Era una casa molto carina, senza soffitto, senza cucina. Non si poteva entrarci dentro, perché non c’era il pavimento. Non si poteva andarci a letto, in quella casa non c’era il tetto. Non si poteva fare pipì, perché non c’era il vasino lì. Ma era bella, bella davvero, in via dei Matti numero zero.
Chi lo avrebbe mai detto che un canzone così spensierata, allegra ed infantile come quella di Sergio Endrigo, un giorno sarebbe diventata una nenia presagio di dolore, disperazione e morte? Eh, con questa recensione di A Classic Horror Story scopriremo perché! Il film, pellicola seconda del regista italiano Roberto De Feo, questa volta accompagnato dietro la macchina da presa da Paolo Strippoli, debutta su Netflix il 14 Luglio.
Fin dai primi teaser e trailer, A Classic Horror Story ha seminato un po’ di indizi sul fatto che forse non era proprio la “classica” storia dell’orrore, ma qualcosa di molto di più. La stessa casa, luogo iconico di moltissimi horror, diventa ancora più evocativa grazie alla forma che ricorda quella di una chiesa e anche la particolarità del colore rosso che l’adorna, quasi come se grondasse sangue, definendo immediatamente il più nefasto dei presagi e rendendo il luogo immediatamente cult.
La ritualità, infatti, è un altro elemento piuttosto forte che traspare fin da subito con le prime immagini: la stessa casa, il bosco, i fantocci e le maschere, riportandoci immediatamente ad un grande classico come The Wicker Man, fonte d’ispirazione del più recente e incredibile Midsommar di Ari Aster.
Il gusto estetico internazionale del film che, come vedremo, prenderà piede in maniera molto prepotente, non solo si sposa perfettamente con la tipologia della pellicola – primo indizio del vero “messaggio” che poi i registi vogliono comunicare con essa – ma anche con la tipologia di distribuzione: Netflix.
A Classic Horror Story, infatti, fin dal 14 Luglio arriverà in tutti i Paesi in cui il servizio è attivo. E presentare un film “così internazionale” ma che giostra in un determinato modo alcuni degli stereotipi affibbiati al cinema e al folklore italiano, non è roba da poco.
Queste, però, sono solo suggestioni nate prima di vedere il film. Diciamo che la pellicola è stata presentata bene e, ad un primo sguardo, ci sembrava essere davvero qualcosa di nuovo, di fresco e, soprattutto, particolare (perché originale non è esattamente la parola giusta per un film chiamato A Classic Horror Story, ma anche qui c’è un trucchetto). Ma quindi, queste suggestioni, si sono dimostrate fondate oppure no?
Dopo aver visto il film in anteprima nei giorni scorsi, e trovandomi a scrivere questa lunga recensione di A Classic Horror Story, posso dire che i sospetti erano fondati e che le aspettative su questa pellicola si sono mostrate più che soddisfatte (certo, con qualche piccolo intoppo qui e lì e magari con un po’ di freno lì dove si poteva marcare, soprattutto sul finale, la mano ancora di più); anzi, quello che mi si è parato davanti agli occhi non è solo un film horror, splatter e denso di piccoli colpi di scena, curato in maniera maniacale sui dettagli, location e costumi, che sa prendere tanto a pieni mani dalla tradizione italiana di grandi cineasti che hanno fatto la storia del nostro horror come Argento, Bava e Fulci, ma che ha saputo anche estrapolare alcune delle intuizioni più geniali da pellicole che sono rimaste piuttosto impresse nell’immaginario collettivo horror più recente, come per esempio Cabin Fever di Eli Roth e Quella Casa Nel Bosco di Drew Goddard.
No, A Classic Horror Story è decisamente più di questo.
L’horror diventa un filtro. O meglio, torna ad essere un filtro della realtà, della società, della politica un po’ come ci avevano mostrato i grandi maestri degli anni settanta come George Romero, Tobe Hopper, John Carpenter e Wes Craven (del resto, la stessa estetica del film, come vedremo, prende a piena mani proprio dal cinema degli anni ’70/’80). Ed anche qui, non basta. De Feo e Strippoli non vogliono semplicemente immolarsi in un film citazionista. Loro vanno oltre la citazione che, abilmente, diventa un’arma a doppio taglio sfoderando un enorme schiaffo tanto al pubblico generalista quanto all’appassionato, prendendo sarcasticamente per i fondelli il genere, il cinema horror italiano e anche “noi” sedicenti critici, mai soddisfatti e sempre pronti ad alzare il nostro ditino contro.
Chi è il vero mostro? Lo stereotipo. Il cliché. Il “sentito dire”. La pigrizia e la presunzione di voler parlare e giudicare qualcosa senza averla per davvero vista. Sentenziare aspramente su un prodotto, un’opera ma averla vista in 2x (rabbrividisco, altro che torture medievali).
