Le scaramucce tra Apple e Facebook stanno ormai assumendo una dimensione pubblica, ma le due Big Tech sono in guerra già da parecchio tempo.
Tim Cook, CEO di Apple, ha recentemente affermato che se “accettiamo che ogni aspetto della nostra vita possa venire aggregato e venduto” finiremo con il perdere “la nostra libertà di esistere come esseri umani”. L’imprenditore non ha menzionato esplicitamente alcun nome, tuttavia era lampante che il bersaglio principale della sua stoccata fosse Facebook.
Lo ha percepito la stampa di settore quando ha riportato nero su bianco parole tanto forti, ma lo sfregio è stato percepito anche da Mark Zuckerberg, il CEO del social in questione, il quale avrebbe confessato a persone a lui vicine che sia arrivato il momento di “fare male” al suo avversario.
La situazione è sfociata ben oltre alle naturali tensioni che si sviluppano tra ditte concorrenti. Ormai gli attriti hanno assunto la cadenza di una danza micidiale ritmata da mosse e contromosse, azioni e reazioni che sono portate avanti con lo scopo deliberato di danneggiarsi reciprocamente.
Ma come si è sviluppata un’animosità tanto viscerale e distruttiva?
Uno scontro di ideologie e di marketing
Apple e Facebook stanno puntando su futuri digitali che sono agli antipodi, almeno sul piano formale. Percorrono infatti due strade che non solo coesistono a fatica, ma cozzano apertamente, sia sul piano della “mission” che su quello puramente speculativo.
Mark Zuckerberg sogna un mondo in cui Facebook possa monetizzare qualsiasi essere vivente dotato di uno smartphone, promettendo in cambio della remissione della privacy un universo pregno di connessioni, in cui tutti fanno parte di un medesimo ecosistema.
Un ecosistema controllato da chi detiene le redini del social, ma pieno zeppo di servizi e distrazioni.
Tim Cook punta invece a consolidare una comunità fidelizzata e fedele, una tribù di “Apple people” che goda dei benefici delle integrazioni tra device Apple, ma anche di una privacy che è in grado di tenere testa all’FBI.
Il manager, per sua stessa ammissione, ha avuto l’intuizione di prendere il motto “our customers are not our product” di Steve Jobs e di trasformarlo in una strategia di business.
Apple si è pubblicamente fatta carico di voler difendere un sedicente senso del bene comune, prendendo sotto la sua ala tutti coloro che si vedono vessati dalle spietate e spregevoli Big Tech, quelle che non mostrano ideologia o risentimento, quelle che sono pronte a sfruttare tutto e tutti pur di incassare qualche soldo in più.
Il suo modello commerciale si basa pertanto sul proteggere i propri clienti da personaggi del mondo tech dalla dubbia deontologia, personaggi che vengono immancabilmente incarnati nella figura di Zuckerberg.
Il CEO di Facebook, nel frattempo, è sempre più famelico e predatorio. Ha urgenza di scovare nuove strade con cui fare crescere la propria azienda, ma le sue ambizioni sono tenute in scacco da una burocrazia sempre più attenta alle sue mosse e da un bacino di nuovi potenziali iscritti a Facebook che si sta lentamente, ma progressivamente, assottigliando.
Lo spartiacque che ha determinato il rovinoso e definitivo deterioramento dei rapporti tra i due leader d’azienda lo si può tuttavia identificare nel periodo che ha preceduto le elezioni statunitensi del 2016, quelle che hanno visto scendere in campo Hillary Clinton e Donald Trump e la nota vittoria del candidato repubblicano.
Nell’arco di quei mesi si sono dipanate molte situazioni che stavano sobbollendo nei dietro le quinte della Rete e del mondo delle Big Tech, situazioni che hanno trovato la loro massima realizzazioni in due episodi che hanno cambiato il mondo: la scoperta che i risultati del voto presidenziale fossero stati influenzati da opache ingerenze estere e l’inciampo di Facebook nello scandalo di Cambridge Analytica.
Il peccato originale
Stando ai risultati delle indagini portate avanti dall’Intelligence americana (FBI), le campagne elettorali dell’epoca erano affogate in un pantano di interferenze straniere, in tutta probabilità russe. Vladimir Putin avrebbe fatto pressioni per screditare Hillary Clinton, così da favorire l’ascesa di Trump.
Non è in discussione “se” la cosa sia successa, lo stesso Senato l’ha ammessa, l’unica incognita è piuttosto chi ne sia stato il mandante.
Gli investigatori non sono mai arrivati alla fonte, anche perché diversi uomini fedeli a Trump hanno deliberatamente mentito per confondere le acque.
Quello che si sa, è che un certo numero di oligarchi russi ha portato avanti manovre a dir poco losche e che anche la National Rifle Association (NRA), la lobby delle armi negli USA, sia riuscita a finanziare il candidato Repubblicano con soldi di cui è difficile capire la fonte.
