Quello del Passo Dyatlov più che un mistero sembra il soggetto per un perfetto film horror: nell’Unione Sovietica del 1959 dieci amici decidono di fare un’escursione invernale con gli sci su un passo degli Urali noto come “montagna dei morti”. Uno si loro è costretto ad abbandonare la spedizione per un problema di salute subito prima della partenza. Sarà l’unico sopravvissuto.

Quando uomini e montagne si incontrano,
grandi cose accadono.

Lo scrittore William Blake ha riassunto in pochissime parole il senso di chi va in montagna e si addentra in missioni straordinarie alla ricerca di una scoperta unica nel suo genere: un nuovo passo, una nuova vetta conquistata, questa è la montagna.

Ma la montagna è anche protagonista di moltissime storie tragiche e al limite del mistero.

Quella del passo Djatlov è uno degli esempi più famosi e inspiegabili con protagonista la montagna: un caso che ancora dopo sessant’anni suscita sgomento e angoscia. Ma cerchiamo di ripercorrere e raccontare i fatti che sono giunti fino a noi.

La storia di una missione finita in tragedia

Alcuni ragazzi nel 1959 formano un gruppo per intraprendere un’escursione con gli sci di fondo attraverso gli Urali settentrionali, nell’oblast’ di Sverdlovsk. Il gruppo, guidato da Igor Djatlov, è composto da otto uomini e due donne e la maggior parte di loro sono studenti e neolaureati dell’Istituto Politecnico degli Urali (oggi Università federale degli Urali). Il fatto avviene sul versante orientale del Cholatčachl’, che nella lingua locale significa “montagna dei morti“. Il passo montano della scena dei fatti è stato da allora rinominato “passo di Djatlov” dal nome del capo della spedizione, Igor Djatlov.

L’obiettivo della spedizione è raggiungere l’Otorten, un monte che si trova dieci chilometri più a nord rispetto al punto in cui avverrà l’incidente. Il percorso scelto, in quella stagione, è valutato di terza categoria, vale a dire la più difficile, ma tutti i membri della spedizione hanno alle spalle esperienza sia di lunghe escursioni sugli sci, sia di molte spedizioni di montagna.

Il gruppo arriva il 25 gennaio in treno a Ivdel’ e da lì fino a Vižaj, l’ultimo insediamento abitato prima delle zone che intendono esplorare. Il 27 gennaio si mettono in marcia da Vižaj verso l’Otorten, ma il giorno seguente, uno di loro, Jurij Judin, è costretto a tornare indietro a causa di un piccolo problema fisico.

A questo punto il gruppo da dieci diventa un gruppo di nove escursionisti.

I diari e le macchine fotografiche (con relativi rullini) ritrovati attorno al loro ultimo campo rendono possibile ricostruire quasi alla perfezione il percorso della spedizione fino al giorno prima dell’incidente.

Il 31 gennaio il gruppo arriva sul bordo di un altopiano e inizia a prepararsi per la salita. In una valle boscosa depositano il cibo in eccesso e l’equipaggiamento che sarebbe dovuto servire per il viaggio di ritorno. Il giorno dopo, il 1º febbraio, gli escursionisti cominciano a percorrere il passo. Sembra che avessero progettato di valicare il passo e di accamparsi per la notte successiva dall’altro lato, ma a causa del peggioramento delle condizioni climatiche perdono l’orientamento, deviando verso ovest, verso la cima del Cholatčachl’.

Quando capiscono l’errore commesso, decidono di fermarsi e accamparsi per la notte sul pendio della montagna, in attesa che il tempo migliori. Nessuno di loro arriverà alla mattina successiva.

I corpi dei giovani furono ritrovati sparpagliati attorno zona dove si erano accampati, semi-svestiti, alcuni senza segni di traumi e altri con fratture gravi al cranio e al torace.

Alcuni di loro erano senza gli occhi e uno addirittura senza la lingua.

Le autorità sovietiche indagano sull’accaduto, ma dopo tre mesi chiudono il casodel passo di Dyatlov con una sentenza alquanto generica: la tragedia sarebbe avvenuta a causa di misteriose “forze naturali”.

Ufo… Yeti… come sono morti gli escursionisti?

Le cause delle morti degli escursionisti hanno interessato esperti e scienziati da tutto il mondo proprio perché lo stato di ritrovamento degli stessi ha suscitato grande interesse, ma cerchiamo di raccontare le varie possibilità che sono state proposte.

Intanto nessuno dei nove si trovava nella tenda ma, dall’accampamento, numerose impronte si muovevano verso il vicino bosco. Proseguivano per circa cinquecento metri sotto a un grande albero di cedro dove i soccorritori trovarono le tracce di un fuoco e i corpi di Jurij Nikolaevič Dorošenko e Jurij Alekseevič Krivoniščenko. 

I due, morti probabilmente per ipotermia, indossavano solamente la biancheria intima. Altri tre ragazzi furono ritrovati poco dopo nello spazio compreso tra l’albero e il campo base. Degli altri quattro ragazzi non c’era invece alcuna traccia.

Furono trovati soltanto quattro mesi dopo sotto due metri di neve in un burrone all’interno del bosco.

