In questi giorni si sta chiacchierando molto della campagna elettorale di Mike Bloomberg, il miliardario candidato alle primarie Dem. Bloomberg sta spendendo una fortuna in meme su Instagram.
Mike Bloomberg ha affidato parte della comunicazione della sua campagna a Meme 2020, una nuova azienda di PR che gestisce un impero di pagine satiriche in grado di sfornare centinaia di meme ogni giorno.
Un mare di soldi
La campagna elettorale di Mike Bloomberg è guardata con estrema curiosità dagli analisti. Bloomberg ha dalla sua un identikit politico atipico, è un centrista liberal in un Partito che si sta spostando sempre più a sinistra.
L’altro elemento peculiare è che la corsa verso la Casa Bianca di Bloomberg è iniziata relativamente tardi, motivo per cui il suo nome non comparirà sulla scheda delle primarie dem nei primi quattro Stati che andranno al voto. Le performance del suo comitato elettorale potranno venire sondate solamente dopo il Super Tuesday, l’appuntamento più importante, quando il maggior numero di Stati andrà al voto contemporaneamente.
Ma il vero motivo d’interesse è rappresentato dal fatto che Bloomberg è uno degli uomini più ricchi sulla faccia della Terra.
Business Insider attribuisce a Bloomberg una ricchezza personale di oltre 60 miliardi di dollari
L’azienda che porta il suo nome è dietro ad una delle più importanti e seguite agenzie stampa americane, oltre che ad uno dei servizi di report e analisi finanziarie più usati dai professionisti della Borsa. Business Insider attribuisce a Bloomberg una ricchezza personale di oltre 60 miliardi di dollari.
Non è la prima volta che una persona molto benestante si candida per la Casa Bianca, già altri miliardari avevano tentato il colpaccio: quando Ross Perot si candidò negli anni 90 arrivò terzo superando il 10% dei consensi, un risultato mai più replicato da un candidato di un third party. Ma Perot aveva un “sobrio” patrimonio di poco più di 4 miliardi di dollari.
https://www.instagram.com/p/B8fK-kzJTex/?utm_source=ig_embed
Bloomberg per la sua campagna elettorale ha la possibilità di usare risorse pressoché infinite
Durante queste settimane sono uscite alcune notizie piuttosto sorprendenti anche per gli standard (decisamente alti) di spesa della politica americana. Ad esempio sappiamo che Bloomberg sta pagando un minimo di 6.000$ al mese i suoi staffer, e che per un addetto stampa a livello statale si superano tranquillamente i 10.000$. Praticamente il doppio degli altri candidati.
Bloomberg continuerà a pagare i salari fino a novembre, a prescindere se sarà lui o meno la scelta dell’elettorato dem. Dovesse ritirarsi o venire sconfitto, la sua macchina propagandistica verrebbe ridiretta a favore del candidato alle primarie vincente.
Sempre il comitato per l’elezione di Bloomberg ha dato Macbook e iPhone di ultima generazione a tutti i suoi dipendenti. Insomma, girano dei bei soldi.
Per questa ragione, Mike Bloomberg è probabilmente l’unico candidato della storia americana ad aver deciso di correre solo con le sue gambe, non accettando donazioni di nessun tipo, e usando solo le sue risorse economiche personali.
Una campagna elettorale a colpi di meme
Le risorse infinite di Bloomberg gli consentono anche di testare tattiche piuttosto atipiche
Le risorse infinite di Bloomberg gli consentono anche di testare tattiche piuttosto atipiche. In questi giorni ha fatto molto discutere la scelta del suo comitato elettorale di piazzare alcuni meme a pagamento su diverse pagine Instagram molto seguite, specie dai giovanissimi.
Bloomberg si è rivolto alla Meme2020, un’agenzia di PR a sua volta controllata dalla controversa Jerry Media — controversa perché fu al centro di diverse accuse di plagio in passato, ma soprattutto perché è la stessa agenzia dietro alla comunicazione del Fyre Festival, uno degli scam più tragicomici nella storia dei festival musicali.
Meme 2020 gestisce pagine come @GrapeJuiceBoys e @Tank.Sinatra, fabbriche di meme che normalmente non pubblicano contenuti politici. Il format dei post pro-Bloomberg è quasi sempre lo stesso: un finto messaggio privato dove Bloomberg scrive alla pagina in questione supplicandola di pubblicare un meme in suo sostegno.
Il format dei post pro-Bloomberg è quasi sempre lo stesso: un finto messaggio privato
Potresti pubblicare un meme su di me per farmi sembrare figo?
si legge in molti dei finti DM inviati da Bloomberg alle pagine Instagram.
In un’altra occasione il copione cambia leggermente, ad esempio nel post pubblicato da Tank.Sinastra è lo stesso Bloomberg a scrivere di «essere così impaziente per i suoi meme» da aver imparato ad usare Photoshop da solo per farseli da sé.
