Contact Tracing: il prezzo per sconfiggere il coronavirus sarà la nostra privacy?

Contact Tracing: il prezzo per sconfiggere il coronavirus sarà la nostra privacy? Probabilmente la risposta è sì, ma per nostra fortuna esistono diversi modelli da cui prendere ispirazione, e non tutti egualmente invasivi o illiberali.

Nella lotta contro il coronavirus sembra che sia inevitabile il ricorso ad alcune misure di sorveglianza più o meno invasive. L’idea è che usando la tecnologia è possibile mappare facilmente gli spostamenti di una persona risultata positiva al virus, riuscendo in questa maniera a raggiungere tempestivamente altri potenziali infetti. È una strategia utilizzata da diversi stati asiatici —che l’avevano già collaudata con la SARS— ma pian piano anche i governi occidentali si stanno approcciando a questa idea.

Monitorare ogni singolo movimento di una persona, ad esempio usando un’app per assicurarsi che una persona in quarantena non esca dal suo domicilio, introduce delle insidie che sarebbe il caso di non prendere sottogamba.

 

 

Il Contact Tracing

Ormai l’utilizzo della sorveglianza digitale per contenere l’epidemia è uno strumento ampiamente sdoganato anche nei Paesi democratici —  ma questo non significa necessariamente che sia uno strumento compatibile con il moderno concetto di Stato di diritto.

La Corea è stato uno dei primi Stati ad usare il contact tracing digitale

Uno dei Paesi pionieri nell’utilizzo di strumenti di sorveglianza per il contact tracing è la Corea del Sud. Il Paese usa la tecnologia per tracciare ogni movimento effettuato dai positivi al virus. Poi queste informazioni vengono divulgate online in forma blandamente anonima. Spesso le persone che sono state nello stesso luogo frequentato da un malato ricevono una notifica push sul loro smartphone (basta abitare nello stesso quartiere).

 

La mappatura degli spostamenti dei contagiati in Corea, da un servizio di Arirang News.

 

Il messaggio d’allerta include il sesso e l’età dell’infetto, e in alcuni casi perfino la stanza in cui è stato in un determinato edificio, o il numero della poltrona in cui era seduto al cinema, e se indossava o meno una mascherina protettiva per diminuire il rischio di contagiare gli altri. 

Tutte informazioni, spiega la rivista Nature, che le autorità sudcoreane ottengono esaminando i dati del GPS degli smartphone, ma anche i pagamenti con le carte di credito e le immagini delle telecamere di sorveglianza. Informazioni che vengono poi caricate in forma anonima su un sito istituzionale.

È addirittura possibile vedere gli spostamenti di ogni infetto, grazie a mappe create da privati e disponibili a chiunque.

Ma sono nati anche dei siti che raccolgono e elaborano in tempo reale i dati del contact tracing governativo, come coronamap.site

Ogni puntino rosso rappresenta un luogo frequentato da un positivo al covid-19 di recente. Il sito è stato creato da uno studente universitario, ed è già stato visitato da oltre 10 milioni di persone.

 

 

Sebbene le istituzioni della Corea del sud non li indichino con il loro nome, incrociando i dati anagrafici con quello dei movimenti è facilmente possibile risalire all’identità dei malati. Come testimoniano alcuni inquietanti comportamenti rapidamente adottati dai sudcoreani.

Ogni volta che qualcuno riceve sul proprio smartphone l’avviso di aver incrociato un infetto parte immediatamente la caccia all’untore. “Chi mi ha messo a rischio? Chi devo ringraziare se passerò le prossime ore nel terrore di aver preso il virus?”.

Sui forum online e nei gruppi Facebook sono nati dei veri e propri team di cacciatori, persone che passano le giornate ad incrociare i dati sugli spostamenti degli infetti.

Conoscete una persona che lavora nell’ufficio X e vive nella strada Y?”. Ed ecco che si arriva alle liste di proscrizione. A degli identikit non necessariamente affidabili con il rischio di mettere alla gogna chi malato non è. Nulla di nuovo, ci sono almeno un mezzo centinaio di pagine dei Promessi Sposi dedicate all’argomento.

Quello sudcoreano è un metodo che annienta la privacy ed espone gli infetti allo stigma sociale:

Per esempio, se due contagiati nella stessa ora si trovavano nello stesso love motel – gli hotel a ore dove si va a riposare oppure a scambiarsi tenerezze senza problemi di privacy – ecco: beccati gli amanti, decide il popolo di internet. E come se non bastasse la “caccia all’untore” rischia di aumentare la psicosi, e lo stigma sociale.

spiegava in modo efficace Giulia Pompili in un articolo comparso sul Foglio ad inizio del mese.

