La recensione di Final Account, nell’ultimo film documentario di Luke Holland l’Olocausto viene raccontato dal punto di vista dell’ultima generazione di nazisti ancora in vita.

Presentato fuori concorso in questa atipica 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Final Account cambia le carte in tavola, raccontando la Seconda Guerra mondiale attraverso le parole e i ricordi di chi si è trovato dalla parte sbagliata della Storia, diventando esecutore materiale della follia di Adolf Hitler.

Non possiamo iniziare questa recensione di Final Account senza prima definire brevemente chi era Luke Holland. L’imperfetto purtroppo è d’obbligo, perché il regista è morto poco prima che venisse terminato il montaggio del suo film, a cui aveva iniziato a lavorare ben 12 anni fa, nel 2008. Discendente di una famiglia ebrea dalla parte della madre, originaria di Vienna ma emigrata per scappare dagli orrori della guerra, Holland ha dedicato grossa parte del suo lavoro da documentarista agli orrori del nazismo. Suoi sono Good Morning Mr.Hitler (1993), ritratto atipico del Führer reso possibile da una serie di filmati del 1939 all’epoca ancora inediti, e anche Ich war Hitlers Sklave (2000), documentario per la TV sull’esperienza agghiacciante di una ragazza sequestrata dei nazisti a 13 anni e costretta a lavorare in una delle fabbriche del III Reich.

 

 

Con questo bagaglio alle spalle, oltre che un ottimo tedesco imparato in giovanissima età in una comunità cristiana del Paraguay, gli ultimi suoi anni Holland li ha spesi intervistando oltre 250 tedeschi e austriaci, tutti membri dell’ultima generazione di uomini e donne che hanno vissuto in prima persona gli orrori del III Reich, dalla parte dei nazisti.

In Final Account non troviamo volti o nomi noti, i ricordi non sono quelli dei gerarchi che hanno piegato la Germania al loro giogo

In Final Account non troviamo volti o nomi noti, i ricordi non sono quelli dei gerarchi che hanno piegato la Germania al loro giogo. I protagonisti di questo racconto sono gli uomini che, poco più che ragazzini e spesso senza l’approvazione dei genitori, hanno prestato giuramento ad Hitler arruolandosi nelle legioni combattenti delle SS. Sono i testimoni passivi dello sterminio che abitavano a pochi chilometri dai campi di lavoro ma hanno scelto di girarsi dall’altra parte davanti alle sofferenze dei prigionieri, o che ne hanno tratto diretto beneficio, come chi a distanza di decenni racconta compiaciuta di quando andava a farsi curare i denti dai dentisti del lager costretti dai nazisti a servire la popolazione locale: «Erano dei prigionieri molto gentili» ricorda con un’affettuosità disturbante una delle signore intervistate dal documentarista. Ognuno di loro viene presentato con il suo nome e con il suo ruolo all’interno del regime nazista.

 

recensione di Final Account

 

The Final Account si prende il suo tempo, parte dai ricordi della primissima gioventù degli intervistati. Le marce all’aria aperta, le attività fisiche quasi da boyscout della Gioventù Hitleriana e perfino le sinistre canzoncine e i cori che dovevano cantare a memoria: «Affila il lungo coltello nel marciapiede, così entra meglio nel ventre dell’ebreo», canticchia uno degli anziani intervistati. «Per noi era normale cantare una cosa del genere, ti immagini?», chiede cercando l’indulgenza dell’intervistatore.

Nella sua seconda parte il documentario entra presto nella parte più cupa del racconto, mettendo gli ex sostenitori del Reich davanti alla tragedia dell’Olocausto, salvo trovarsi spesso davanti ad un muro di omertà e autocommiserazione.

Holland non si perde in virtuosismi, mette al centro la testimonianza degli ex nazisti intervallandola di tanto in tanto con immagini d’epoca e schermate di testo utili allo spettatore per contestualizzare le mezze verità degli intervistati.

Nel corso dei 90 minuti del docufilm, sono tantissimi i “non sapevo” e i “non potevo intervenire, mi avrebbero arrestato”, poche le prese di posizioni nette, anche meno (solo uno) i “non rinnego nulla”.

Alla fine della guerra un soldato americano chiese ad un ufficiale delle SS che giaceva nella mia stessa branda se fosse un nazista. Rispose «certamente». L’americano allora gli prese la mano e gliela strinse. «Sei il primo tedesco che conosca che abbia ammesso di essere un nazista da quando sono qui. Piacere di conoscerti».

racconta con imbarazzo uno dei pochi ex militari di Hitler a dimostrarsi vivacemente critico del III Reich e dispiaciuto per il suo, seppur marginale, ruolo nella Seconda Guerra mondiale.

 

 

 

Il volto (dis)umano del Male

Rassicurati dalle rappresentazioni spesso macchiettistiche hollywoodiane e da meccanismi inconsciamente autoassolutori, ci viene facile pensare ai nazisti come mostri inumani: demoni fisicamente e spiritualmente distanti da noi. Final Account ci mette davanti ad una verità più scomoda.

