Quentin Tarantino è senza ombra di dubbio uno degli autori più influenti della corrente e della scorsa generazione. Derivativo delle correnti di genere del cinema del passato ed allo stesso tempo a suo modo genitore di un nuovo tipo di exploitation. Nel cineasta losangelino troviamo il cinema alla sua essenza.
Parlare di una divinità della pellicola come Quentin Tarantino non è così semplice. Ci troviamo davanti a questo foglio bianco cercando le parole per descrivere le emozioni, l’estetica e la poetica trasmesse in pellicole così intense da togliere il fiato, da costringere alla massima mimesi con quello splendido medium di intrattenimento che risponde al nome di cinema.
Vedete, esiste un motivo per il quale Tarantino viene apprezzato tanto dai cinefili quanto dal pubblico occasionale, e sta nel suo sapere unire in ottica sostanzialmente perfetta l’immagine di una filosofia, quella postmoderna, con gli eccessi di una tecnica di exploitation curata all’inverosimile e caratterizzata dalla visione deduttiva della rivisitazione e della nostalgia.
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L’intenzione di scrivere un flusso libero di pensiero a riguardo di una delle menti artistiche più illuminate degli ultimi decenni era un chiodo fisso che ci ha tormentato per mesi, e l’occasione dell’arrivo nelle sale di C’era una volta a… Hollywood si è rivelato l’occasione perfetta; impossibile dire di no. Dopo essere stati fulminati per ben due volte dalla decima opera del cineasta – la prima volta in proiezione stampa, la seconda subito dopo l’uscita, gustandoci le reazioni degli spettatori presenti -, un torrente di caratteri ci scivola via dalle dita. Del film tarantiniano più recente tuttavia non parleremo, lasciandovi invece alla recensione di cui sopra della nostra Gabriella Giliberti.
Da Le Iene alla Hollywood rivisitata di fine anni ’60, passando per Bastardi senza Gloria, Pulp Fiction e Kill Bill. Una riflessione disimpegnata su Quentin Tarantino.
L’esordio alla regia di Quentin Tarantino – e anche la sua prima vera presentazione al banco del cinema -, ovvero Le Iene, non ebbe certo lo stesso impatto del plebiscito corrisposto al successo di Pulp Fiction. Quindi sebbene da molti riscoperto solo a posteriori, Reservoir Dogs è forse la vera dichiarazione d’estetica della prospettiva tarantiniana, che vive in questo caso di una dimensione contenuta e compatta per fare esplodere con immenso fragore i temi di un’esperienza di genere senza precedenti.
L’intero fil rouge (con l’eccezione di un paio di stacchi) si svolge all’interno di una singola location, per di più in toto spoglia, riempita – invece che da mobili o suppellettili – da una messa in scena serrata come un cappio sul collo dello spettatore e dalle performance straordinarie di Harvey Keitel, Tim Roth e (soprattutto) Michael Madsen, il cui momento danzato corrisponde ad immediato cult nella memoria di qualsiasi cinefilo. Il corpo di Mr. Orange rimane inerme sul pavimento per l’intera durata dell’inquietante scena, sottile avvertimento dell’improvviso capovolgimento di prospettiva e del successivo stallo alla messicana, come da manuale avvolto e completato nel sangue.
In un minutaggio relativamente limitato (poco più di un’ora e mezza) se comparato con il resto della filmografia, troviamo ogni elemento del decorso tarantiniano: dalle linee narrative multiple di Pulp Fiction ai dialoghi serrati di Bastardi Senza Gloria, dagli stalli à la Leone di Django Unchained e The Hateful Eight ai piani sequenza climatici e costruiti, passando per una satira caricaturale straniante distesa su episodi scanditi. Poco importa della sensibilità alla violenza del pubblico pagante puritano e delle accuse di plagio rispetto a City on Fire di Ringo Lam, dalla placenta de Le Iene nasce e conflagra il Quentin Tarantino dai mille talenti.
Se Le Iene segna la conclamata manifestazione del carisma artistico del buon Quentin, Pulp Fiction ne sottolinea invece la grande predisposizione per il successo commerciale. Con più di 200 milioni di dollari di incasso e dopo essere stato inondato di riconoscimenti e premi dall’Academy, a Cannes ed ai Golden Globes, il film con John Travolta, Samuel L. Jackson (che qui inizia il suo sodalizio con il regista), Bruce Willis ed Uma Thurman mette al centro dei riflettori Tarantino come la nuova stella nascente della Hollywood moderna, introducendo nel linguaggio delle sale la parola Pulp, ovvero quella violenza apparentemente fine a sé stessa, quella scrittura di personaggi eccentrici e quell’atmosfera cristallizzata ed irreale in grado di rendere ogni azione a schermo al servizio di una certa visione d’insieme.