Un’industria che ci ha tarpato le ali. Un circuito che presto si è trasformato in un circolo vizioso, senza dare possibilità di ripresa o di replica. Le idee nuove, quelle coraggiose e sperimentali vengono lasciate nel cassetto. I nuovi talenti vengono castrati. Ci imboccano di mainstream e film senz’anima, lasciandoci credere che il genere in Italia non si possa fare, che un certo tipo di film non si possono fare e che, quindi, di conseguenza, non siamo in grado di farlo.
Ma Roberto De Feo e Paolo Strippoli con ironia (e anche un pizzico di autorinia), passione e maestria, ci dimostrano che tutto questo non è vero e vanno anche oltre.
Quella casa (molto carina) nel bosco
Le premesse del film sono tra le più – volutamente – scontate e abusate nel panorama del cinema horror: un camper con dentro cinque persone (che in questo caso non sono amici ma più passeggeri di un carpooler) sbanda a causa di un animale morto sulla strada. L’impatto è talmente tanto feroce che perdono tutti i sensi dopo aver sbattuto contro un albero a pochi metri dalla strada. Al loro risveglio, però, qualcosa di inquietante gli attende: la strada è sparita.
Letteralmente la strada non esiste più e si ritrovano nel bel mezzo di un bosco labirintico dove tutte le strade sembrerebbero portare ad un unico luogo nevralgico: una casa.
Dalla forma spigolosa e geometrica, ricordando la facciata di una chiesa, e dai colori scuri e scarlatti, la casa sembra essere disabitata; eppure, l’inquietante arredo e altri piccoli dettagli fanno intendere al gruppo che non sono da soli, ma che qualcosa effettivamente è lì con loro.
Inizia una schiera di piccoli e sempre più inquietanti indizi, come per esempio un altare dedicato alla leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, “padri fondatori” della mafia in italiana (Camorra, Cosa Nostra e ‘Ndragheta), ma con un aspetto decisamente più inquietante e un’interpretazione della storia dei tre fratelli spagnoli molto più macabra e cruenta dell’originale. Non passa troppo tempo, tra animali morti, fantocci di legno e una bambina segregata rinchiusa in una prigione di paglia e rami secchi, che i cinque capiscono di essere precipitati in un sanguinolento culto di gente di campagna, convinta di dover sacrificare vite umane ai tre patroni per poter prosperare e vivere.
L’anima del film inizia a prendere vita dando il via ad un nuovo incubo ad occhi aperti per i nostri protagonisti che interpretano tutti i ruoli più archetipici del cinema horror: la final girl, la bionda un po’ superficiale, il cinico maturo, lo stupido belloccio, il freak inquietante.
Il tutto ambientato in una location di vero brivido. Il bosco labirintico dona allo spettatore, grazie anche alla sicurezza dietro alla macchina da presa e le scelte fatte in occasione di alcune delle più suggestive riprese, un senso di smarrimento e claustrofobia.
Così come i protagonisti, siamo intrappolati dentro un loop fatto di soli alberi, dettagli inquietanti e la sola consapevolezza di ritornare sempre e solo al punto di partenza.
Il lavoro scenico fatto sulle location è magistrale! Roberto Basili (scenografo) ha svolto un lavoro incredibile sulla casa ma ha anche saputo sfruttare le suggestioni della foresta circostante, ovvero la Foresta Umbra. Sebbene, infatti, il film si ambienti in Calabria, è stato girato tra il Lazio e la Puglia.
La Foresta Umbra, il cui nome derivante dal latino significa appunto ombrosa e cupa, è situata all’interno del Parco Nazionale del Gargano a circa 800 metri d’altitudine. Gioca un ruolo fondamentale, creando gran parte dell’atmosfera del film che, quindi, ha l’ulteriore difficoltà dell’essere stato girato in esterna. Atmosfera affinata ovviamente tanto dalla fotografia di Emanuele Pasquet, quanto dalla regia.
Fiore all’occhiello costumi, maschere e make-up, ricchi anche questi di citazioni, e dove la cultura cinematografica per il cinema horror (e il cinema in generale) dei due registi, si fa sentire con enorme orgoglio.
La cura di ogni minimo particolare di questo film è, senza ombra di dubbio, uno degli aspetti che più lo fa spiccare in un panorama italiano di genere che ristagna su se stesso.
