste nessun luogo che non sia stato rimaneggiato da noi? Forse un bosco in Toscana, intatto perché il legno dei suoi alberi doveva servire per sostituire le travi di una cattedrale, motivo per cui su di esso fu imposto un veto.”

C’è sempre stata un’idea ricorrente, nella filosofia e nella scienza, riguardante lo scoprire ciò che non è stato “contagiato” dall’umano, come quelle grotte. Lì puoi andare alla ricerca dello sconosciuto e dell’originario e puoi farlo fisicamente. Nessun esercizio del pensiero o dell’immaginazione. Nessuna operazione concettuale. In speleologia è facilissimo essere i primi a mettere piede in un dato luogo e ad incontrare lo sconosciuto. La partenza di questo film è stata la scoperta di un mondo ipogeo molto grande e la successiva voglia di confrontarcisi, solo dopo c’è stata la scoperta che una grotta del Bifurto fu effettivamente esplorata nel ‘61. Ciò rafforzò nella mia testa il concetto di frontiera, dato che quelli erano anni di luce, di ambizioni e benessere o quanto meno raccontati come tale. La linea tra conosciuto e sconosciuto si era fatta improvvisamente troppo forte per resistere.

Questo film lavora tantissimo sui contrasti. La tv, scatola magica, dove si vede il grattacielo del Pirellone, posta in un contesto opposto e per di più in una storia interamente sviluppata verso il basso.

Quando lavori in montaggio devi accettare l’imprevedibilità delle connessioni.

Quelli sono anni dove lo sguardo vuole andare fortemente verso l’alto: Gagarin nello spazio, Bonatti e il Pilone Centrale sul Monte Bianco, i miei genitori, come tanti altri, che si preparano a salire dal Sud al Nord… pochi anni prima c’era stata la scalata del K2, un’impresa governativa perché simbolicamente importante e spendibile, no? Tocchiamo il cielo, ci rialziamo. Quello che racconto io è un K2 alla rovescia se ci pensi, di cui non si sapeva nulla perché non era spendibile, dato che non funzionava come metafora della rinascita.

Questo contro racconto, questo contro movimento era molto affascinante. I ragazzi della spedizione non solo vanno da Nord verso il Sud, ma, arrivati in loco, scendono a metri di profondità nel silenzio più totale, nonostante la nascita contemporanea del racconto televisivo che causò la formazione di nuove vanità, ambizioni, mondi e speranze.

Pensa che gli speleologi portarono con loro anche una macchina fotografica, salvo poi dimenticare la pellicola nella grotta. Quello che li muoveva era la passione per una esperienza pura, una cosa che per noi non esiste più. Se non documentiamo non viviamo. Hai detto bene, è un film pieno di conflitti e di contraddizioni e spero essi siano la vitalità del film, noi solo adesso stiamo capendo cosa può diventare, che forma può assumere, quindi guardiamo il pubblico con grande interesse.

Michelangelo Frammartino

A Venezia ha avuto un riscontro molto positivo…

Si, assolutamente. Noi all’inizio avevamo paura a presentarci con un film del genere, per come lo avevamo concepito, e ci siamo molto fidati del direttore (Alberto Barbera) che ci ha incoraggiati e ha voluto fortemente la nostra presenza. Quella giuria è stata poi molto generosa con noi, ma la cosa che ci portiamo a casa di cui siamo più contenti è la scoperta che anche chi ha avuto delle perplessità e chi storicamente è stato sempre lontano da noi si è, in linea di massima, espresso sempre con enorme rispetto.

Ne Il Buco c’è una modellazione del canonico linguaggio registico: hai messo da parte le regole delle inquadrature del corpo umano e ti sei posizionato con la macchina molto più lontano,
privilegiando i campi lunghi. Come mai questo registro?

La natura non ha un fronte e un retro in linea di massima, al contrario di noi. C’era una bellissima battuta sulla Nouvelle Vague in cui si parlava di cinema di nuca perché c’erano autori che cominciavano con il filmare da dietro.

Tu parli di campi lunghi, ma se pensi che il personaggio inquadrato è la montagna, allora diventano tutti primi piani, no? Quando filmo i ragazzi mi tengo lontano perché essi sono ciò che permette allo spettatore di conoscere il personaggio reale del film, il quale, tramite loro, sorprende, scoprendosi piano piano.