Il risultato è così surreale e, passateci il termine, (volontariamente) cringe, che è la stessa pagina a dover specificare che, no, non si tratta di un post sarcastico, e che sì, davvero il comitato elettorale per l’elezione di Bloomberg ha pagato per quella roba là.
George Resch, direttore del reparto influencer marketing di Meme2020 e fondatore di Tank.Sinatra, descrive al New York Times la campagna pubblicitaria come uno dei suoi più grandi successi. Il fatto che perfino noi che abitiamo a migliaia di Km dagli USA ne stiamo parlando potrebbe effettivamente dare forza al suo punto di vista.
Credo che il principale motivo del suo successo deriva dal fatto che la maggior parte delle persone non riesca a capire se sia un contenuto vero o no
Ovviamente non è semplice capire se un’operazione del genere sia in grado di spostare anche solo un voto, ma sicuramente aiuta Bloomberg a ricordare agli elettori della Gen Z che esiste. E non è poco contando che fino ad adesso non ha mai partecipato a nessuno dei dibattiti ufficiali delle primarie Dem (non essendo il suo nome in lizza negli Stati già andati al voto).
Quello che prova, semmai, è l’immensa potenza di fuoco di compagnie come la Jerry Media. Il NY Times si è fatto due conti, arrivando ad una lista non onnicomprensiva delle pagine controllate dal network:
@MyTherapistSays, @WhitePeopleHumor, @TheFunnyIntrovert, @KaleSalad, @Sonny5ideUp, @Tank.Sinatra, @ShitheadSteve, @adam.the.creator, @moistbudda, @MrsDowJones, @TrashCanPaul, @cohmedy, @NeatDad, @FourTwenty, @GolfersDoingThings, @DrGrayFang, @MiddleClassFancy and @DoYouEvenLift
complessivamente raggiungono un’audience di 60 milioni di persone composto soprattutto da persone molto giovani.
Le pagine di Jerry Media raggiungono oltre 60 milioni di persone.
È anche interessante vedere come la Jerry Media interpreti la questione dei meme a pagamento su commissione della politica. «Questi meme non sono un endorsement per Micheal Bloomberg», ha raccontato Resch a The Verge. «Sono un modo per ‘ridemocratizzare’ un processo politico. Io ed altre persone con un grosso seguito ci siamo chiesti come poter elevare diversi candidati. Bloomberg è stato il primo a dare importanza all’humor e ad essere disposto ad essere oggetto dello scherno». Nei meme pubblicati dalle pagine affiliate a Jerry Media Mike Bloomberg fa la figura del boomer impacciato.
Allo stesso tempo Resch non si tirerebbe indietro se un domani Trump bussasse alla sua porta:
Faccio meme su di lui gratuitamente da anni, se vuole pagarmi per continuare a farlo perché no?.
La risposta di Facebook
I meme non sono esattamente una novità nell’arsenale delle armi di propaganda della politica, ma è comunque bizzarro che un comitato elettorale agisca in questa maniera. Così tanto bizzarro che Facebook ha dovuto modificare le sue policy per meglio inquadrare questa nuova pratica.
I meme a pagamento di Bloomberg hanno colto alla sprovvista Facebook, che ha dovuto cambiare le sue policy.
In questo caso Bloomberg infatti non sta sponsorizzando dei contenuti attraverso il canale tradizionale di Facebook e Instagram. Non sta creando, in altre parole, delle inserzioni pubblicitarie tradizionali. Il suo comitato si è limitato a contattare alcuni degli influencer e delle pagine di meme più seguite su Instagram, chiedendo loro di pubblicare, dietro compenso, dei meme a sostegno della sua candidatura. Per questa ragione, i meme sponsorizzati non rientrano direttamente nel regolamento stilato negli ultimi anni da Facebook per le inserzioni dei partiti.
Dopo le presidenziali del 2016 Facebook era intervenuto con un cambio di policy mirato soprattutto a garantire la massima trasparenza. L’obiettivo era quello di scongiurare quanto si era visto nel 2016, quando gli elettori americani erano stati bombardati da spot fantasma (visibili solo ad una certa demografica, ma invisibili a tutti gli altri) promossi da pagine civetta. Le nuove regole permettono ai destinatari di risalire facilmente a chi sta pagando per quello specifico spot che hanno appena visto sulla loro bacheca. Ma permettono anche a tutti gli elettori di scoprire facilmente ogni singola inserzione pubblicitaria commissionata da ciascun partito e politico negli ultimi mesi, grazie ad un registro pubblico consultabile liberamente.
Nel momento in cui i politici decidono di non usare la piattaforma per le inserzioni di Facebook e Instagram, ma di rivolgersi al mercato dell’influencer marketing, di fatto stanno aggirando tutte queste regole.