Tra metacinema, citazioni e stereotipi
Fin da subito, l’aspetto meta della pellicola di De Feo e Strippoli prende forma in una serie di visioni e citazioni, che cominciano dall’aspetto più estetico con un retrogusto anni ’70/’80. Il buon vecchio e caro cinema slasher – pre-nato in Italia con Reazione a Catena di Mario Bava – che ha visto dare vita ad alcune delle maschere più amate e iconiche del panorama horror: Leatherface, Michael Myers, Jason Voorhees e Freddy Krueger.
Lo stereotipo horror viene usato come arma di narrazione, sorpresa e capovolgimento della storia. Ci ritroviamo a scoprire nella pellicola piccoli elementi dai grandi rimandi. Appunto, non solo slasher, ma anche l’horror religioso ha un suo peso non da meno. In questo caso sicuramente The Wicker Man e Midsommar sono le citazioni che ci viene da fare più spontaneamente, tanto per il culto alla base del film quanto poi per il fanatismo che anima alcuni dei personaggi che vedremo comparire.
I fantocci, i sacrifici umani, l’estrapolare determinati organi come occhi e lingua, falò, i volti mascherati tanto di chi celebra il rito quanto degli adepti. Elementi curati nei minimi dettagli che ci riportano indietro anche verso una certa tradizione del make-up, degli escamotage tecnici e “mostri” del cinema horror come ci hanno insegnato Mario Bava e Carlo Rambaldi o un ancora in attività Sergio Stivaletti.
Sequenze cliché prendono vita, omaggiando anche pellicole come Evil Dead di Sam Raimi (la scoperta della casa, il bosco che sembra essere quasi animato) o un più recente Silent Hill di Christophe Gans con un’inquietante sirena che mette in stato di allerta i nostri malcapitati; e come detto prima, si potrebbe citare anche il Cabin Fever di Roth e Quella Casa Nel Bosco di Goddard per il gusto di alcuni escamotage e scelte narrative, come l’uso dello stereotipo come forza della pellicola, che vengono gestiti dai due registi. Così come le sequenze in cui le nostre protagoniste – interpretate da Matilda Lutz e Yuliia Sobol – si ritrovano braccate nel bosco, tra i muri della casa, intrappolate, perseguitate, come tradizione delle più iconiche scream queens vuole.
Da questo punto di vista A Classic Horror Story è davvero la classica storia dell’orrore ma perché funge da aggragatore di alcune delle intuizioni, creazioni, topoi e archetipi del cinema horror. Ma è solo questo? No, questa è solo al superficie.
Molto più di una storia dell’orrore
Come stiamo vedendo in questa recensione di A Classic Horror Story, fin dal titolo la pellicola ci appare come una dichiarazione d’intenti. Un film nel film che rappresenta il cinema, il genere e il pubblico ma va a toccare anche la società, il vero male insito dentro di noi.
A Classic Horror Story, un po’ come aveva e ha fatto Ryan Murphy nel suo American Horror Story, arrivando a metà del suo secondo atto ci appare per quello che è davvero: una larga metafora sul cinema ma anche sulla società.
Nel primo caso, la regia di De Feo e Strippoli – brillante, angosciante e interessante – giocano con l’insofferenza da parte del pubblico e dell’industria. Si burla di noi e del sistema, quello stesso sistema che fin troppo spesso limita i grandi autori, preferendo storie e generi più confortevoli e dal “successo” assicurato.
Coraggio, sperimentazione, originalità sembrano essere parole da abolire, da cui prendere ferocemente le distanze, saturando però lo spettatore, il mercato e l’offerta. E quindi? Quindi eccole che arrivano le classiche frasi da: “Noi italiani l’horror non lo sappiamo fare” oppure “Un horror italiano? Sarà una schifezza.” ed ancora “Io i film italiani non li guardo”. Sfociando poi in quella terrificante usanza, ormai dominante in tutti gli ambiti, dal cinema al videogioco, di parlare e giudicare cose che non si hanno visto (se non per qualche secondo).
Ma non era lo stesso Nanni Moretti che ci ricordava di non parlare di cose di cui non sappiamo nulla? Cosa ci spinge a dover dire la nostra anche senza essere competenti? Anche senza aver neanche lontanamente visto il film in questione? Presunzione. Arroganza. Superbia.
E la sicurezza che, in fondo, noi avremmo fatto meglio. Noi con il nostro sedere ben piantato sul divano, avremmo fatto meglio di chi c’è dall’altra parte dello schermo. Ma ne siamo così sicuri? Non siamo forse diventati schiavi di una realtà fittizia, distorta, devoti anche noi ad una sottospecie di Dio del Caos e dell’Ignoranza che ci illude di essere chissà quanto illuminati in cambio di un “tributo di sangue”? Ecco, forse questo è decisamente più veritiero. E questo riguarda anche un certo tipo di critica cinematografica, vecchia e stantia, incapace di proiettarsi verso il futuro e con lo sguardo incastrato al passato. Zombie, matusa senza anima, che hanno dimenticato la parola empatia, emozione e passione.
