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La coscienza di Arthur: e se Joker fosse un inetto?

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Il Joker è un personaggio che nel corso degli anni ha assunto diversi volti diventando l’incarnazione più iconica della follia all’interno dell’immaginario collettivo contemporaneo. La rappresentazione fornita da Joaquin Phoenix potrebbe avere molto in comune con un celebre personaggio della letteratura.

La vita non è né bella, né brutta; è soltanto originale” e “Ho sempre pensato alla mia vita come una tragedia. Adesso vedo che è una commedia” sono le parole pronunciate rispettivamente da Zeno Cosini, il protagonista de La coscienza di Zeno, e Arthur Fleck, l’antieroe e centro gravitazionale di Joker, l’ultimo film dedicato alla celebre nemesi di Batman.

Quello che accomuna le due espressioni è che entrambe si manifestano nel momento in cui i due protagonisti hanno una presa di coscienza su quella che per loro è la condizione imprescindibile che caratterizza il mondo: l’insensatezza.

Oltre alla somiglianza tra i due periodi, emerge anche un’altra caratteristica che fa di Arthur un personaggio molto simile a quello ideato dallo scrittore Italo Svevo: essere un inetto.

 

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Oltre alla somiglianza tra i due periodi, emerge anche un’altra caratteristica che fa di Arthur un personaggio molto simile a quello ideato dallo scrittore Italo Svevo: essere un inetto

Oltre alla somiglianza tra i due periodi, emerge anche un’altra caratteristica che fa di Arthur un personaggio molto simile a quello ideato dallo scrittore Italo Svevo: essere un inetto.

Ma chi è l’inetto? Tra le definizioni a esso correlate possiamo trovare: inadatto, inadeguato, debole, disadattato o fuori luogo. Prendendo in esame, poi, la rappresentazione data da Svevo, vediamo come questa condizione assume contorni più radicali e include indirettamente nel suo significato l’incapacità di far parte di quella società che gran parte della letteratura novecentesca vede sorgere dalle ceneri della rivoluzione industriale e caratterizzata dalla frammentazione identitaria e dall’alienazione – in Joker è presente Tempi Moderni di Charlie Chaplin, pellicola tra le più rappresentative sull’argomento – nonché indirizzata a prediligere gli individui portati all’azione (ammirati e odiati da Zeno) e tendente a escludere coloro che non si dimostrano propensi a prendere parte alla lotta per la sopravvivenza che contraddistingue l’epoca moderna.

 

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La figura dell’inetto emerge prepotentemente ne La coscienza di Zeno, ma trova anche terreno fertile all’interno del Joker di Todd Phillips, proponendo un interessante parallelismo tra due opere profondamente diverse, con personaggi diversi, ma legati probabilmente da un sottilissimo filo comune: non essere adeguati al mondo.

Partendo dal film (all’interno dell’articolo saranno presenti spoiler su Joker NdR.) con protagonista Joaquin Phoenix, cosa possiamo dedurre da Joker? Siamo di fronte a un netto contrasto che pone ai suoi estremi da una parte un individuo e dall’altra una società degradata che prolifica nel caos e nel disordine sociale? In Joker, forse, la questione è meno spettacolarizzata del previsto e più propensa, invece, a mostrare delle sfaccettature che coinvolgono Gotham e lo stesso Arthur Fleck.

 

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Quello che Todd Philips e Joaquin Phoenix ci mostrano è il ritratto di una società malata e di un uomo altrettanto malato, e il concetto di malattia è probabilmente il nodo cruciale del film.

Quello che Todd Philips e Joaquin Phoenix ci mostrano è il ritratto di una società malata e di un uomo altrettanto malato, e il concetto di malattia è probabilmente il nodo cruciale del film.

Gotham City sembra aver assorbito di petto quella frammentazione sopra citata e non sembra in grado di ricorrere a una dialettica efficace nei confronti della molteplicità delle forze che si agitano sotto il tessuto sociale. È in questo ambiente angusto, in questo territorio di confine che si muovono Arthur e Gotham, ferendosi a vicenda, attraverso un passo a due così riuscito e simbiotico in cui anche Batman risulterebbe un terzo elemento non gradito, uno sguardo impotente come quello mostrato dal Bruce Wayne fanciullo alla fine del film.