Ancor più, siamo consapevoli che i tentativi di affossare le possibilità della Clinton abbiano anche intrapreso sentieri meno battuti, se non addirittura sperimentali. Hacker legati all’Intelligence russa (GRU) hanno scomodato ogni serie di strategia internettiana per compromettere la Democratica. Troll farm, disinformazione, la pubblicazione abusiva di e-mail private: il pacchetto completo.
All’epoca fu una doccia gelida. Il grande pubblico non poteva credere che la Rete avesse un simile potenziale nefasto, che l’uso massivo di meme fosse in grado sviluppare tossicità e follia. Fu una grottesca epifania, una rivelazione che iniziò a far spalancare gli occhi.
Another one bites the dust
Nel 2015 la metà dell’intera popolazione mondiale era iscritta a Facebook. Un traguardo notevole per il social, ma anche un segnale d’allarme che tacitamente ricordava alla dirigenza che il mondo globalizzato aveva un numero finito di consumatori. Era un memento mori digitale che rendeva urgente la necessità di trovare nuovi stratagemmi con cui salvaguardare l’ascesa dell’azienda.
Facebook era un vero e proprio colosso. Non solo perché era incredibilmente potente, quello lo è ancora oggi, ma anche perché era vista con benevolenza, quasi con ammirazione. Erano gli anni in cui la gente incominciava a pensare a Mark Zuckerberg come un possibile presidente degli Stati Uniti e in cui acclamati registi gli dedicavano lungometraggi biografici.
Lo scandalo Cambridge Analytica ha cambiato tutto.
Sviluppatosi tra il 2015 e il 2018, il caso è esploso per colpa di una società di consulenza britannica che ha acquistato i dati di 87 milioni di utenti Facebook per poi usarli illegittimamente all’interno di martellanti propagande politiche.
L’impatto di Cambridge Analytica si è avvertito sulle elezioni messicane, sulla Brexit e, ovviamente, sulle elezioni USA del 2016.
Il misfatto non era stato perpetrato da Facebook, il quale aveva semplicemente venduto dati che aveva contrattualmente il diritto di maneggiare, ma il social era decisamente più vicino alle esperienze del pubblico, visto che prima di allora la società inglese era ignota ai più.
Finì che le persone, la stampa e la politica si concentrarono tutte sull’azienda di Zuckerberg, chiedendosi come venissero trattate le informazioni che venivano inserite negli infiniti form del portale.
Per evitare che il business model di Facebook diventasse palese, il CEO ha reagito alle indagini su Cambridge Analytica destreggiandosi in una formidabile resistenza passiva, assicurandosi solamente che nessuno scandagliasse troppo nei retroscena del settore.
L’immagine di Zuckerberg ne ha risentito, così come quella della sua azienda. Non era più il nerd simpatico quanto strampalato, era divenuto un dirigente dagli atteggiamenti torbidi, la cui ombra poteva alterare il tessuto sociale in modi che ancora non erano mai stati sondati.
Il primo schiaffo
Fino al 2014 la situazione tra Facebook e Apple era decisamente tranquilla, se non addirittura idilliaca. La Big Tech di Cupertino impegnava tutte le sue energie a fronteggiare il suo avversario dell’epoca, Google, con il duello tra iOS e Android che era nel vivo della contesa.
All’epoca Zuckerberg non era un nemico, anzi era un valido “partner“, un compagno di ventura con cui condividere la strada verso un futuro brillante e high tech. Tuttavia Tim Cook, uomo dal fiuto imprenditoriale notevole, aveva intuito le criticità dell’ecosistema digitale e si era assicurato che Apple non cedesse ad alcune facili tentazioni.
In pratica, il CEO Apple decise di garantire a tutti gli utenti che la sua azienda non avrebbe mai e poi mai ricavato denari raccogliendo e sfruttando i dati degli utenti, criticando esplicitamente chiunque monetizzasse le informazioni personali.
I nostri business non si basano sul possedere le vostre informazioni. Voi non siete il nostro prodotto.
Credo che chiunque debba chiedersi “come fanno le aziende ad accumulare i loro soldi?”
Seguite i soldi. Se li fanno perlopiù raccogliendo dati personali, avete tutti i diritti di preoccuparvi.
aveva dichiarato Cook.
Facebook non accolse con benevolenza un simile enunciato. Pochi mesi dopo esplose lo scandalo di Cambridge Analytica e le distanze tra Apple e il social si acuirono ulteriormente.
Cook era divenuto una sibilla, un precursore che aveva anticipato, almeno agli occhi del grande pubblico, una malformazione sistemica in cui sguazzavano le aziende tech. Il punto di vista di Zuckerberg era diverso: la Big Tech di Cupertino era un’entità ipocrita che si ammantava di falso virtuosismo e che danzava sul corpo dolente del suo social network.