Essi per me sono macrocorpo, d’altronde la speleologia non è fatta di protagonismi, soprattutto quella di quegli anni lì, dove i più forti rimangono indietro a prestare la loro qualità e la loro esperienza. L’eccezione è il pastore, inquadrato più da vicino, ma il suo volto non è umano, è un’olografia: anch’esso un pezzetto di montagna. Di solito, nel linguaggio cinematografico quando manca la figura umana rischia di perdersi, essendo fondato su di essa. Tutto si confonde, non ci sono più dei punti di riferimento. Banalmente ti dico che quando manca la parola il responsabile di mix impazzisce perché non sa più dove posizionare tutte le cose, ma è solo quando ti perdi che trovi cose nuove.

Anche se il sonoro è molto importante.

I ragazzi hanno fatto un lavoro incredibile.

La speleologia sembra avere una funzione metaforica di esplorazione dell’essere umano, penso
alla scena in cui si vedono le vene del pastore, che pulsano e sembrano sincronizzarsi con le
gallerie della spedizione.

C’è stato un libro che ci ha molto affascinato e che è stato molto importante per noi, Le Mystère de la mémoire di François Ellenberger, un geologo francese, che tra il ‘40 e il ‘45 fu prigioniero in un campo di concentramento. Motivo per cui decise di usare le geologia per indagare se stesso, i suoi sogni, il suo inconscio. Un documento memorabile, di cui purtroppo non è mai stato pubblicato il corpo completo, probabilmente perché non rintracciabile.

Il buco

Nel finale si arriva, almeno su carta, ad una conclusione della grotta, ma nell’ultima scena udiamo di nuovo i versi del pastore, che dunque continua ad essere parte viva della Natura, lasciando così il dubbio che sia, in un certo senso, sopravvissuto e che quindi il buco non sia stato ancora del tutto rivelato…

Una grotta non finisce mai. Anche di quella, che sembrava finita, hanno scoperto, tempo dopo, una sua prosecuzione.

Il finale è venuto fuori al montaggio, a noi interessava finisse con un suono che poi è diventata la sua voce per una particolarità melodica di cui non ci eravamo accorti all’inizio. L’azione degli speleologi è una colonizzazione del buio e dell’informe e, allo stesso modo, anche quando fai un film colonizzi perché adoperi uno strumento violento.

Zì Nicola (il pastore) non è stato mai possibile dirigerlo, quindi colonizzarlo. Una figura talmente selvatica e indomabile che non gli si poteva chiedere nulla. Questa sua dimensione testimonia e valorizza il finale: “l’uomo può colonizzare, ma fino ad un certo punto”, un messaggio che andava di pari passo con il significato riconducibile allo statuto del suono, perché va oltre il nero. Quando illumini sottometti la grotta, ma quando lanci un sasso o sbatti le mani, la grotta resiste, ti risponde, ti avverte dell’esistenza di un canale linguistico possibile.

Collegandomi alla domanda precedente, volevo sottolineare come, da spettatore, abbia trovato
molto interessante l’ordinarietà e la dolcezza con cui è accompagnato l’atto violento degli speleologi. Come mai questa scelta un po’ antitetica con il significato e le conseguenze dell’azione ripresa?

Mentre lavoravamo i ragazzi ci dicevano: “Ma noi quando scopriamo un pozzo festeggiamo! Non dobbiamo farlo?” e io rispondevo loro che quel posto lo conoscevano già e che dunque il festeggiare sarebbe stata una finzione. Noi non volevamo una rappresentazione di qualcosa, ma ricercavamo la presenza.

Loro sono loro stessi e si muovono in un set non recitando, per questo tutto diventa molto ordinario, che poi è uno dei caratteri principali della speleologia: l’assenza di pose. A me piaceva moltissimo questo aspetto. Volevo fortemente rappresentare una non epica e in più volevo concentrarmi sulla caverna. Sarebbe bastato un niente (un gesto, una parola decodificabile) per alterare l’azione al punto da sviare l’attenzione dello spettatore e fargli guardare l’umano. La cadenza e l’ordinarietà proteggevano il personaggio reale, preservandone la materia, la luce, l’umidità.

Io spero che un luogo del genere possa avere la forza ipnotica per sostenere uno sguardo pretenzioso, come è quello del pubblico contemporaneo, nonostante la non recitazione e la dolcezza dello sviluppo.

Qual è il senso delle pagine di Epoca arse per illuminare la caverna de Il Buco?