 

 

 

Salvarsi attraverso la finzione

Arthur è un uomo malato e la sua malattia è la vita, conseguenza inevitabile di un’infanzia traumatica. Da novello Zeno Cosini, il nostro protagonista risulta indubbiamente un affascinante personaggio ma allo stesso tempo anche un narratore inaffidabile.

Il romanzo di Svevo ci parla di un uomo il cui raccontare e rievocare momenti significativi della propria vita risulta macchiato da svariate circostanze: Zeno si affida alla cura di uno psicanalista, ma lo fa ricorrendo alla lettura di un testo di psicoanalisi che non rende attendibili le sue parole.

Storie reali e storie inventate si mischiano in un enorme calderone che ha come unico scopo quello di guarire il protagonista attraverso l’autoconvincimento e non tramite la conoscenza tecnica.

 

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Le vicende di Arthur si svolgono lungo un binario narrativo molto simile a questo.

Le vicende di Arthur si svolgono lungo un binario narrativo molto simile a questo. Così come Zeno, anche il personaggio di Joaquin Phoenix ha un rapporto conflittuale con un’analista, un rapporto che apre e chiude il film. Arthur non rispecchierà completamente i crismi dell’inetto sveviano, ma vive sulla sua pelle le stesse situazioni e conseguenze.

Nel raccontare le proprie esperienze – Zeno a sé stesso e al Dottor S, Arthur al pubblico e alle dottoresse presenti nel film – entrambi sono mossi dalla volontà di rappresentare una vita in cui possano apparire felici e soddisfatti. Zeno plasma il racconto piegandolo alla sua volontà in modo tale che tutti i personaggi in aperto conflitto con lui finiscano per essere travolti da circostanze drammatiche; parallelamente Arthur, per via dei suoi traumi, può immaginarsi una donna comprensiva e desiderosa di stare al suo fianco.

Ad un certo punto del film veniamo anche a conoscenza del fatto che molte delle altre vicende accadute in realtà potrebbero essere il frutto delle sue psicosi. Anzi, non è escluso che tutto ciò a cui abbiamo assistito in realtà sia stato un enorme viaggio effettuato dalla coscienza di Arthur, e il probabile omicidio ai danni della dottoressa durante il finale altro non sarebbe se non la rappresentazione simbolica che il sapere classico, quella conoscenza oggettiva, non può guarire un uomo come Arthur.

Perché persone come Arthur e Zeno non possono essere guarite? Per via della loro sfiducia nel dato oggettivo della scienza – entrambi in un modo o nell’altro falliscono con la terapia – e, soprattutto, perché una verità oggettiva non ha motivo di esistere per questi due personaggi, dato che agirebbe non come una cura capace di ripristinare uno stato di salute originario, bensì come un farmaco che cerca di guarire la vita, già di per sé una malattia, uccidendola. A questo proposito ci viene in aiuto un passo del romanzo di Svevo che recita “A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati”.

Ecco allora sorgere l’unica via d’uscita: le rappresentazioni elaborate dalla volontà. Esse sono le esperienze e le strutture illusorie create dalla mente, che gravitano tutte intorno al singolo soggetto incapace di conoscere la realtà o di sopportarne il peso.

Questa impostazione di matrice schopenhaueriana è la colonna portante del film. Arthur si trova invischiato nelle dinamiche di un mondo dove una feroce lotta per la sopravvivenza sociale sembra incarnare idealmente la volontà di vivere, ovvero quella forza incessante alla base dell’esistenza che ha come unico scopo quello di affermare sé stessa e sussistere eternamente.

Per Schopenhauer l’unico momento di pausa da questo costante dolore, l’unico momento di liberazione dalla lotta per il potere è rappresentato dall’arte. Difatti quest’ultima bussa alla porta della psiche di Arthur, presentandosi sotto forma di danza.

 

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Il protagonista, influenzato anche dal suo terribile passato, si ritrova a errare come una sorta di cittadino alienato all’interno di una Gotham spettrale. Essa non è una città marcia, ma è una città vecchia.

