Attendevo con ansia la visione di questa seconda stagione di Love, Death & Robots, serie antologica Netflix dove la commistione di genere, arte e animazione si uniscono per creare un vero e proprio gioiellino del genere sci-fi, sensuale, accattivante e violento. Non tutti gli episodi erano davvero rivoluzionari o “strappavano” il cuore come altri, ma Tim Miller e David Fincher erano riusciti a creare un prodotto senza precedenti. Un prodotto il cui cuore pulsante è formato da influenze pop dal mondo del cinema, della serie TV, della letteratura, videogioco e fumetto, creando una serie di piccole opere stratificate, alcune al limite del gore, altre filosofiche e metaforiche. Un mondo fatto di piccoli assaggi in cui perdersi, a volte ripentendo la visione in loop.
Ed invece, con enorme dispiacere, nello scrivere la recensione di Love, Death & Robots 2 devo constatare che lo smalto della prima stagione è andato completamente perso. Gli episodi sono stati nettamente dimezzati. Dai 18 della prima, siamo passati ad 8 della seconda. A questo punto mi domando se per la terza stagione, la cui “messa in onda” è prevista per il 2022, si passerà ad un’ulteriore accettata.
Battute a parte, quello che davvero dispiace di questa seconda stagione di Love, Death & Robots è la sua incapacità di confezionare storie che attraggono l’attenzione dello spettatore tanto per l’animazione e tecnica usata, quanto per la storia narrata.
Ci troviamo nuovamente di fronte ad un mondo, in stile Black Mirror, collegato dal filo rosso della tecnologia. Spesso e volentieri le ambientazioni possono essere proprio quelle del nostro mondo, solo reso ancora più schiavo dalla tecnologia, oppure mondi completamente diversi, galassie opposte, universi di cui neanche conoscevamo l’esistenza.
A volte la rivoluzione tecnologica passa più per un concetto astratto, senza materializzarsi necessariamente in oggettistica o strumenti tipici di un’umanità iper-tecnologica. C’è sicuramente un mix di generi, e non solo di tecnica, che rispecchia esattamente il concetto della stessa prima stagione. Storie diverse tratte a volte da differenti racconti di fantascienza, animazione differente, attori diversi così come anche registi e sceneggiatori. La base è rimasta sicuramente quella, la sostanza molto meno.
La base è rimasta sicuramente quella, la sostanza molto meno
https://youtu.be/xXs2P7A1vws
Se, infatti, nella prima stagione avevamo comunque una maggioranza di episodi più che riusciti, i quali sono riusciti a far innamorare i più, nella recensione di Love, Death & Robots 2 sono costretta a sottolineare – e a breve li vedremo nel dettaglio – che la maggior parte degli episodi, in tutta la loro brevità, si dimenticano poco dopo averli visionati.
Alcuni sicuramente riescono a colpire, tanto per la storia quanto per l’animazione utilizzata, altri invece sono particolarmente dimenticabili, anzi annoiano durante la visione, nonostante il loro minutaggio esiguo. Non riescono a scalfire la superficie, restano inutilmente enigmatici lasciando una sensazione di perplessità e amarezza che a lungo andare stanca. In particolar modo quasi tutti gli episodi foto realistici – e ce ne sono diversi – sono quelli che più si distaccano dallo spettatore, restando molto in sordina.
Uno degli aspetti più interessanti di questa serie TV antologica era proprio la sua capacità, in un modo o nell’altro, di interagire con lo spettatore, di farlo rispecchiare all’interno di alcune storie e personaggi. Il fattor empatia in una serie come questa è molto importante, volta non soltanto ad un mero intrattenimento passivo, ma proprio ad essere partecipativi, a riflettere, ad andare oltre la superficie. Ma come si fa ad andare oltre se, alla fine, fin dalla scrittura non si ha del tutto questa volontà? Difficile, per non dire impossibile.
Dimenticatevi quindi l’intensità emotiva di piccoli capolavori come Good Hunting, The Witness, Sonnie’s Edge o la profondità di Zima Blue (ad eccezione di alcuni). Si è puntato su storie ancora più brevi e forse le maggior parte delle più riuscite sono quelle più ironiche, un po’ nello stile della precedente Three Robots. Storie che forse sarebbero dovute arrivare, proprio per la loro brevità, ancora di più, portando avanti sicuramente temi molto interessanti ma che invece, al di là della visione piacevole che si consuma in una manciata di ora a stento, non si va. La sensazione di “opera incompiuta” è quasi una costante dopo ogni singolo episodio.
Inoltre, gli effetti negativi di questa seconda stagione di Love, Death & Robots si manifestano proprio a causa del numero dimezzato di episodi che, quindi, offrono anche un’esperienza molto meno variegata e stimolante rispetto alla stagione precedente.
