A seguito dell’assalto al Campidoglio statunitense del 6 gennaio sembra che l’opinione pubblica abbia terminato ogni forma di tolleranza nei confronti delle manovre dei social media e ora il Global Project Against Hate and Extremism (GPAHE) fa le pulci ai leader delle Big Tech, accusandoli di aver supportato l’estremismo politico per anni.
Il gruppo no-profit criticano apertamente come i dirigenti di queste aziende abbiano permesso ai politici di ignorare liberamente le policy di servizio, ma sottolineano anche che Facebook, Twitter e omologhi abbiano tratto guadagni tangibili dalla tolleranza dimostrata, sia in senso di engagement delle piattaforme che di convenienze strategiche.
Non solo, i social network mancherebbero, volontariamente o involontariamente, della struttura multiculturale necessaria a contrastare l’estremismo all’estero e non si sarebbero mai adeguatamente impegnati a sondare come disinformazione, bigottismo, discorsi d’odio e propaganda abbiano colpito il panorama sociale mondiale.
Con una certa acidità, il GPAHE evidenzia come Facebook si sia chiamato più volte fuori dall’equazione, limitandosi a ricordare pubblicamente che la retorica populista esista da ben prima della nascita del portale e accusando le piattaforme concorrenti – quelle che non hanno i suoi “standard” e la sua “trasparenza” – di essere state il vero motore delle sommosse che hanno colpito Washington.
Il gruppo non manca però di ribattere che l’azienda guidata da Mark Zuckerberg abbia co-sponsorizzato degli eventi di Rodrigo Duterte, personaggio amichevolmente definito dell’azienda come “re delle chiacchere su Facebook” che, una volta diventato presidente, ha trucidato e incarcerato migliaia di cittadini.
GPAHE ricollega ai social anche il boom di popolarizzazione del partito tedesco di destra estrema Alternative für Deutschland (AfD) e la crescita di potere del Primo Ministro indiano Narendra Modi, il cui partito ha liberamente promosso l’odio religioso con il supporto esplicito degli amministratori di Facebook.
Il report pretende dunque che le Big Tech cambino immediatamente rotta, chiedendo soprattutto che queste abbandonino la scusa del “rilevanza informativa” che rende possibile la propagazione di messaggi tossici, che applichino uno stringente fact checking ai contenuti politici e che implementino “protocolli di prevenzione ai genocidi”.
Una direzione che non sembra coincidere con gli interessi di queste aziende, visto che stanno cercando di lasciarsi alle spalle ogni forma di contenuto politico per dar spazio a frivolezze e divertimenti.
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