Un luogo dove ridere è sinonimo di felicità o il truccarsi quello di derisione. Non sono ammesse le non decisioni. Quest’ultime sono la prerogativa principale dell’eterno fanciullo jungiano, quella condizione in cui non si vuole abbandonare l’infinita possibilità di scelte offerte dalla giovinezza.

Motivo per cui sia Arthur – il cui trauma infantile è emblematico e sinonimo di giovinezza rapita – sia Zeno vivono nella condizione di eterni fanciulli e quindi impossibilitati a prendere delle decisioni che azzererebbero la loro propensione a essere tendenti verso qualcosa di indefinito. Un rifiuto categorico verso il principio di non contraddizione, che non farebbe altro che definirli come qualcosa e nient’altro di diverso da quella cosa.

E ciò è impossibile perché, come sappiamo, entrambi sono personaggi contraddittori, non possono raccontare una verità conciliante. Esattamente come accadeva con le svariate origini delle cicatrici del Joker di Heath Ledger o il passato a ‘scelta multipla’ di quello ideato da Alan Moore in The Killing Joke.

 

 

 

Il rapporto conflittuale con la figura paterna e l’impossibilità di crescere

Un altro tratto che accomuna i due personaggi è rappresentato dal problematico rapporto con i propri padri.

Un altro tratto che accomuna i due personaggi è rappresentato dal problematico rapporto con i propri padri. La figura paterna per entrambi è un centro nevralgico che sposta pedine della psiche diverse, ma che porta allo stesso, tragico, risultato finale: l’impossibilità di crescere. Questo aspetto – strettamente collegato a quello dell’eterno fanciullo – è profondamente radicato ne La coscienza tanto da essere l’elemento preponderante di due capitoli: Il fumo e La morte di mio padre. In Zeno il vizio del fumo, che non riesce a superare, è la conseguenza di una conflittualità con il padre che sembra essere alla base del più classico dei complessi edipici, anche se il modus operandi del protagonista lascia molti dubbi su quanto sia effettivamente vero o un tentativo di depistaggio da parte del narratore che in realtà potrebbe celare altro.

 

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La natura alla base del sentimento di Zeno nei confronti del padre è quella della rivalsa – che rispecchia la vita di Svevo, diviso tra l’attività da commerciante e la passione per la scrittura – e si manifesta chiaramente durante la lettura del testamento, in cui il genitore lascia il controllo dell’attività in mano a un soggetto esterno e non al figlio. Il non voler affidare a Zeno la gestione degli affari, collocarlo in questa posizione decentrata fa si che al protagonista del racconto venga definitivamente a mancare la possibilità di crescere, di diventare finalmente adulto. Zeno, che provava grande affetto per la madre, riversa invece sulla figura paterna la propria frustrazione, incolpandolo come colui che non gli ha permesso di prendere definitivamente una forma sicura. Il rapporto, invece, tra Arthur e la figura paterna si configura attraverso dinamiche completamente diverse. Non ne ha mai avuto una e questa mancanza si riflette attraverso i continui tentativi del protagonista di cercare qualcuno che possa sopperire a questo vuoto.

Lo fa immaginando Murray che lo abbraccia con sincero affetto, ma, soprattutto attraverso il confronto con Thomas Wayne, colui che pensava essere il suo vero padre. Dinnanzi a lui Arthur ha finalmente la possibilità di porre rimedio all’insicurezza e all’instabilità emotiva che la mancanza di questa figura gli ha provocato, rendendolo un individuo incapace di sviluppare un’identità stabile. Ma il netto rifiuto palesato da Wayne, unito a una verità scomoda in procinto di emergere, portano Arthur, fin lì sempre passivo e inerme, a dare forma in modo deciso a uno sfogo che non può più trattenere: la rabbia per un abbraccio mai ricevuto.

Un abbraccio che non gli è mai stato concesso dalla figura paterna e, adesso, nemmeno dalla sua ultima speranza incarnata nella figura di Thomas Wayne. Con questo sfogo Arthur sta incolpando Wayne – e di riflesso tutte le figure paterne che ha avuto o immaginato nella sua vita – della sua attuale condizione, ovvero la condizione di un uomo che non è potuto crescere, che è rimasto bloccato a un tempo indefinito che ne ha condizionato irrimediabilmente l’esistenza. E in questo sfogo finale che le esperienze dei due personaggi, partiti inizialmente da poli opposti, convergono verso una meta comune. Ironia della sorte, sia il padre di Zeno sia Thomas Wayne (così come Murray) sono personaggi che andranno (o sono già andati) incontro alla morte.