Detto questo, andiamo in questa recensione di Love, Death & Robots 2 a vedere, brevemente, nel dettaglio gli episodi che la compongono (senza fare spoiler).
Servizio Clienti Automatico (Automated Customer Service)
Tratto dal racconto di John Scalzi e diretto dal team Meat Dept, questo è il primo corto che ha aperto la nostra visione. Un inizio un po’ fiacco ma leggero ambientato in un mondo che sembra essere un po’ il paradiso della terza età. Una vecchietta, apparentemente in difesa, si ritrova a dover fronteggiare il suo minaccioso robot addetto alla pulizia della casa. Purtroppo il servizio clienti della macchina non sembra essere collaborativo e quello che sembrava il solito monotono pomeriggio estivo, si trasforma in una lotta per la sopravvivenza.
Dieci minuti di leggerezza con un’animazione interessante e una storia che, alla lontana, ricorda quasi il concetto alla base di un film come I Mitchell contro le macchine – e comunque topic già usati e stra-usati generale nel cinema e serie TV – ma senza dire davvero nulla di nuovo. Si lascia guardare, ma nulla di più.
Ghiaccio (ICE)
Per l’animazione che ricorda un po’ Zima Blue (non a caso è realizzato dallo stesso studio, Passion Animation Studios e diretto da Robert Valley) e per la storia di due fratelli all’interno della cornice di un mondo di giovani esseri umani ibridi super forti e intelligenti dove le differenze razziali vengono fatte su chi è ancora un “puro sangue” non adeguato ad una “razza più forte”, questo è uno dei pochi corti più interessanti.
Due fratelli diversi, il più grande ancora umano e il più piccolo ibrido, devono superare le loro differenze e divergenze proprio cercando di incontrarsi a metà strada l’uno del mondo dell’altro. Un corto sottile e piacevole dove l’attenzione viene focalizzata sul fatto che i piccoli gesti possono fare la differenze e che a volte, un atto di fiducia può essere la chiave di volta per una frattura profonda ed intima.
Un cambio di genere repentino per una storia quasi al limite del poetico che sa come rapire.
Pop Squad
Preparatevi a fare un tuffo nel mondo di Ridley Scott e Blade Runner perché Pop Squad prende a piene mani proprio da questo. Forse è il corto che più mi è piaciuto, sia per tematiche che per rappresentazione e caratterizzazione dei personaggi. Ci troviamo in un mondo dove l’essere umano per diventare immortale ha deciso di sacrificare una parte importante di sé: il procreare.
I bambini sono messi al bando. Pena? La morte. Protagonista è proprio un agente che ha come incarico quello di scovare famiglie clandestine disposte a rinunciare all’immortalità pur di mandare avanti la propria specie. Senza rimorso alcuno e a sangue freddo, il nostro protagonista (doppiato da Nolan North), ha sempre portato a termine il suo lavoro, fino a quando qualcosa scatta in lui. La domanda che allora ci si pone è: ha davvero senso una vita immortale senza un futuro da costruire per le nuove generazioni? Possiamo davvero parlare di cambiamento? Rivoluzione?
Profondo nelle tematiche, stupendo nell’ambientazione suggestiva e molto in mood Blade Runner. Il corto è stato realizzato dalla regista Jennifer Yuh Nelson, basato sull’omonimo racconto di Paolo Bacigalupi. L’unica vera pecca è che 15 minuti, in questo caso, sono davvero troppo pochi per tutto quello che ancora ci sarebbe stato da dire.
Snow nel deserto (Snow in the Desert)
Insieme a Pop Squad, forse è uno dei corti che strizza di più l’occhio al mondo cinematografico e videoludico insieme. In questo caso, l’ambientazione ricorda molto più un Mad Max di George Miller e ha come protagonista un ricercato immortale con una particolare caratteristica rigenerativa e che vive la sua infinita vita scappando da un mercenario all’altro.
Questo è uno dei corti che più impressiona per l’animazione al limite del realismo. Veramente incredibile e molto molto suggestiva. La vera pecca è più la storia. Anche qui ci troviamo di fronte alla riflessione mossa sulla base del senso dell’esistenza. Ha senso un’eternità in continua fuga, senza affetti, ricca di solitudine in cui siamo costretti a vedere cambiare, invecchiare e morire le persone accanto a noi?
Molto bravi i protagonisti Peter Franzén e Zita Hanrot che prestano il loro volti per i personaggi, peccato solo che in questo caso la brevità del minutaggio incida negativamente sulla storia. More, more, more!
L’erba Alta (The Tall Grass)
Attenzione perché qui l’effetto dejavù è assicurato. Tanto per titolo, quanto poi per ambientazione (e anche un po’ come storia), il cortometraggio diretto da Simon Otto e basato sull’omonima storia di Joe Lansdale, ricorda incredibilmente il racconto “Nell’erba alta” di Stephen King e Joe Hill, a sua volta adattato nel 2019 per una trasposizione cinematografica diretta da Vincenzo Natali.
