Nel week-end è caduta la commemorazione della sanguinosa repressione di piazza Tienanmen del 1989, repressione che l’Amministrazione Xi Jingping cerca di spurgare dalla memoria pubblica ostacolandone come possibile ogni menzione nazionale. Quest’anno, Microsoft si sarebbe adeguata alle posizioni della Cina rendendo irreperibile dal suo motore di ricerca, Bing, ogni traccia della foto topica dell’episodio, quella del “Tank Man”.

La scelta della Big Tech si è poi imposta ai motori di ricerca minori che si appoggiano ai suoi archivi – tipo DuckDuckGo – creando un effetto domino che ha coinvolto a macchia di leopardo tutta la Rete. Microsoft, interpellata a riguardo, ha dichiarato che il problema “sia stato causato accidentalmente da un errore umano” e che stia “lavorando attivamente per risolverlo”.

Un difetto giustificato da dinamiche poco definite e torbide che, fatalmente, è coinciso con una ricorrenza chiave della resistenza al comunismo cinese. Al contrario, il motore di ricerca di Google ha funzionato perfettamente e chiunque poteva accedere allo scatto in questione.

Si potrebbe malignare che una simile disparità di gestione sia giustificabile nel fatto che Google, a differenza di Microsoft, abbia in buona parte rinunciato a trovare accordi commerciali con la Cina, Paese che notoriamente impone i diktat del suo “great firewall” a chiunque voglia operare entro i suoi confini.

Questo episodio si accoda a distanza di poche ore a una situazione omologa per cui un provider israeliano ha oscurato temporaneamente la pagina di un attivista esule di Hong Kong. Il timore generale è che il gigante asiatico stia sfruttando la sua posizione economica per imporre alle aziende straniere di sottostare alla sua censura anche al di fuori del suo ambito di competenza, censura che viene regolarmente giustificata come un banale “errore”.

 

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