 

 

 

Gotham City e il fallimento della società borghese

E il ruolo di Gotham e dei suoi abitanti? Il contrasto apparentemente netto e deciso che pone Arthur nella condizione di risultare l’elemento schiacciato da una società malvagia e corrotta, è fondato ma non fondante. I cittadini di Gotham appartengono a questa decadenza culturale figlia di una vecchiaia prolungata.

Essi sopravvivono al rigido patto sociale offerto da quel mondo, un patto dove non mancano situazioni spregevoli, ma allo stesso tempo non sono assenti le tonalità di grigio. Se da un lato assistiamo alla violenza gratuita perpetuata dal gruppo di ragazzi ad Arthur nella metropolitana, dall’altro possiamo vedere l’ambivalenza morale mostrata dal collega clown che regala la pistola al nostro protagonista.

L’intento dell’uomo è quello di offrire uno strumento per permettergli di difendersi, ma ciò non gli impedisce di incastrare Arthur e agire come uno dei tanti detonatori che porteranno all’inevitabile deflagrazione che lo trasformerà in un assassino. Questo continuo oscillare tra un’empatia morale e la lotta per la sopravvivenza produce come risultato un’interessante visione mostrata da Philips riguardante la società borghese che culmina nella figura del suo massimo rappresentante: Murray.

Il personaggio interpretato da Robert De Niro è l’araldo di una Gotham rimasta fuori dal mondo, il campione di una classe sociale sull’orlo dell’estinzione.

È attraverso la sua caratterizzazione che si può instillare in noi l’idea del cittadino modello di Gotham a cui piace muoversi – o che sa solamente muoversi – tra due classi sociali agli antipodi e avere come unico obiettivo quello di legittimare la propria posizione di potere.

Difatti Murray non appartiene all’aristocrazia di Gotham, come invece ne fa parte Thomas Wayne, e non appartiene al popolo che si muove nell’underground newyorchese. Si tratta di una figura di mezzo che incarna lo spirito ambivalente e frammentario di Gotham. Murray, come molti altri suoi concittadini, non cerca di schiacciare Arthur per trarne del profitto in quanto persona dall’animo crudele, bensì è colui che invita il protagonista a prendere parte a quello che potremmo definire come il grande gioco di Gotham, un gioco in cui bisogna accettare il compromesso come situazione necessaria di sopravvivenza.

Ciò lo possiamo notare da una presa posizione di Murray che non è mai completamente negativa: deride Arthur nel momento in cui manda in onda il suo video senza chiedergli il permesso, ma allo stesso tempo gli concede massima libertà creativa quando i due discutono nel camerino.

 

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Ecco, dunque, che Murray diventa lo specchio dell’intera città. L’uomo della classe media che si trova nella condizione culturale in teoria migliore – l’ibrido tra due forze -, che vince addirittura lo scontro verbale con un Arthur forse diventato Joker, mettendone a nudo le intenzioni e le fragilità, ma che alla fine di tutto perisce, ucciso nonostante la vittoria; segno emblematico di una società sprofondata nel fallimento.

 

 

 

Arthur e la non-trasformazione in Joker

Il narratore inaffidabile Zeno chiude la propria esperienza terapeutica con un laconico e grottesco “Sono guarito!” a cui si accompagna una visione apocalittica del mondo destinato a sparire. Quel sono guarito è l’ennesima dimostrazione che l’unico modo che ha una coscienza come quella di Zeno di sopravvivere all’insensatezza del mondo è di procedere per astrazioni e chiedere rifugio alla retorica.

Anche in questo caso il percorso di Arthur è molto simile a quello del personaggio sveviano. Durante le battute finali del film possiamo vederlo completamente avvolto da quel suo mondo fatto di rappresentazioni e battute che gli altri non potrebbero capire, confrontarsi con l’analista e, probabilmente, strumentalizzare il suo racconto – che Philip ha sapientemente lasciato nel dubbio – regalandosi un finale consolatorio che stringe un tacito accordo di pace con la propria coscienza e lascia noi spettatori in una situazione di ambiguità. Senza dimenticare che questa sequenza si svolge immediatamente dopo quella di Gotham sprofondata nel caos e nel disordine sociale; un collegamento guarigione-apocalisse che ha molto in comune con quello che viene mostrato nel romanzo.