Le Waffen SS che radevano al suolo intere città obbedendo all’ordine terra bruciata del Führer e quegli stessi nazisti che sono diventati esecutori materiali della soluzione finale di Himmler rendendo possibile lo sterminio di 6 milioni di ebrei sono proprio qui, davanti ai nostri occhi, a raccontare alla telecamera com’è potuto succedere che per dodici anni l’intera Germania venisse sedotta dall’odio totalizzante di Hitler e del suo nazionalsocialismo.

 

recensione di Final Account

 

I nazisti di Final Account non indossano divise, non portano la svastica, l’unico legame con il passato è il minuscolo tatuaggio con il gruppo sanguigno sul braccio sinistro – un privilegio dato solo ai combattenti delle Waffen SS, spiega uno degli intervistati.  Hanno le ciglia folte e increspate, il volto scavato dalle rughe, lo sguardo stanco ma non incapace di momenti di vispezza dei nostri nonni.

Nella loro voce spesso (ma non sempre) c’è vergogna, l’umiliazione di dover trovarsi a giustificare l’ingiustificabile

Nella loro voce spesso (ma non sempre) c’è vergogna, l’umiliazione di dover trovarsi a giustificare l’ingiustificabile, l’imbarazzo di non poter ammettere nemmeno a loro stessi di essere stati complici, o anche semplici testimoni omertosi, dello sterminio e delle persecuzioni politiche. «Non lo sapevamo», «lo si diceva a bassa voce», «quello che succedeva lì era un segreto» provano a replicare alcuni degli intervistati parlando dei forni crematori e dei campi dove i prigionieri venivano annientati di lavoro. «Chi dice che non sapeva mente, l’odore dolciastro si sentiva da chilometri», sostiene un altro intervistato parlando di uno dei centri di eutanasia del III Reich.

Un altro uomo racconta di quando da bambino aveva assistito all’incendio della Sinagoga proprio durante la famigerata Notte dei Cristalli, un episodio che ritorna in più occasioni nei ricordi degli intervistati. Holland cerca di estorcergli un minimo senso di empatia, gli chiede se almeno considera quell’evento un crimine. «Da un punto di vista del diritto bruciare la proprietà degli altri è un reato, quindi si potrebbe dire che chi ha bruciato la Sinagoga fosse un criminale», commenta con il rigore logico che ci si aspetta da un tedesco. «Ma io non provavo nulla, non mi interessava. Gli ebrei erano un’etnia separata dalla nostra»

 

 

 

La minaccia degli uomini comuni

«Una volta vennero a nascondersi da noi dei fuggitivi, il giorno dopo le guardie del campo vennero a ricatturarli». Ricorda un intervistato che durante la guerra viveva in una piccola fattoria a pochi passi dal campo di lavoro di Bergen-Belsen salvo ammettere, davanti alle sollecitazione dell’intervistatore, che i nazisti li aveva chiamati lui stesso per paura di ritorsioni. «Non ho idea di che fine abbiano fatto».

I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere davvero pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere.

recita la citazione di Primo Levi con cui Holland ha deciso di aprire il suo documentario.

È questa la vera potenza del testamento di Luke Holland: se quelle legioni di Hitler non erano composte da mostri, ma da uomini comuni, meri “funzionari pronti ad obbedire senza discutere” storditi dalla propaganda e accecati dal terrore, allora significa che nessuno di noi, con poche, pochissime, eccezioni, sarebbe stato immune.

 

 

L’opera di Holland non assolve nessuno. L’intervistatore incalza gli ex nazisti, chiede come facessero a sapere di alcuni episodi e allo stesso tempo negare di avervi avuto un ruolo, li mette continuamente davanti alle loro colpe cercando costantemente segni di pentimento.

Dando un volto umano ai nazisti, Final Account rende il nazionalsocialismo un’ideologia ancora più tossica, virulenta e terrificante di quanto già non ci apparisse prima.

Holland non ci ricorda gli orrori dell’olocausto, se non in senso marginale, li conosciamo già, li abbiamo già assimilati e condannati. Piuttosto, ci rivela quanto sia semplice diventare esecutori del Male. Ci mostra con prepotenza quanto i principi etici e l’empatia che consideriamo parti inscindibili della nostra identità siano molto più fragili di quello che ci piace pensare. Basta poco per disinnescare ogni traccia di umanità da una persona. Il monito di Final Account è chiaro e allo stesso tempo terrificante: pensare che tutto questo non possa ripetersi rischia di essere un’altra ingenua e pericolosa illusione.

Concludendo la nostra recensione di Final Account, il film documentario di Luke Holland si presenta come un’opera estremamente efficace e dal fortissimo potere pedagogico che, seppur raccontandoci orrori all’apparenza lontani (ma non abbastanza da non aver lasciato superstiti) lancia un avvertimento tragicamente attuale. Una visione straniante, disturbante ma necessaria per poter capire fino in fondo uno dei più spaventosi capitoli della storia del nostro continente.