Fino a poco tempo fa Facebook non consentiva ai partiti politici di utilizzare l’influencer marketing. I branded content erano preclusi ai candidati, anche perché si temeva che potessero collidere con la normativa sui contributi alla politica. Ora Facebook è tornato sui suoi passi, di fatto legittimando la strategia di Bloomberg.
Facebook ora nelle sue policy menziona esplicitamente i branded content, spiegando che è possibile usarli (ma solo negli USA) fintanto che il candidato sia «autorizzato» (una frase che, immaginiamo, esclude i candidati che sono stati sottoposti al deplatforming) e che il post nella sua didascalia renda esplicito il fatto che si tratti di un contenuto a pagamento. Ovviamente, nel momento stesso in cui il branded content venga sponsorizzato per aumentare la sua reach scatterebbero comunque le normali policy sulle inserzioni pubblicitarie a tema politico.
La guerra dei meme
Bloomberg (o quantomeno chi si occupa della sua comunicazione) non è l’unico ad aver colto la potenzialità dei meme come veicolo per macinare consenso e visibilità. Prima di lui, un altro candidato alle primarie democratiche aveva puntato moltissimo su questo strumento: Andrew Yang, l’outsider “nerd” che aveva messo al centro della sua proposta l’Universal Basic Income e il tema dell’automazione.
Andrew Yang è letteralmente comparso dal nulla, macinando immediatamente una visibilità tutto sommato considerevole, contando che prima di pochi mesi fa nessuno aveva mai sentito parlare di lui (non ha mai ricoperto un incarico politico). Nonostante ciò l’imprenditore era riuscito ad accumulare un discreto capitale di consenso (era stabile al 3-4% nei principali sondaggi) e donazioni individuali, cosa che gli ha permesso di presenziare a tutti dibattiti ufficiali dei DEM tenuti fino ad oggi — un’impresa non riuscita ad altri politici più navigati di lui.
Il suo segreto? La #YangGang, una community online che ha sostenuto con vivacità la sua candidatura spammando meme su Reddit, Instagram e 4Chan. Un fenomeno che ha trovato l’attenzione dei media mainstream, finendo, inevitabilmente, per valere a Yang una comparsata sul popolare podcast di Joe Rogan.
La campagna di Yang ha fin da subito creato dei veri team incaricati di reclutare e gestire i “memer”, flirtando talvolta anche con quel mondo di giovanissimi ex trumpiani rimasti disillusi dalle promesse non mantenute di disruption politica. “Secure the bag”, recitavano alcuni dei meme più popolari: un riferimento ai 1.000$ di reddito universale promessi da Yang a tutti gli americani. Nel caso di Yang, nonostante qualcuno abbia tentato di ricostruire i fili, era comunque più difficile capire quanto di questo fenomeno fosse spontaneo, alimentato da semplici utenti anonimi appassionati dalle idee del candidato, e quanto invece coordinato direttamente dal comitato elettorale. Andrew Yang ha annunciato il ritiro della sua candidatura la settimana scorsa, ma la strada che è riuscito percorrere con le sue risorse è comunque considerevole.
Ancora prima, nel 2016, era stato il turno dell’Alt-Right, movimento nato e cementificato dal GamerGate, che proprio a colpi di meme aveva venduto ai giovanissimi l’idea che la controrivoluzione reazionaria fosse il nuovo «movimento Punk», in risposta al politicamente corretto ingessato dei progressisti.
Oggi l’utilizzo dei meme nella politica trova riscontro anche in Italia, ed è perfino materia trattata dalla saggistica, all’estero come in Italia — Kill all the normies e la Guerra dei Meme, per citarne un paio.
I meme sono passati dall’essere un fenomeno ristretto a poche community online chiuse —dalle Imageboard ai forum— ad un fenomeno universale che fa gola alla politica mainstream.
Le infinite possibilità in termini di linguaggi e registri rendono i meme uno strumento versatile, adatto per flirtare sia con le nicchie che con le masse (una volta si usava la parola normie, per rimanere in tema); utile sia per il politico moderato di centro che per quello più radicale.
Fanno anche gola ad una politica sempre più istantanea e prona all’iper-semplificazione, che, evidentemente, trova proprio nei meme un veicolo di comunicazione in cui potersi sentire a suo agio.
- BLOOMBERG IS PAYING ORGANIZERS $70 OR $80K”: BLOOMBERG SPENDS HUGE ON GROUND GAME—THROUGH NOVEMBER, EVEN IF HE’S OUT (vanityfair.com)
- Michael Bloomberg’s Campaign Suddenly Drops Memes Everywhere (nytimes.com)
- Bloomberg hired Fyre Festival promoters to make his campaign memes (theverge.com)
- Facebook says political candidates can use paid memes (axios.com)
- The Direct Connection Between Michael Bloomberg and the Fyre Festival (vanityfair.com)
- Presidential candidate Andrew Yang has a meme problem (theverge.com)