Le musiche iconiche (si pensi al ballo di Vincent Vega e Mia Wallace) vanno parallele ad una stesura degli eventi quantomeno peculiare, reificazione definitiva del montaggio non lineare de Le Iene e della legittimazione di un’eccentricità sospesa nel tempo e semplicemente fuori scala, tanto efficace da avviare una successiva serie di emulazioni tale da riempire buona parte delle programmazioni di fine anni ’90.
D’altronde come dimenticare la struttura circolare del racconto (il cui prologo ed epilogo coincidono con la rapina del personaggio di Tim Roth), la successione di nuovo non cronologica e non causale degli episodi (inserire la morte di Vega a metà film è una grande intuizione) e le parentesi totalmente non-sense dell’incidente stradale, del tentato stupro sadico, dell’esecuzione tramite katana ed infine dell’evirazione con colpo di pistola.
Pulp Fiction è una pellicola seminale che come la migliore rappresentazione espressionista catapulta con forza e violenza lo spettatore all’interno della percezione estetica dell’autore, è il perfetto pastiche immerso tra buddy-commedy, thriller e grottesco, nonché a tutti gli effetti pietra miliare della storia del cinema e forse opera meglio rappresentativa di postmoderno ed avantpop.
In direzione forse anticlimatica rispetto al clamore di Pulp Fiction, pellicola meno valutata nell’interesse generale tra l’insieme di singoli capolavori, Jackie Brown è una delle perle meglio confezionate, ma anche meno bombastiche (per questo forse la minore attenzione alla qualità immensa del lungometraggio), del pazzo regista losangelino. Questa volta non a partire da un concept originale, ma tratto dal romanzo Rum Punch di Elmore Leonard, Jackie Brown rinnova i virtuosismi di struttura dei precedenti due esordi tarantiniani, per concentrarsi su un lavoro clamoroso di montaggio alternato una volta arrivati ai binari finali della parabola dell’astuta hostess di Pam Grier (che dopo questa splendida interpretazione non è purtroppo emersa in ulteriori produzioni).
Le prospettive multiple con cui si assiste all’ultimo scambio di denaro nel centro commerciale coronano una architettura di crescendo climatico che vive di continui, chirurgici twist, dietro i quali appare anche abbastanza complesso seguire ciascun passaggio. Ogni personaggio segue interessi personali nel dettaglio, creando un mosaico imprevedibile e densissimo, per i personaggi come per lo spettatore, destinato ad ampliarsi e delinearsi solo nella finale comprensione delle intenzioni di Jackie.
Il panico della confusione nella direzione convulsa ed ossessionata da un tema ripetuto specchia il pubblico tramortito, nella prima finestra dello scambio; la tensione (di scrittura e tecnica) al limite del parodico e del surreale scandisce l’omicidio della bella ed indolente Melanie da parte del rozzo Louis (del sempre eccellente De Niro); la soluzione e il conseguente crollo del ritmo definiscono la tranquilla fuga dello statuario Max Cherry (un plauso a Robert Forster).
Nell’unità (quasi) terminale di Jackie Brown si insidia tutto quello che amiamo di Tarantino, la cui vera abilità è dalle origini stata dopotutto nel saper collimare meticolosamente scrittura e messa in scena, dove nessuna delle due viene in toto messa al servizio dell’altra.
Quentin Tarantino però è soprattutto riconosciuto per la propria dimensione autoreferenziale, espressa in modo particolarmente esplicito in tutta la produzione del nuovo millennio, partendo non a caso da quel capolavoro assoluto di Kill Bill. Inizialmente pensato per essere portato in sala in soluzione unica (mostrata una singola volta solo a Cannes), poi diviso artificiosamente in due parti/volumi per necessità di botteghino (4/5 ore di minutaggio sarebbero state follia, in effetti), Kill Bill è il maggiore omaggio del cineasta alle pellicole nipponiche di genere, parte della sua formazione come il cinema italiano e parte di quello statunitense.
Beatrix Kiddo è un personaggio femminile di gigantesca caratura (che insieme a Jackie Brown e Shoshanna dovrebbe rendere ridicole le polemiche recenti su Margot Robbie), guidata da matrici di cieca vendetta ed estremamente ben caratterizzata, seppur nei toni esuberanti di un’azione senza tregua.
L’apertura in bianco e nero, interamente in primo piano su La Sposa (alias di Beatrix) massacrata, getta lo spettatore in uno stupendo turbinio senza chiarire le coordinate di quanto mostrato; il titolo del film e la presenza di un certo omicida Bill sono indizi abbastanza eloquenti, ma la reticenza di Tarantino nel dare ogni informazione qui certo non risulta assente.