La malattia – che caratterizza le due opere – trasforma quindi inesorabilmente Arthur nel folle criminale Joker? Formalmente sì, ma il regista/scrittore Philips ci offre un interessante sotto testo in cui il Joker probabilmente non emerge mai, non assume un’altra identità ben precisa, diversa e amplificata di quella di Arthur, anche perché questa scelta tradirebbe la condizione di eterno fanciullo a cui si faceva riferimento precedentemente e che pone il nostro protagonista in una sorta di limbo identitario dove le prese di posizione nette non sono accettate. Arthur è un uomo fragile e la fragilità non è una condizione tollerata nella rigida Gotham. Questa sua condizione si traduce in un perenne stato di passività che lo porta a essere travolto dagli eventi o dalle persone che lo circondano.

 

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La scena della metropolitana, quella dove Arthur viene picchiato e successivamente uccide i suoi assalitori, dovrebbe rappresentare il momento del passaggio da Arthur a Joker, ed effettivamente è quello che siamo portati a pensare da un punto di vista scenico.

Ma, come vedremo poi durante lo svolgimento del film, non avviene nessun cambiamento netto, nessuna rivoluzione radicale per cui possiamo pensare che Joker si sia effettivamente sostituito ad Arthur. In quella scena della metropolitana possiamo osservare Joaquin Phoenix concludere la sequenza davanti lo specchio del bagno, mentre ricorre a quell’elemento di catarsi che gli è necessario non per trasformarsi in altro da sé, bensì per sopportare temporaneamente il peso dell’esistenza. Arthur, in quel momento, si sottrae ai meccanismi della vita e lo fa ispirandosi nuovamente – naturalmente in modo del tutto strumentalizzato – alla filosofia schopenhaueriana: danzando, ricorrendo all’arte.

 

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Il solco scavato nei confronti delle altre versioni di Joker – così come i soliti binomi uomo/supereroe a cui siamo abituati – è netto. In queste circostanze, generalmente, il passaggio da individuo a super personaggio comporta un rafforzamento della personalità che conferisce maggiore sicurezza al personaggio.

Tutto ciò non avviene con Arthur che fin dall’inizio ci viene mostrato non adatto a questa società (inetto) e continua a mostrare questo stato di insicurezza per quasi tutto il film. Il personaggio non regala frasi a effetto, non diventa necessariamente un catalizzatore diretto di nuovi eventi – lo diventa spesso indirettamente, ovvero non per sua volontà; infatti, non sarà lui a uccidere i Wayne.

Dopo che Arthur uccide nella metropolitana, continua a rimanere insicuro e fragile;

dopo l’assassinio della madre non acquisisce ulteriore sicurezza; ma, soprattutto, esce clamorosamente sconfitto dallo scontro verbale con Murray, che è uno dei punti cruciali del film.

Un qualunque altro eroe/villain appena sorto avrebbe oscurato gli altri partecipanti, ma Arthur invece non riesce a ribattere in modo convincente alle obiezioni mosse dal personaggio interpretato da De Niro – confronto da cui esce ridimensionata la sua immagine di eroe delle classi sociali disagiate.

Lascia intendere di essere un anarchico della violenza e di non dare importanza ai risvolti politici delle sue azioni, ma chiude il suo intervento incolpando la società per la sua situazione, e l’unico modo che ha per contrastare Murray è quello di ucciderlo. La trasformazione in Joker, dunque, se avviene lo fa solo nella sequenza finale, quella durante il dialogo con la dottoressa e la successiva camminata di Phoenix nel corridoio del manicomio, sulle note di That’s life di Frank Sinatra.

Ma anche in questo caso la narrazione non affidabile del protagonista non ci restituisce nessuna certezza narrativa. L’unica cosa certa che possiamo dedurre dal film è che la coscienza di Arthur, in un modo o nell’altro, può ritenersi guarita.

 

 

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