Intervista a Alessandro Rak, regista di Yaya e Lennie – The Walking Liberty

intervista Alessandro Rak

Nella cornice di Lucca Comics & Games 2021 prima della proiezione del suo ultimo film, Yaya e Lennie – The Walking Liberty abbiamo avuto l’occasione di intervistare il regista Alessandro Rak. Il regista ha esordito con un piccolo capolavoro, L’arte della felicità. Un film italiano che non solo ha un’anima partenopea ma riusciva ad essere anche internazionale. Più tardi è arrivato Gatta Cenerentola, circa quattro anni dopo: rivisitazione della fiaba di Giambattista Basile e dell’opera teatrale di Roberto De Simone. Con il nuovo film nelle sale abbiamo voluto scoprire qualcosa in più sul suo lavoro e come è nato questo progetto.

In questi giorni ho sentito spesso parlare dell’importanza delle storie e dei motivi per cui le raccontiamo. Com’è nato Yaya e Lennie e perché hai voluto raccontare la loro storia?

In realtà la storia di Yaya e Lennie è nata per caso, perché in realtà noi stavamo lavorando su una graphic novel che avevo fatto tanti anni addietro e poi è uscito questo film della Disney, Coco, che era troppo simile per tematiche e abbiamo deciso di interrompere quella produzione. Subito dopo abbiamo deciso di lanciarci su una storia nuova immediatamente come studio Mad, siamo circa una ventina di ragazzi, e ci è venuta questa idea perché siamo partiti da Uomini e Topi di John Steinbeck, un romanzo ambientato durante la grande depressione americana. Abbiamo voluto ampliare la dimensione della crisi ambientandola in un futuro post-apocalittico e con due personaggi giovani al centro che cercano di trovare la loro dimensione all’interno di questo luogo. Non volevamo creare un post-apocalittico angosciante però, alla Mad Max per intenderci, ma qualcosa di diverso in cui spaziare. Ci abbiamo lavorato durante il periodo del lockdown e la possibilità di spaziare nei luoghi naturali e pieni di verde del film ci ha dato gioia e respiro.

Ti sei ispirato a qualcuno per delineare i personaggi protagonisti?

Allora diciamo che Yaya ha dei tratti della mia collega Vania De Rosa, che ha questo cappellino e poi per il carattere ha delle citazioni prattiane dentro di sé. Per Lennie invece ci siamo ispirati a Primo Carnera che era un pugile italiano di epoca fascista e dopo lo abbiamo rielaborato.

 

Una caratteristica dei tuoi film è quella di avere caratteristiche universali ma anche un’impronta fortemente italiana e nello specifico napoletana. Come ci riesci?

Penso che la premessa di ogni atto creativo sia quella di partire dalla propria condizione nella speranza che quest’ultima possa interessare altri. Mi spiego meglio, insieme alla mia casa di produzione facciamo un lavoro di questo tipo partiamo da un’esperienza personale, che quindi ha in sé l’anima napoletana, e da qui cerchiamo di arrivare alla condizione di universalità del messaggio che vogliamo dare. Non importa dove nasci o dove vivi ci sono delle condizioni dell’essere umano che sono universali.

La scena iniziale e la scena finale di Yaya e Lennie – The Walking Liberty, oltre alla funzione narrativa, servono a raccontare due contrapposizioni. Da una parte la catastrofe ambientale che ha azzerato la civiltà, dall’altra il dollaro abbandonato nell’erba mentre i ragazzi corrono verso la città della musica ci parlano della fine del vecchio sistema di valori. Quale idea volevi trasmettere?

In Yaya e Lennie si vuole essere sensibili alle tematiche di oggi senza diventare troppo generici o legati alla teoria. C’è un’apertura totale a letture diverse nella consapevolezza di non poter dare risposte certe e precise perché la nostra comunque è un’opera di fantasia, non un modo per fare altre domande. Le scene iniziali e finali in realtà servono a collocare l’autodeterminismo della nostra società all’interno di un contesto. Al centro della nostra storia, si affrontano questioni politiche e sociali rispetto alle quali ci si divide: alcuni ritengono che per la convivenza civile ci sia bisogno di regole, altri che non le tollerano e vogliono una rivoluzione, tutti cercano una propria dimensione.

