La recensione di I’m thinking of ending things, il nuovo film scritto e diretto da Charlie Kaufman, che dopo cinque anni da Anomalisa torna a sorprendere lo spettatore, questa volta con una ballata malinconica ed esasperante che, purtroppo, fa il passo più lungo della gamba. Dal 4 Settembre su Netflix.

In questo periodo di ritorno in sala, Netflix decide comunque di puntare su grandi autori che arrivano direttamente a casa nostra. Eh si, siamo tutti molto presi da Tenet, il grande rompicapo di Christopher Nolan che in pochi giorni ha iniziato a sbancare i botteghini nonostante la crisi delle sale, ma dopo la recensione di I’m thinking of ending things (trasposizione dell’omonimo romanzo di Iain Reid) che ci porta nell’intricato mondo di Charlie Kaufman, vi posso assicurare che Tenet vi sembrerà una passeggiata.

Se i film d’autore non fanno per voi, se non amate il simbolismo, la verbosità nei dialoghi, il dilatamento della messa in scena e le storie stratificate, allora questa pellicola non fa per voi.

Se, invece, come la sottoscritta avete avuto da sempre un debole per Charlie Kaufman, sceneggiatore tra i tanti di alcuni film iconici del panorama cinematografico da “Sundance” come Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee di Spike Jonze o Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Michel Gondry, allora mettetevi comodi. Ma vi avverto, questo film potrebbe essere indigesto anche per voi.

 

 

 

 

Ho ragionato moltissimo su questa recensione che, ovviamente, sarà priva di spoiler, quindi non preoccupatevi. Prima di mettermi a scrivere, però, è per me fondamentale aver appreso completamente il film, averlo ragionato, digerito e per quanto qualcosa di I’m thinking of ending things ancora non mi torna completamente, non potendo fare a meno di pensare che lo stesso Kaufman abbia fatto il passo più lungo della gamba, il film mi è piaciuto ma, come si dice in questi casi, “bello ma non ci vivrei”.

Si, perché contrastanti sono le sensazioni finali post visione. Sale quella tipica frustrazione di quando tutto è confuso, poco chiaro e tu volevi una risposta, meritavi almeno una risposta alle mille domande che sorgono spontanee nel corso della visione.

È un atto di fede quello che chiede il grande ritorno di Kaufman allo spettatore. Citando, ancora una volta, Tenet: non devi capirlo, devi sentirlo. Ma, e qui mi ripeto da sola, basta?

In questo caso no, non basta. I’m thinking of ending things richiede tanta pazienza, concentrazione e dedizione al suo spettatore. Gli chiede di lasciarsi andare, di perdersi, entrare in contatto con i personaggi. Questo è molto facile e fin da subito si viene rapiti, quasi come attratti da una calamita, al flusso di coscienza caratteristico dei suoi protagonisti, in particolar modo dal ruolo interpretato da Jessie Buckley; eppure, neanche questo basta per arrivare al finale e comprendere fino in fondo le scelte oniriche adoperate di Kaufman.

 

recensione di I'm thinking of ending things

 

Si, perché l’unica cosa veramente chiara è che la pellicola sia un grande sogno ad occhi aperti. Un sogno costellato da se, da ma, da rumorosi silenzi e asfissianti dialoghi. Un sogno dai tratti dell’incubo e della tragedia. Esasperato ed esasperante. Malinconico. Tragico. Una ballata alla fine dell’autunno quando la neve copre tutto, anche le ossa di ciò che prima c’era e adesso non c’è più.

Eppure in questa landa desolata persa nello spazio e nel tempo, un luogo simbolico che rappresenta la mente dei personaggi, molte sono le orme che prendono forma e tante le cose da interpretare, a cui dare una spiegazione, una rappresentazione. Si, perché tutto ha una spiegazione, solo che per arrivarci il film deve decantare, come se fosse un vino. Vi deve crescere nel cuore e nella mente. Vi deve ossessionare e su questo Kaufman è straordinario.

Ma l’amarezza finale?

Ma l’amarezza finale? L’insoddisfazione finale che si prova come se messi di fronte ad un bel piatto di pasta fumante prima di dare la prima vera forchetta, dopo che con la punta della lingua abbiamo già potuto pregustare l’eccellente sapore, ci viene tolto senza alcuna spiegazione? Ecco, quello è l’aspetto che meno si digerisce.

 

 

 

Kaufman, il paroliere è tornato

Se nell’arco della vostra esperienza cinematografica vi è mai capitato di trovarvi di fronte a Charlie Kaufman (e spero per voi di si), allora saprete benissimo che Kaufman è un uomo che ama profondamente la parola tanto nel monologo quanto nel dialogo.