Quello è un metodo da manuale degli speleologi e ha tante possibili interpretazioni.

Quando pensi ad un film costruisci una mappa, una sorta di intreccio, e a me interessava che le rappresentazioni di aspetti della loro contemporaneità gettati nel buio si riproponessero come rifiuti nel momento della discesa, perché è quello che succede realmente quando esplori: non incontri mai lo sconosciuto, ma il conosciuto. Tu strappi con la tua luce i luoghi dal buio e li battezzi: “pozzo”, “meandro” ecc… Noi volevamo parlare di questo dramma dell’umano, condannato a conoscere la realtà. Tramite la pagine proponiamo le immagini della loro età.

Ad un certo punto, durante una delle stesure (anche se noi non scriviamo esattamente), avevamo capito di avere la possibilità di poter adoperare un racconto specifico di quegli anni e ci siamo volutamente imposti di non farlo. Abbiamo quindi deciso di utilizzare le riviste veramente di quei giorni, comprandole su Ebay, limitandoci così la scelta e affidandoci ad una dimensione del caso nella successione degli elementi.

Come definiresti il tuo cinema?

Uscire fuori dal sentiero. Seguire la volontà di esplorare. Assumendosi qualche rischio, ovviamente, ma sempre lasciandosi prendere dalla voglia di sperimentare sui linguaggi, per vedere che cosa ci riservano.

Ti assicuro però che, in particolare al montaggio, io cerco molto di contenere e portare a compimento un oggetto che possa avere una godibilità, al contrario di quando sono in sede di progettazione o in shooting, dove non ci poniamo dei limiti. Anche nel caso de Il Buco, nonostante fossimo stati un po’ severi in partenza, volendo fare un film sul buio in cui addirittura quando si vede qualcosa è già troppo tardi, in montaggio abbiamo cercato di arrivare ad una esperienza percettiva godibile, rispettando sempre il progetto.

In noi non c’è nessuna voglia di rivolgersi ad un pubblico specifico, chiuso, cinefilo, anzi, se ci accorgiamo che il lavoro risulti troppo ruvido, è nostra cura scioglierlo.

Il buco

Come hai gestito le riprese e il lavoro di troupe?

La troupe cinematografica era composta da 7 membri e 6 di noi erano abbastanza formati: io avevo iniziato a fare speleologia 3 anni prima, così come i fonici e l’assistente della macchina, mentre il cameraman è uno speleologo professionista bravissimo. Tutti gli altri, sia attori che squadra di sicurezza erano speleologi, una trentina in totale. Fuori c’era il resto della squadra di lavoro, più o meno 70 persone.

Comunicavamo con l’esterno tramite telefoni di sicurezza con la fibra ottica, mentre il direttore della fotografia era in superficie con uno schermo ad alta definizione. Per arrivare sul set impiegavamo anche ore, dunque la troupe esterna poteva svegliarsi anche molto dopo di noi e quando uscivamo, passate 20/24 ore nel sottosuolo, molto spesso loro erano già andati via. Avevamo fusi orari diversi, ci incontravamo solo la domenica. Tutto questo, specialmente alle profondità più basse, comportava una fatica enorme per pochi minuti di riprese. Un’ora di lavoro anche a fronte di 19 di spostamento. Siamo stati 6 settimane sotto. Finendo prima della pandemia fortunatamente, anche se tutta la postproduzione è stata fatta con le quarantene, cosa che abbiamo pagato molto.

Si è trattata della prima volta nella mia esperienza professionale in cui mi sono ritrovato a non farcela più: in passato c’era sempre la voglia di rubacchiare qualche giorno in più alla fine delle riprese, ma questa volta no. È stato più duro di quello che pensassimo, e dire che ci aspettavamo sarebbe stata molto dura.

C’è qualcosa in comune tra fare speleologia e fare cinema?

Si, certo. Abbiamo trovato molte connessioni, come l’immersione nel buio della sala e della grotta. In particolare io ho trovato nella speleologia un’attività molto vicina al mio cinema, perché anche in essa te ne puoi fregare dello sguardo dell’altro e fare i conti solamente con te stesso. Hai il grande privilegio di non dover vincere per forza. La speleologia è sempre una sconfitta. Non è come scalare una montagna: non c’è nessuna vetta, non sai quando e dove arrivi e quando ci arrivi non trovi null’altro che una conclusione.

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