Al Washington Post una donna coreana ha spiegato di aver smesso di frequentare luoghi di aggregazione LGBT non solo per l’ovvia esigenza di evitare posti affollati, ma anche per il terrore che in caso risulti positiva il suo orientamento sessuale possa diventare pubblico. Eh già, perché i dispacci del Governo sugli ultimi spostamenti dei malati non lesinano informazioni pruriginose, come visite a centri massaggi, “love hotel”, e night club.

 

Ma è davvero necessario?
Il modello della Corea del Sud viene universalmente indicato come uno dei più virtuosi, ma il data tracing è soltanto uno dei tasselli della strategia del Paese. Quello che è messo in dubbio è se davvero la pubblicazione dei dati personali degli infetti aiuti in qualche modo a prevenire i contagi. La National Human Rights Commission della Corea ha definito la divulgazione delle informazioni private dei positivi al covid-19 “oltre ciò che è necessario”.

 

A Singapore i dati sugli spostamenti sono protetti da crittografia e salvati a livello locale

Le persone positive devono poi scaricare un’app aggiuntiva, che funziona grossomodo come il braccialetto elettronico per le persone ai domiciliari. Le persone beccate fuori dalla loro abitazione nonostante il divieto rischiano una sanzione fino a 2.500$. Nel caso in cui un positivo faccia delle dichiarazioni mendaci è prevista una condanna fino ad un massimo di due anni di carcere.

Anche altri Paesi asiatici hanno replicato una strategia simile, ma nessuno è arrivato al livello di divulgazione di informazioni personali della Corea. A Singapore la notifica di allerta può includere l’età e il sesso dell’infetto, ma non la lista completa dei suoi movimenti. Quello di Singapore sembra essere uno dei modelli di contact tracing più virtuosi: avviene con un’app chiamata TraceTogether che usa il bluetooth per registrare e classificare i contatti con gli altri utenti (quando due smartphone si trovano a stretto contatto per più di 30 minuti). I dati sono salvati esclusivamente a livello locale e protetti da crittografia: esclusivamente in caso di positività al virus vengono inviati al Governo per mappare gli ultimi spostamenti e permettere il contatto tempestivo di possibili altri contagiati.

Mentre da Taiwan ci arrivano notizie piuttosto inquietanti. Milo Hsieh è un giornalista americano che lavora come corrispondente dalla piccola nazione insulare, come tutte le persone entrate nel Paese dopo un soggiorno all’estero, è stato sottoposto ad un periodo di quarantena mirata. Hsieh la scorsa domenica ha sostenuto su Twitter di aver ricevuto una inaspettata visita delle forze dell’ordine.

La sua colpa? Gli si era scaricato lo smartphone, cosa che è stata evidentemente interpretata come un possibile tentativo di sottrarsi alla sorveglianza delle autorità. Nel Paese è stata recentemente approvata una legge che autorizza il Governo a condividere informazioni, foto e video sugli infetti che hanno violato la quarantena.

 

 

 

 

 

 

La Sorveglianza anti-coronavirus in Europa e negli USA

Ovviamente si inizia a parlare molto della possibilità di usare la tecnologia per tracciare gli spostamenti dei malati anche in Europa. A differenza che in Corea del Sud, la maggior parte di Paesi occidentali ha adottato misure di quarantena globale, con le persone costrette in casa se non per fare la spesa o altre necessità urgenti. L’Italia è stato il primo Paese ad adottare questa misura.

In Unione Europea le norme a tutela della privacy rendono gli approcci altamente invasivi come quelli asiatici di difficile applicazione

Proprio per questo motivo, è molto probabile che le leggi sulla privacy dovranno venire aggiornate per permettere una qualche forma di deroga, visto la natura degli interessi in gioco. La maggior parte dei governi occidentali sta chiedendo l’aiuto del Big Tech e delle aziende delle telecomunicazioni.

Gli Stati Uniti hanno creato una task force che vede la partecipazione delle principali aziende del settore, da Google a Facebook. In Regno Unito si parla invece di un’app già in fase avanzata di sviluppo guidata dall’Università di Oxford, mentre in Spagna Google e Telefonica hanno prodotto un’app simile che dovrebbe vedere Madrid come prima area di uso sperimentale.

 

 

 

Anche l’Italia guarda con fascino al modello coreano

In Italia una task force del Governo —che vede la partecipazione di rappresentanti delle aziende delle telecomunicazioni, big tech, avvocati, medici, ricercatori universitari ed esperti di virologia— valuta più opzioni. Il Ministro Paola Pisano ha lanciato un appello chiamato Innova per l’Italia.

