La sindrome della capanna

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La chiamano la “sindrome della capanna”: le persone che hanno gestito bene il confinamento e a cui il ritorno alla quotidianità genera molto più stress della quarantena.

La fase 2, così lontana settimane fa, ora è realtà quotidiana seppur con le dovute restrizioni. Ma ci sono moltissime situazioni psicologiche da colmare come quella di chi non riesce a tornare alla “normalità”.

Dopo mesi di quarantena c’è chi vive l’ansia di riprendere i ritmi precedenti, la paura di uscire, lo stress di gestire di nuovo commissioni e file in auto o nei negozi, ma soprattutto questi mesi di “casa forzata” c’è anche chi ha scoperto che la vita non è poi tanto male come si pensava all’inizio.

Il ritorno alla normalità non è quindi da tutti gradito, in particolare per la pressione di dover nuovamente lanciarsi in una società in difficoltà e nuova. Le nostre case, in questo periodo, da “prigione” sono diventate un rifugio, ci hanno tenuto al sicuro dal coronavirus ma anche lontani dal mondo fisico, la cui routine spesso stressa la maggior parte di tutti noi.

Viviamo nella società del fare: fare sempre cose, produrre sempre

La quarantena ha permesso alle persone di avere maggiore tempo innanzitutto per se stessi, poi per i cari nonostante la lontananza fisica si sono scoperti rapporti anche più “intimi” grazie alle video-call e soprattutto più tempo per i loro hobby che con la ripresa della vita di tutti i giorni dovranno essere di nuovo accantonati.

Si è scoperto che con la giusta organizzazione si può fare spesa senza uscire di casa, lavorare anche con più produttività (nei lavori che è possibile fare con un computer), fare anche attività fisica diversa dalla solita palestra ma comunque funzionale.

 

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E poi c’è anche chi, mal volentieri, si è abituato alla nuova routine e a ritmi differenti da cui ora, ugualmente, ha paura di allontanarsi. L’isolamento è spiacevole, ma i nostri meccanismi di sopravvivenza ci hanno permesso di contrastare quel sentimento e di adattarci al confinamento.
In questo caso si parla di “sindrome della capanna” (o del prigioniero). Con questi termini si intende evitare il contatto con l’esterno dopo un lungo isolamento, come appunto quello sperimentato in occasione della diffusione del coronavirus.

Il termine “sindrome della capanna” è stato coniato in quelle regioni degli Stati Uniti in cui il rigido inverno costringe gli abitanti ad una sorta di “letargo”, sebbene non sia pienamente accettato dagli psicologi. Un quadro sintomatologico comune anche nei guardiani dei fari, prima dell’automatizzazione, e che ben si adatta all’attuale situazione di quarantena.

Uno studio da poco fatta su un campione di più di mille persone ha rilevato che il 54% delle persone che erano state messe in quarantena evitavano le persone che tossivano o starnutivano, il 26% evitava luoghi chiusi affollati e il 21% evitavano tutti gli spazi pubblici nelle settimane successive al periodo di quarantena.

Un’altro studio qualitativo invece ha riferito che diversi partecipanti hanno descritto cambiamenti comportamentali a lungo termine dopo il periodo di quarantena, come il lavaggio delle mani vigile e l’elusione della folla e, per alcuni, il ritorno alla normalità è stato ritardato di molti mesi.

 

 

La sindrome della capanna è agorafobia?

In realtà no è una sindrome che con il tempo dovrebbe sparire o diminuire con il normalizzarsi della situazione esterna o con l’adattamento alla nuova situazione. Alcuni sintomi sono simili, come appunto la voglia di non uscire e rimanere a casa, collegati ad un eventuale stato ansioso, l’agorafobia è una vera e propria fobia che nasce in seguito a circostanze personali particolari e che richiede un accompagnamento terapeutico specifico per questo disturbo.

In ogni caso è sempre opportuno, nel caso in cui l’ansia per uscire o il malessere, si prolungassero nel tempo o diventassero molto intensi, chiedere aiuto a uno specialista nella cura degli attacchi d’ansia.

 

 

Come riconoscere la sindrome?

  • Uno dei sintomi più comuni è la letargia. È tipico di questa condizione sentirsi stanchi, con braccia e gambe intorpidite e difficoltà ad alzarsi al mattino.
  • Si possono sperimentare sintomi cognitivi come difficoltà di concentrazione e scarsa memoria.
  • Demotivazione.
  • Voglia di determinati cibi per calmare l’ansia.
  • La caratteristica più evidente, d’altra parte, è la paura di uscire, che spesso viene camuffata. Chi soffre di questa sindrome si limita a esprimere poca voglia di uscire perché sta bene in casa, dove c’è tutto quello di cui ha bisogno.

 

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Dimensione stimata dei lockdown in tutto il mondo

 

Questa sindrome purtroppo è più diffusa di quanto non si pensi, tant’è che l’Università di Pechino ha già elaborato una scala per valutarne l’incidenza.

Non si tratta certamente di una sensazione confortevole per chi ne soffre, soprattutto dato dal fatto che dall’altra parte magari ci sono moltissime persone che vorrebbero da subito scardinare la quarantena per recuperare la propria vita e la possibilità di uscire.

È quindi importante comprendere e rispettare l’atteggiamento di chi, in questo momento, non aspetta con piacere la fase in cui potremo riprendere contatto con il mondo esterno.

Teniamo a sottolineare il fatto che la sindrome della capanna non è un disturbo psicologico ma descrive una situazione emotiva in conseguenza a un contesto di isolamento durato diverse settimane, ma soprattutto chi soffre di questa sindrome non è malato, ma ha solo bisogno di tempo per entrare in una nuova routine.

 

 

Quali sono gli aiuti per fronteggiare la sindrome?

Per questo, i comportamenti utili a fronteggiare un tale stato di paura e avvicinarsi al nuovo cambiamento possono essere: l’introduzione graduale di uscite giornaliere e la riduzione del tempo quotidiano dedicato al riposo, adottare un pensiero positivo e di fiducia verso il prossimo, non rifuggire la compagnia e il confronto con le persone a noi care.

 

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Non alimentate, quindi, paura e ansia con il pensiero di aver perso il controllo della situazione. Le emozioni che provate sono del tutto comprensibili

Sebbene ci si aspetti che queste posizioni di resistenza interna siano in minoranza, sorge un dilemma: se nessuno uscisse e scegliesse di vivere in modo diverso, i consumi calerebbero e l’economia ristagnerebbe.

Come rendere la ruota economica compatibile con una vita meno consumistica? Non sembra che dobbiamo preoccuparci di questo come descrive l’economista José Carlos Díez, prendendo in esame alcuni precedenti:

È successo a New York dopo l’11 settembre. Nelle prossime settimane ci saranno molte persone che non usciranno e smetteranno di avere paura solo quando i morti a causa del virus scenderanno e i media smetteranno di parlare della pandemia a tutte le ore.

Ci vorrà del tempo.

 

 

 

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