I loro corpi furono rinvenuti a circa cinquecento metri dai primi due corpi e, a differenza dei primi, in cui era quasi certa la morte per ipotermia nonostante Slobodin avesse una leggera frattura cranica, gli ultimi quattro mostravano gravi lesioni interne con costole spezzate, gravi fratture craniche e, addirittura, Vasil’evič fu trovata senza lingua e con entrambi gli occhi mancanti.

Cosa particolarmente surreale: nessuno dei tre cadaveri presentava escoriazioni esterne, ma per gli investigatori i giovani mostravano sui corpi molti segni causati da una forza paragonabile a quella di un violento incidente stradale. Ovviamente non fu trovato nessun segno di urto nei loro corpi. Inoltre tutti gli indumenti recuperati presentavano un livello elevatissimo di radioattività e, oltre ai corpi, furono rinvenuti dei frammenti metallici la cui natura non è mai stata ben chiaramente identificata.

Entità aliene? Esercito?

Altro dettaglio ancora più impressionante: le tende dei ragazzi sono state lacerate dall’interno.

Alcuni anni dopo l’accaduto le autorità si limitarono a chiudere l’inchiesta indicando come causa della morte “una forza misteriosa e sconosciuta”. Oltre a questo, per ragioni che non sono mai state rese pubbliche, l’area è stata interdetta al pubblico per i tre anni successivi, cosa che ha alimentato ancor di più l’aura di mistero dietro all’accaduto.

L’ipotesi più accreditata

In totale, la procura ha esaminato settantacinque teorie su ciò che potrebbe essere accaduto al gruppo Djatlov, ma le più popolari erano nove tra cui: un ufo, un test missilistico, un’esplosione nucleare, un uragano, un terremoto negli Urali settentrionali, una valanga e persino una scaramuccia con dei sabotatori stranieri paracadutatisi in Unione Sovietica. Più il tempo passava e più romanzieri e sedicenti esploratori fornivano la loro “verità”.

Ad inizio del 2021 è stato pubblicato su Nature un articolo molto accurato che ha messo la parola fine (forse) ad uno dei più grandi misteri dell’escursionismo e non solo.

Sul magazine Communications Earth and Environment si è trovato una spiegazione plausibile e scientificamente valida, e forse anche molto deludente per chi negli ultimi decenni aveva vagheggiato di bestie feroci e strani fenomeni paranormali.

Fu probabilmente una valanga a uccidere gli escursionisti.

L’articolo ha dimostrato che la causa principale della morte dei nove escursionisti fu lo smottamento di uno strato di neve molto compatta a monte dell’area che gli escursionisti avevano modificato per sistemare in piano l’accampamento. Sopra questo strato si trovava neve meno compatta e più scivolosa, che cedette a causa del peso di quella fresca accumulata dal vento.

L’ipotesi della valanga, in realtà, era stata avanzata dalle autorità russe già nel 2019, quando il caso del passo di Djatlov era stato riaperto a causa di un pressante interesse dei media, ma rimanevano dei dubbi a causa della mancanza di prove sostanziali.

Gli autori dell’articolo, Johan Gaume, della Scuola politecnica federale di Losanna e Alexander Puzrin, del Politecnico federale di Zurigo, hanno scoperto che il terreno ondulato del Cholatčachl’ aveva tratto in inganno le prime rilevazioni: in realtà la parte di terreno dove erano accampati gli escursionisti è molto vicina ai trenta gradi, un’inclinazione sufficiente a innescare una valanga.

Lo scarto di nove ore tra l’allestimento della tenda e la valanga è invece spiegato da quei venti molto forti che vengono giù lungo i pendii delle montagne: secondo i ricercatori, trasportarono grandi quantità di neve verso l’accampamento, aumentando il carico sul cumulo.

I ricercatori per confutare l’ipotesi hanno quindi messo a punto un simulatore di valanghe, con l’aiuto degli algoritmi sviluppati per realizzare il film Disney Frozen: Gaume aveva trovato estremamente realistico il modo in cui veniva reso il movimento della neve nel film, e proprio per questo motivo decise di andare in America per provare a confutare la propria idea.

I ricercatori hanno calcolato che la lastra di neve in questione fosse grande all’incirca quanto un SUV, e si sono avvalsi dei dati di un crash test effettuato dalla General Motors per valutare l’impatto della lastra sul corpo degli escursionisti. Stando sempre ai dati raccolti, hanno concluso che una lastra di neve di quelle dimensioni poteva facilmente rompere le costole o crani di una persona sdraiata su un supporto rigido come il caso degli escursionisti che usavano gli sci come appoggio.

Questa ipotesi tuttavia ancora non spiega alcune situazioni come il perché tutti gli escursionisti siano poi usciti fuori dalla tenda, né perché siano stati trovati parzialmente svestiti, anche se sappiamo che in fasi forti di ipotermia il corpo viene invaso dal cosiddetto “spogliamento paradossale” dove lo stato confusionale fa percepire un forte caldo al soggetto.

E gli organi mancanti? Probabilmente opera di animali selvaggi. Insomma il mistero sembra finalmente risolto, anche se il ricercatore e autore dell’articolo Johan Gaume in un’intervista al National Geographic ha voluto ribadire:

Questo studio non cerca di spiegare tutto ciò che successe quel giorno del 1959, semplicemente, offre un resoconto razionale degli eventi.

 

Per approfondire:

 

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