Nonostante sia uscita dai saldi binari della graphic novel originale, The End of the F***ing World prosegue con brillantezza oltre il finale aperto della prima stagione e si riconferma come una delle migliori produzioni presenti nel catalogo Netflix.
L’esordio di The End of the F***ing World sul catalogo Netflix ad inizio 2018 dobbiamo ammettere ci aveva colto di sorpresa. Un guilty pleasure piacevole e di qualità eccellente, dalla durata limitata e frammentato in comode puntate da una ventina di minuti: la formula perfetta non solo per un certo successo di critica, ma anche e soprattutto di pubblico, grazie pure alla natura parzialmente teen della serie.
Insomma, visto in ogni caso come ci aveva lasciati la serie due anni fa, l’attesa, la curiosità e le aspettative per questa seconda iterazione erano notevoli, attenzioni – a posteri – senza dubbio meritate.
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Libera dalla narrativa dell’originale graphic novel di Charles Forsman, la seconda stagione di The End of the F***ing World è quanto di meglio potessimo volere dal suo ritorno, un tipo di intrattenimento accessibile e gustoso, ma anche ricco di sfaccettature, allusioni e riflessioni su temi esistenziali con cui risulta facile empatizzare.
La commedia e la fluidità di The End of the F***ing World sono un grande cavallo di Troia per introdurre questioni sentite e complesse ad un bacino di spettatori quanto più ampio possibile, per un’operazione che di nuovo ci sentiamo di promuovere a pieni voti.
Prima di iniziare, vi ricordiamo che la seconda stagione di The End of the Fucking World arriva sul catalogo Netflix da oggi martedì 5 novembre.
Come sicuramente ricorderete, il finale della stagione precedente aveva volutamente evitato di dare risposte ad ogni modo definitive rispetto al destino dei due giovani protagonisti, James (Alex Lawther) ed Alyssa (Jessica Barden), con il primo presumibilmente colpito mentre in fuga dalla polizia. Un finale aperto, amaro ed agrodolce, che aveva da una parte rafforzato la passionalità di una storia nutrita di estremi, dall’altra tenuto col fiato sospeso un pubblico ormai educato a conclusioni lineari.
Lo stupendo trailer di questa seconda stagione volutamente rimarca il dubbio e si tiene sul filo del rasoio nell’assoluta necessità di non voler dare la minima informazione, e non saremo certo noi a togliere il velo dell’incertezza, per ovvi motivi. Parlando quindi in termini generali, possiamo dire che la rinnovata linea narrativa segue in qualche modo lo stesso concept della prima, con una trovata tanto scontata quanto ben gestita che rimette in carreggiata il contenuto motore degli eventi.
I meccanismi sono nella formula simili, se non identici, e il timido vigore dell’amore e del sentimento rimane centrale, sebbene il racconto imposti ora molta della sua attenzione sulle luci e sulle ombre della passione, per mezzo di uno sguardo sì disincantato, ma mai nichilista. Come già accaduto nel caso di James, l’inedito personaggio di Bonnie (Naomi Ackie) è in primis un’occasione per scavare con un tagliente linguaggio da dark comedy i fondali del trauma e le relative conseguenze, su come dolore crei altro dolore, su come a prevaricazione segua altra prevaricazione e violenza, non esclusivamente fisica.
Senza ombra di dubbio il lavoro di Naomi Ackie – che rivedremo come Jannah a dicembre in The Rise of Skywalker – nell’interpretazione dell’inquietante “antagonista” Bonnie ha dell’impressionante, e specie nelle ultime battute regala momenti davvero sorprendenti, sulle cui spalle poggia il punto di massima tensione della stagione. Attraverso gli occhi di una stravolta ed alienata Bonnie vediamo innocenza quanto determinazione, disperazione quanto forza, in una caratterizzazione dalla maldestra doppia faccia in grado di rendersi a tutti gli effetti memorabile.
Jessica Barden è ancora una volta ugualmente convincente come una danneggiata Alyssa, molto meno sicura di sé stessa rispetto a quanto possibile ricordare e intrappolata in uno passato da cui non vuole e non può fuggire, se non con gesti estremi e caricaturali che rientrano a pieno nella dimensione grottesca e malinconica dello show.
Meno nello specifico, tutte le interpretazioni del cast principale si mantengono su livelli piuttosto notevoli, centrali come sono nell’economia del racconto, mentre i comprimari si limitano a comparse bizzarre e dedite ognuna alla trasmissione di un certo preciso messaggio.
Non solo tanta sostanza, in ogni caso, ma anche parecchia tecnica. The End of the Fucking World appare vistosamente come una serie britannica, curata con attenzione in una fotografia mai fine a sé stessa (un paio di frame vorremmo conservarli) e sopra ogni cosa nel sonoro, con brani che praticamente accompagnano e seguono ogni azione e stacco a schermo, tra melodia e testo.
Nel mezzo fra amore e morte, quella della seconda stagione di The End of the F***ing World non è in definitiva una scrittura frivola e adolescenziale, al contrario di quanto si possa pensare, ma un umorismo non sempre coraggioso che approfondisce intrattenendo, senza mai svilire.