Cosa si nasconde nella fitta e alta erba di uno sconfinato campo dove, di notte, un treno si ferma a causa di un guasto? Lo sta per scoprire uno dei passeggeri che si avventura, nell’attesa di ripartire, per fumarsi una sigaretta.
Questo è uno dei due corti horror – molto bella l’atmosfera e anche lo stato di ansia che si viene a creare man mano che il protagonista si avventura tra i fitti fili d’erba – presenti in Love, Death & Robots 2 ma che, come il precedente Snow nel deserto, paga moltissimo per la brevità di adattamento, per quanto poi scenicamente parlando sia davvero impressionante.
Nota di merito al doppiatore del protagonista, ovvero Joe Dempsie, ovvero Gendry in Game of Thrones.
Era la notte prima di Natale (All Through the House)
Secondo ed ultimo corto in mood horror che andiamo a vedere in questa recensione di Love, Death & Robots 2. Dal mood un po’ Burtoniano, due bambini si svegliano durante la vigilia di Natale perché attratti da rumori che arrivano dal piano di sotto. Babbo Natale è arrivato? Quatti quatti scendono di sotto per spiare il magico “nonno” di tutti i bambini, ma ad attenderli potrebbe esserci qualcosa di diverso.
Dissacrante, assurdo, grottesco. È difficile dare un giudizio su questo corto, uno di quelli che più mi ha lasciata perplessa (e ancora devo capire se in negativo o in positivo). Si afferra il senso/messaggio che vuole lasciare, ma non mi è ben chiara la sua funzione all’interno di questa antologia. Indubbiamente inaspettato!
La cabina di sopravvivenza (Life Hutch)
Ecco, tra gli otto corti presentati questo è sicuramente quello più anonimo e scontato. Fermo restando che il foto realismo qui è al limite del live action, dove abbiamo come protagonista un Michael B. Jordan che in seguito ad un’avaria che l’ha costretto ad un atterraggio di emergenza, si ritrova a doversi scontrare, in bilico tra la vita e la morte, contro un cane-robot che, tecnicamente, dovrebbe fungere da assistente sulla base spaziale in cui è atterrato.
A livello di storia, riprende un po’ la prima che abbiamo visto. Tecnicamente è esattamente lo stesso concetto. Il mood ovviamente è molto più oscuro, più dark e teso. Ricorda molto titoli videoludici di questo genere. Al tempo stesso, proprio per questo motivo, sa di già visto e la tensione che vorrebbe essere la protagonista della scena, non va mai oltre. Tutto abbozzato. Tutto accennato. Noioso.
Il gigante affogato (The Drowned Giant)
In conclusione della recensione di Love, Death & Robots 2 chiudiamo in bellezza!
Esattamente come lo scorso anno, non poteva mancare anche un corto diretto da Tim Miller e, guarda caso, anche il più bello e poetico di tutta la serie. Indubbiamente è quello che ho preferito di più (si, anche più di Pop Squad).
Un lungo monologo sul senso della vita, sullo scorrere del tempo, sul cambiamento del mondo e del nostro modo di vivere, sull’essere vittime degli eventi. Le tracce che lasciano al nostro passaggio. Tematiche differenti affrontate in modo intelligente ed appassionante.
Il corto è ispirato al celebre racconto di J.G. Ballard (leggetelo!!!) e viene narrato dall’attore Steven Pacey. Le parole si confondo con la musica che va a creare un perfetto equilibrio tra parole ed immagini. Lasciatevi cullare da questo piccolo gioiello, forse quello che vale di più la pena guardare (anche in più di una visione). Profondo ed intenso anche nella sua brevità. Quasi intimo ed emozionante, in particolar modo sui suoi tocchi finali.
Stupendo, davvero!
Love, Death & Robots 2 è disponibile dal 14 Maggio su Netflix
A differenza del suo predecessore, Love, Death & Robots 2, pur mantenendo fedeltà nella sua realizzazione per commistione di genere, tecnica e storie, perde lo smalto e il carisma. Le storie sono troppo brevi per esprimere i concetti alla loro base. Scalfiscono a mala pena la superficie e danno costantemente una sensazione di incompiuto, come se in fondo mancasse qualche pezzo. La qualità è impressa unicamente nella componente visiva, lasciando ben poco spazio alla narrazione nella sua profondità.
- Nel panorama di Netflix (e non solo) rimane un progetto unico nel suo genere
- L'animazione è sempre ad un altissimo livello in ogni episodio
- L'episodio "Il gigante affogato" è pura poesia
- La brevità del racconto spesso influisce negativamente sulle storie che risultano poco approfondite e incompiute
- C'è molta meno varietà a causa del dimezzamento del numero degli episodi
- Salvo un episodio, quello diretto da Miller, nulla rimane davvero impresso