Apple, tuttavia, poteva permetterselo. Il suo business model guadagnava relativamente poco dalle inserzioni pubblicitarie, quindi Cook non poteva subire grandi contraccolpi dall’assumere posizioni sempre più estreme nel condannare la raccolta dei dati. Anzi, grazie al polverone che si era sollevato durante le elezioni statunitensi non ne aveva che da guadagnare.
Per sedare l’animosità che ormai lacerava i rapporti tra i due capi d’azienda, nel 2017 fu organizzato un meeting, con l’obiettivo di seppellire l’ascia di guerra. L’incontro si svolse in campo neutro, ovvero a una conferenza dedicata alle aziende tech che si tenne a Sun Valley, nell’Idaho.
Non si sa con esattezza cosa successe, tuttavia pare che Zuckerberg abbia ripreso Cook, sollecitando ad alleggerire e velocizzare i controlli che Apple impone alle app del suo Store. Stando alle testimonianze, Cook non cedette di un passo e l’incontro si concluse lasciando i rapporti più tesi che mai.
Ci eravamo tanto odiati
Nel 2018 lo scandalo Cambridge Analytica raggiunse il suo climax. Zuckerberg fu costretto a testimoniare davanti al Senato e dalle sue parole era chiaro che non avesse alcuna intenzione di alterare sostanzialmente il business model della sua azienda.
Gli fecero notare che le policy del suo sito fossero scritte in fitto burocratese con l’esplicito intento di confondere il pubblico, gli sottolinearono come Facebook avesse le carte in regola per essere considerato un monopolio, gli domandarono se si fosse attivamente impegnato a controllare se Cambridge Analytica avesse effettivamente cancellato i dati raccolti illecitamente. Lui rispose a ognuno di questi stimoli con una scrollata di spalle.
Lo sconcerto che coinvolse il social network, nonché l’atteggiamento stoico di Zuckerberg, contribuirono a dare il via a una riflessione che riverbera ancora oggi, ovvero il dubbio che le piattaforme social non siano semplici provider, ma degli editori che devono essere ritenuti responsabili di ciò che pubblicano.
In quell’occasione, il canale via cavo MSNBC contattò Cook, domandandogli come si sarebbe comportato lui se fosse stato nella situazione del CEO di Facebook. Cook rispose lapidariamente: “io non sarei in quella situazione”.
Facebook non prese bene l’ennesima provocazione di Cook e testimoni riportano che per diverso tempo i manager e gli avvocati della Big Tech abbiano discusso animatamente la possibilità di sfidare la Apple a colpi di lobby e di leggi antitrust. Tuttavia non era il momento giusto, per una manovra tanto sfrontata.
Ciò non toglie che da quel momento il rapporto si sia allineato su costanti e reciproci screzi: Cook presentava pubblicamente il social come l’esempio per antonomasia delle minacce contro cui Apple combatteva; Facebook caricava su Apple Store dei software che violavano segretamente le policy sulle raccolte dati, in più si lamentava esplicitamente che gli iPhone costassero troppo.
L’ultima frontiera
Il più recente e acceso diverbio nasce in coda alla più radicale innovazione di Apple: salvaguardare la privacy dei propri utenti filtrando in prima persona la raccolta dei dati di geolocalizzazione.
La funzione, già pronta al lancio, consentirà ai possessori dei sistemi iOS di accettare di essere tracciati solamente quando se ne presenta l’effettiva necessità, salvaguardando la propria privacy.
Nella prospettiva di un utente, l’aggiornamento potrebbe essere vissuto come una modesta comodità, ma la feature potrebbe causare ferite finanziarie devastanti alle aziende digitali che lucrano sulla raccolta dei dati.
Peggio ancora, rifiutare di sottostare a questa nuova imposizione si tradurrebbe probabilmente in un’espulsione dall’App Store, cosa che impedirebbe a Facebook e omologhe app di raggiungere l’ampio bacino degli utenti con device Apple.
Oltre al danno, c’è inoltre un’altra beffa. Quando le aziende tech hanno cercato di aizzare l’antitrust contro Cook, il CEO si è semplicemente difeso facendo notare che non aveva alcuna intenzione di bloccare il tracking, semplicemente di renderlo palese, lasciando ai consumatori la possibilità di scegliere consapevolmente.
Ormai, Facebook considera Apple come il suo principale avversario, soprattutto perché la complessa storia di antipatie sta convergendo in una battaglia per il futuro delle rispettive aziende. Ambo le Big Tech si stanno infatti contendendo servizi affini, sia nel ramo della messaggistica che in quello della realtà aumentata.
I due sfidanti si sono comunque tolti i guanti di velluto e Zuckerberg, messo all’angolo, si sta preparando a combattere con i denti per garantire la sopravvivenza della propria creatura digitale. Da qui in poi è facile intuire che il furore andrà ad accendere gli animi e che la sfida finirà con il trasformarsi in una vera e propria guerra corporativa.
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