E tutto questo si collega al secondo grande focus di questo film: la critica alla società, alla realtà, al voyeurismo tossico che ci ha reso esseri quasi robot incapaci di provare per davvero orrore, ribrezzo e paura neanche di fronte alle reali tragedia della vita.
I film horror ci annoiano, ci stancano presto, non ci fanno paura ma poi siamo pronti ad ascoltare, a leggere, a nutrirci dell’ennesimo omicidio, delitto passionale, mostruosità compiuta dall’essere umano. Appunto, un voyeurismo malato, perverso che attraverso i media entra nelle case di tutti noi e ci fa nutrire costantemente di orrore, di morte e depravazione. Un orrore al quale siamo perfino troppo abituati, come una madre che ammazza un figlio o una cugina gelosa che butta in una pozzo una ragazzina, una fucilazione in pieno giorno da parte della mafia o un uomo soffocato da un poliziotto, l’ennesima donna violentata e torturata dal compagno geloso. È di questo che ci nutriamo ogni giorno.
Ed è così che Osso, Mastrosso e Carcagnosso, il nostro folklore italiano che è diventato culla per una delle piaghe più terrificanti della nostra terra, non sono più i “padri fondatori” della Mafia italiana, non sono solo i nuovi Michael, Jason e Leatherface protetti da una maschera, ma siamo noi. È l’essere umano, la sua fame, la sua ipocrisia e costante sete di sangue sulle disgrazie altrui. Siamo noi la setta che elegge a falsi miti e dei – un po’ come narrava Neil Gaiman nel suo American Gods – immolandosi al loro alla ricerca di fama, di potere, di successo, di like che misurano la nostra “celebrità”. Necessitiamo di consenso e, al tempo stesso, esigiamo di giudicare il prossimo.
Inquietante. Malato. Perverso.
Un “gioco” che fa parte della nostra vita e trasforma la realtà in un film horror… O meglio, un pessimo film horror di cui vogliamo essere carnefici. Rifuggiamo dal mostro sotto al letto, dalla creatura chiusa in cantina o dall’uomo nero nell’armadio o dietro quella porta, ma poi i nostri occhi, le nostre orecchie, sono affamate di tragedie, di orrori quotidiani, di violenza. E ce le gustiamo come se fosse tutto falso, tutto uno show da guardare sulla nostra piattaforma preferita, di fronte ad una ciotola fumante di popcorn, sul nostro divano e “al sicuro” tra le mura della nostra casetta dove, nonostante il marcio che ci corrode, continuiamo ad essere uomini e donne, padri e madri, figli e fratelli e sorelle, come se, in fondo, il resto non ha importanza.
La genialità di Roberto De Feo e Paolo Strippoli è proprio in questo.
Un film dissacrante, ironico e che violentemente, giocando proprio con i modi di dire, gli stilemi dell’horror, gli stereotipi, le tradizioni e contraddizioni della nostra società, rappresentano il perfetto ritratto di un mondo che gira al contrario. Si affermano come voce tuonante di una generazione di cineasti stanca di essere limitata a mero stereotipo, pronta a fare il grande passo e coraggiosa nel voler costruire un cinema che non sia semplicemente nazionale o internazionale, ma sia di tutti. Un cinema dove a contare sono le idee, quelle vere, il talento e la qualità di un intero impianto di persone che lavorano per qualcosa di grande, di unico, di magico. Anche nel cinema horror.
A Classic Horror Story vi aspetta su Netflix dal 14 Luglio
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A Classic Horror Story usa lo stereotipo come espediente narrativo non solo per costruire un film horror con dentro tutti i topos e archetipi del cinema horror americano e italiano, ma anche per parlare della società, del pubblico e dei comportanti dell'essere umano di fronte al vero orrore che ci circonda, ogni giorno, nella vita. Un film curato, dettagliato, interessante. Una pellicola schiaffo in faccia di una generazione di cineasti stanca ad essere ridotta a mero luogo comune.
- Il film racconta il genere, il cinema e la società italiana (ma non solo) diventano una vera e propria critica
- La maestria nel trasformare lo stereotipo nel vero e proprio colpo di scena, facendo diventare il film quasi un gioco di scatole cinesi
- La cura maniacale per i dettagli, le scenografie, location, costumi (soprattutto le maschere) e trucco
- Matilda Lutz, vera final girl del cinema di oggi
- Qualche brivido in più non avrebbe guastato, soprattutto per un pubblico più esigente
- Sulla parte finale, come stacco più netto, si poteva marcare un po' di più la mano e rendere ancora più incisivo il messaggio