Per i personaggi di Kaufman il silenzio è una costrizione troppo grande, troppo violenta e feroce. I loro pensieri, i loro sentimenti, sono un tumulto che non possono tenere dentro e il loro male di vivere, questa insopportabile accondiscendenza nei confronti della felicità, o nell’impossibilità di essere felici, la devono manifestare con le parole.

 

recensione di I'm thinking of ending things

 

In questo ritorno al film non è da meno. La pellicola si apre proprio con un lungo monologo interiore della protagonista che racconta il suo strano malessere in contrasto con quella prima delicata e dolce neve d’inverno. Quello che ci rende un po’ dei bambini febbrili, eccitati per l’arrivo delle feste e che al tempo stesso da anche una strana sensazione di malinconia, di nostalgia. Cindy si muove su questo scenario ordinario e al tempo stesso incantato, mentre questa impotenza nei confronti della vita la schiaccia. I suoi pensieri ci appaiono immediatamente chiari, raccontanti dalla sua mente e dalla sua voce. Un lunghissimo monologo interiore nel quale è molto facile rispecchiarsi soprattutto per chi quella sensazione che stringe il cuore delle persone quando sono tristi perché vorrebbero essere felici, e quando sono felici perché si pensa di non meritarlo, l’ha davvero provato, anche solo una volta nella vita.

La dolcezza mista ad amarezza delle parole, dei pensieri, del paesaggio che viene mostrato. C’è una disperata delicatezza nelle immagini che vengono quasi disegnate sullo schermo. Rende leggeri e al tempo stesso pesanti. Fa riflettere, a volte su cose che non vorremmo neanche sentire, come una relazione stantia, quando non riusciamo più a fare la differenza tra amore e affezione e giorno dopo giorno diventa sempre più difficile la persona accanto a noi, finendo per disprezzarla, per odiarla.

Un flusso continuo di coscienza che va avanti lungo tutto il film e si inframezza con i dialoghi dei personaggi

Un flusso continuo di coscienza che va avanti lungo tutto il film e si inframezza con i dialoghi dei personaggi. Si perché accanto a Cindy abbiamo Jake (Jesse Plemons), fidanzato modello che la passa a prendere per andare a pranzo dai genitori di lui per un pranzo in campagna, con la promessa di riportarla entro sera a casa a causa di un impegno lavorativo del giorno dopo.

 

recensione di I'm thinking of ending things

 

Jake sembra affettuoso e premuroso, introverso ma allegro. Cindy ce ne da una descrizione perfetta, ma fin troppo zuccherina. Ci fa credere che la colpa dell’insicurezza della loro relazione è solo sua, così indecisa, così confusa, così poco determinata. Jake è perfetto, Cindy è imperfetta. E perché andare a questo pranzo?

Suggestioni che, in fondo, non sono neanche così nuove ma tipiche dello stile e della poetica di Kaufman, come abbiamo già visto tante altre volte, come per esempio nei personaggio di Jim Carrey e Kate Winslet in Eternal Sunshine of the Spotless Mind.

Il viaggio in macchina, luogo spesso centrale del film, diventa l’epicentro di un passaggio da una realtà all’altra. Scambio di conversazione sterili, di compagnia e circostanza. Il dialogo è un’arma usata contro il silenzio, come se fosse troppo difficile restare nel mutismo ed affrontare la realtà.  Kaufman costruisce in modo perfetto sequenze dove il disagio diventa colonna portante della scena. Disagio provato dai personaggi, come nella disperata ricerca di riempire i vuoti lasciati dalle parole, e che si rispecchia anche nello spettatore. Perché il silenzio è scomodo, è doloroso e fa pensare. Il silenzio rende fragili, privi di difesa e fa provare imbarazzo. E nessuno vorrebbe mai dover provare questa sensazione.

 

 

La camaleontica ballata della morte

Partendo dall’uso ed abuso della parole, I’m thinking of ending things è un film camaleontico. Un film che come un serpente cambia pelle. Un film fatto di tappe. Se all’inizio ci si presenta come un dramedy, una di quelle storie di insoddisfazione, incertezze ed infelicità, nell’arrivare nella casa di infanzia di Jake sono altri i toni che ci sorprendono.

Una sensazione di inquietudine si fa largo nella distesa di neve e nella vecchia casa di campagna dei genitori di Jake. Una casa che sembra apparentemente vuota ma intrisa di morte, di rancori e di rimorsi.

Così come per lo spettatore, il tempo inizia ad assumere una connotazione diversa nella storia stessa. Che giorno è? E che anno? Quante ore sono passate?