In queste ore si parla per la prima volta di modello sudcoreano, nel senso che il nostro Paese sta guardando con interesse alla strategia usata dal Paese asiatico nel suo complesso. Molti più tamponi, quindi, ma anche il famigerato contact tracing digitale. Così Walter Ricciardi dell’OMS alla testata spagnola ABC:

Abbiamo adottato la strategia sudcoreana. Verranno effettuati altri test sul coronavirus, che finora si sono limitati ai pazienti con sintomi. In Italia abbiamo già effettuato oltre 200.000 test.

Il modello sudcoreano non cerca di testare tutti i suoi 50 milioni di abitanti ma ha raccolto 300.000 persone, selezionate, legate a pazienti positivi. È proprio qui che insisteremo anche noi”

Ma il quotidiano iberico menziona anche il contact tracing digitale (traduzione via Il Foglio| qui in originale): 

(…) e il terzo, a seguito dell’esperienza coreana, il monitoraggio digitale dei contatti che hanno gli asintomatici attivando una specie di “passaporto digitale”, che potrebbe anche essere una app dedicata, e ovviamente consensuale. Il tutto sarà gestito tenendo conto delle leggi sulla privacy e seguendo le eventuali osservazioni del Garante.

Per il momento il modello è un altro. La regione che più di tutte sta utilizzando la tecnologia per mappare gli spostamenti dei cittadini è la Lombardia. Ma niente invasioni di privacy, i dati sono aggregati e in forma anonima. I lombardi stanno rispettando le misure restrittive? Quante sono le persone che si muovono per più di 500 metri (con l’alta possibilità che non stiano rispettando i divieti)? Queste informazioni vengono ottenute grazie alla collaborazione delle compagnie telefoniche, che forniscono alla regione i dati delle celle telefoniche. È lo stesso sistema usato durante l’Expo per monitorare i flussi di visitatori.

 

 

L’app di un consorzio di aziende italiane

Ma torniamo per un attimo al fantomatico “passaporto digitale” che potrebbe presto venire adottato in Italia. Nel nostro Paese si contano già diversi tentativi da parte dei privati per corteggiare il Governo con proposte di piattaforme tech per la sorveglianza. Il progetto che ha più chance di farcela –sostiene Eugenio Cau— vede gli sforzi congiunti di Bending Spoons (di cui forse i nostri lettori si ricordano), Jakala, Geouniq e il Centro Medico Sant’Agostino.

La proposta è quella di un’app da scaricare su base volontaria, ma con ampi vantaggi per chi decide di usarla.

Una volta scaricata l’app chiede di inserire periodicamente lo status sulla salute dell’utente (febbre, raffreddore, tosse…) che verrà poi monitorato in ogni suo spostamento. Gli spostamenti vengono quindi condivisi alla Protezione Civile, che a quel punto si ritrova con una mappa completa di movimenti e salute di un’ampia fetta della popolazione. I dati sono assolutamente anonimi, a nessun utente vengono chiesti dati personali. 

Sulla base di queste informazioni, il Governo si troverebbe nella posizione di avere una panoramica molto puntuale del livello di rischio di ogni singola area locale, addirittura di ogni edificio: potenzialmente si potrebbe decidere di mantenere in quarantena un condominio ritenuto a rischio, e dare luce verde alla circolazione agli abitanti delle altre case limitrofe. Ma attenzione, questa è solo una delle possibilità e mentre scrivo questo articolo nessuna iniziativa ha ricevuto l’autorizzazione del Governo.

 

Insomma, come è evidente, tra il nulla attuale e il modello della gogna pubblica coreano esistono diverse vie di mezzo che fanno ben sperare.

Presto o tardi, una soluzione del genere non si renda necessaria anche in Italia — nelle stesse forme viste in Asia. Lo potrebbe diventare se il contenimento dell’epidemia risultasse un processo più lungo di quello auspicato fino ad oggi. Lo diventerebbe a maggior ragione se — come teorizza più di qualche commentatore autorevole — quello con il covid-19 diventasse un appuntamento fisso, da cui non esiste via di fuga.

A quel punto, tenere un Paese da 60 milioni in quarantena permanente non è una strada percorribile. È la morte del Paese e una condanna all’indigenza per la stragrande maggioranza degli italiani. L’unica soluzione diventerebbe allora quella di avere quarantene mirate, e monitorare sistematicamente gli spostamenti di tutti per contenere il contagio in un Paese che continua a lavorare, a produrre e a consumare. Proprio come avviene in Corea del Sud.

 

 

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