 

Ci sono registi che ami e da cui trai ispirazione costantemente?

Non sono uno spettatore analitico lo ammetto, guardo i film proprio come un bambino e non riesco a fare differenza tra regista e spettatore. Quando devo fare un lavoro da regia non mi metto a fare molti ragionamenti quindi è come se non avessi nessun retroterra culturale anche se chiaramente, mi auguro di avere acquisito in qualche modo le abilità giuste. Per quanto riguarda le passioni cinematografiche al di là dell’animazione e dell’amore per maestri assoluti come Miyazaki e di vecchi capolavori della Disney che per me sono qualcosa su cui ritornerei all’infinito, mi piacciono molto registi come Terrence Malick oltre ai grandi Kubrick, Ridley Scott, soprattutto Martin Scorsese, e naturalmente Wes Anderson di cui apprezzo in eguale misura produzioni live e animazioni.

Nel film ci sono due punti di vista che danno vita ad altrettante filosofie di vita: quello immersivo del qui e ora, e un altro, volto a considerare le vicende dei protagonisti e dell’intera umanità da una prospettiva più ampia. Perché questa scelta?

Yaya e Lennie è un calderone in cui si affrontano non solo le relazioni umane e su quello che la società ritiene giusto o sbagliato, ma anche l’idea di mettere al centro della questione l’amore disinteressato dei due protagonisti e confrontarlo con chi invece si preoccupa di regole e comportamenti. Penso che la premessa di qualsivoglia società debba avere un dialogo fatto anche di duro confronto, come capita a Lennie e Yaya che litigano spesso, ma il volersi bene per andare avanti.

intervista Alessandro Rak

Tutto il film è una contrapposizione di due fuochi, tra ribellione e subordinazione. In questo senso il cameo de Il grande dittatore di Charlie Chaplin è geniale, insieme alle molte altre citazioni nel film. Cosa volevi far arrivare?

Ci sono scene senza tempo nel mondo del cinema e questa è una di quelle. Essendo Yaya e Lennie un film sulla società e sulle relazioni, far vedere quella scena ai personaggi mentre la cena diventa la metafora dell’umanità in cui tutti siamo commensali della stessa tavola, pronti a dialogare sul destino delle cose, voleva essere un messaggio profondo. Poi il messaggio di Chaplin è impossibile da non condividere…

A partire dagli anni ’80 il fumetto e il cinema d’animazione avevano le potenzialità per diventare nuovi vettori dell’industria. Con Watchmen e altri esempi il fumetto ha raggiunto una maturità tale da confrontarsi filosofie e disquisizioni di ogni sorta. Tu stai seguendo questa tendenza?

Allora io ritengo che l’animazione il grande calderone nel quale si riversa non solo il fumetto, ma anche il cinema stesso perché è uno spazio nel quale partendo da zero si va a inventare il singolo fotogramma. L’animazione è il mezzo ideale per rappresentare molte vicende, tu hai davanti un foglio bianco con infinite possibilità. Dentro ci puoi riversare tutto quello che ti rappresenta, musica (uno dei brani del film), foto e così via. Infinite possibilità di linguaggio. Nel momento in cui si rivolge a un pubblico più maturo l’animazione fa sentire la difficoltà di ricostruire la quantità di segni di cui un adulto ha bisogno per poter seguire una storia. Fortunatamente ci stiamo evolvendo tantissimo nell’animazione e non è più qualcosa destinata a un solo tipo di pubblico. Il messaggio è importante tanto quanto come viene raccontato e la cura che mettiamo nei nostri personaggi è infinita. Speriamo che il risultato sia all’altezza di tutte le storie che abbiamo ancora da raccontare e che il pubblico sia curioso abbastanza da volerle scoprire.

 

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