I genitori di Jake (Toni Colette e David Thewlis) cambiano aspetto di continuo, diventando sempre più giovani o sempre più vecchi. Assistiamo ad un inquietante dramma a tappe, dove Cindy si ritrova a vivere una notte lunga una vita, quasi come se fosse un presagio della sua esistenza con Jake. Troppe cose però sono fuori posto. Troppe similitudini iniziano ad intercorrere tra i personaggi, a tal punto da chiederci chi siano davvero questi due protagonisti. Le pareti della casa si fanno più strette, più asfissianti. Ciò che prima c’era adesso non c’è più o semplicemente ha cambiato posto. Jake vive il momento quasi inconsapevole di quanto stia accadendo. Cindy asseconda l’inquietante e quasi impercettibile mutamento di ogni singolo dettaglio – ma ben seminato e necessario per creare un proprio puzzle mentale del film – ma dentro di sé c’è qualcosa che urla che tutto questo è sbagliato, sentendosi in trappola, non indipendente, come se lei non fosse lei o, semplicemente, lei non fosse mai esista. Ma è davvero così? O è solo frutto della sua frustrazione? O forse è proprio Jake il vero protagonista di questa storia?

 

recensione di I'm thinking of ending things

 

Charlie Kaufman si eleva all’ennesima potenza, creando una realtà stratificata dove si perde facilmente la direzione

Charlie Kaufman si eleva all’ennesima potenza, creando una realtà stratificata dove si perde facilmente la direzione, la bussola, il senso dello stesso racconto. La musica avanza, si fa più intensa, più drammatica. Improvvisamente la neve è ancora più alta. Impazza la tempesta ed ancora una volta la macchina diventa il palcoscenico di un dialogo senza attimi di respiro. Un colpo dietro l’altro. Le parti sembrano essersi però invertite.

Un labirinto di sensazione, dove l’azione è densa a tal punto da essere quasi esasperante. La durata del film si dilata e improvvisamente i minuti sembrano durare il doppio, le ore il triplo. Un labirinto di incubi, di forme e di simboli prende il possesso dell’immagine, mentre un’incalzante pioggia di parola rende ancora più esasperante tanto per i personaggi quanto per gli spettatori l’andamento della storia.

Dalla ballata malinconica dell’inizio, passiamo ad un canto di morte, quasi recitato al capezzale di qualcuno che ha troppo sbagliato nella vita e che se, se sono avesse avuto più speranza, più coraggio e meno paura, forse avrebbe davvero potuto cambiare le cose.

 

 

 

Conclusioni affrettate dal sapore del musical

L’abbiamo detto poco fa in questa recensione di I’m thinking of ending things che Kaufman ha costruito un film camaleontico. Dal dramedy al thriller, dal thriller all’horror, e dall’horror al… musical. Si, un musical! Anche questo dovreste aspettarvi da questo folle incubo ad occhi aperti del regista e sceneggiatore statunitense che per gli “ultimi colpi” ci riserva un finale da musical.

 

recensione di I'm thinking of ending things

 

Un musical che prova a darci una versione della storia. Prova a fornirci le agognate risposte di quelle troppe domande che avranno ormai reso la nostra mente satura, sfinita, esattamente come la nostra Cindy.

Clamorosi tanto Jesse Plemons quando Jessie Buckle. I loro personaggi non sono solo la parte più affascinante di questa particolarissima pellicola, ma è la loro interpretazione a fare davvero la differenza. È grazie a loro se lo spettatore, nonostante la difficoltà del racconto al quale viene sottoposto, riesce comunque a mantenere viva l’attenzione. A restare attaccato allo schermo e a mantenere fino alla fine un legame empatico con i personaggi. Sono loro a salvare un film che, dagli intenti straordinari, diviene fin troppo pretenzioso anche per lo stesso Charlie Kaufman che, con il cuore spezzato, non convince fino in fondo.

Fiore all’occhiello Toni Colette che con la sua sola presenza, renderebbe inquietante qualsiasi tipo di film. E questo è un grande pregio!

 

recensione di I'm thinking of ending things

 

Alla fine della recensione di I’m thinking of ending things possiamo dire che Kaufman firma la sua storia più complessa, più straordinaria e ambiziosa, ma perde parte della sua immensa poetica nell’andare oltre il simbolo, oltre la metafora. Il film possiamo farlo, possiamo fare noi la nostra storia e scegliere chi sia il vero protagonista, cosa sia la realtà e cosa, invece, la fantasia; quando inizia il sogno e quando, invece, si scappa dall’incubo. Indubbiamente da vedere, da pensarci, da digerirci sopra, ma non so se questo atto di fede possa davvero bastare ad apprezzare completamente quest’opera astratta.

 

I’m thinking of ending things è disponibile su Netflix dal 4 Settembre.