Del primo volume, il risveglio di Beatrix nell’ospedale e lo scontro con Vernita Green sono gli elementi che contestualizzano da una parte la brutalità gore del film, dall’altra il contrasto tra le parentesi rarefatte dell’onore e quelle caricaturali degli scontri (su questo ultimo punto basti pensare al personaggio di Daryl Hannah, Elle Driver).
Andiamo abbastanza sul sicuro nel ritenere il successivo e lunghissimo combattimento all’ultimo sangue con gli 88 Folli la vetta ultima della costruzione tarantiniana, che con una regia da sturbo ed una coreografia esaltata riesce a rendere il massacro l’equivalente di uno schiaffo violentissimo volto a definire questa prima tornata. Una volta visto, impossibile dimenticare i fantastici giochi divertiti di luci ed ombre sulla silhouette di una danza mefistofelica, conclusi dalla morte onorevole di O-Ren; incredibile.
Il secondo volume di Kill Bill vive di una più accentuata introspezione, sottolineando però – come nella prima parte la sezione di Hattori Hanzo – l’importanza dei topos nipponici all’interno dell’economia del racconto (si pensi a Pai Mei). L’azione va in secondo piano quando il dialogo tra La Sposa e Bill prima del massacro dei Due Pini è un piccolo gioiello (che immensa e fragile Uma Thurman), come pure l’intimo faccia a faccia tra i due nell’epilogo cronologico dell’opera. Ha un sapore agrodolce, il termine dell’arco di Beatrix Kiddo, capolinea organico a solidi modelli di riferimento ed esaltato da nemesi vivaci come Budd Gunn (Michael Madsen de Le Iene) e l’infame Elle.
La trilogia di rivisitazione storica di Quentin Tarantino parte invece con Bastardi senza Gloria, a parere di chi scrive il migliore lungometraggio dell’autore di Knoxville e forse uno tra i prodotti audiovisivi più rilevanti dell’ultimo ventennio. Con l’ennesimo cast da sogno bagnato (Christoph Waltz, Michael Fassbender, Brad Pitt, Eli Roth, Diane Kruger), il racconto ucronico del secondo conflitto mondiale si tinge del colore del sangue e di un ritmo incrollabile. Il prologo, con il colonello Handa (di un Christoph Waltz sublime) ed il climax ineluttabile fino al massacro conclusivo dal quale sopravvivrà solo la temeraria Shoshanna (altro forte personaggio femminile tarantiniano), pone i termini della spietatezza di un film che rende grottesca la realtà storica, senza però ignorarla.
Il tenente Aldo Raine di Brad Pitt (ad una delle interpretazioni migliori della sua carriera) si erge ad emblema di un approccio vendicativo non solo su un livello narrativo, ma anche e soprattutto su quello di un’ironia sferzante e caustica che ridicolizza (e massacra) terribili criminali di guerra. E’ lo stesso approccio utilizzato con il Charles Manson di C’era una volta a…Hollywood, quale migliore svilimento di una caratterizzazione satirica? In ogni caso, la sequenza dell’incontro con l’attrice Von Hammersmark e l’errore del numero tre, con conseguente dialogo serratissimo (perfezione) ed ecatombe, è un immediato momento instant cult, come anche l’attentato del cinema in fiamme ed il divertentissimo Enzo Gorlami di Raine.
Con diversi momenti minori e lo stesso incredibili (ad esempio il dialogo a cena tra Shoshanna e Landa), Bastardi senza Gloria è la sintesi estrema della sceneggiatura tesa e del campo/controcampo tipici di Tarantino, nel pieno dell’eredità di quanto seminato da Sergio Leone; il che ci porta al western ritrovato di Django: Unchained.
Parto invece di Sergio Corbucci (citato in C’era una volta), il Django con Franco Nero (che compare anche in Unchained) è una delle produzioni western più celebri ed allo stesso tempo controverse del cinema di genere italiano. Non appare troppo complesso comprendere i motivi che hanno spinto Quentin Tarantino ad omaggiare il film di Corbucci, specie con le discussioni avvolte attorno alla violenza del film del ’66 e la sua rilevanza storica all’interno del panorama nostrano in un contesto internazionale.
Come quindi questo importante richiamo lascia legittimamente pensare, Unchained ruota interamente attorno ad un richiamo allo spaghetti western italiano, in un’ulteriore conferma di quanto Tarantino adori rielaborare le influenze che ne hanno in effetti costruito la statura artistica.
Ecco dunque gli zoom improvvisi sul primo piano, il dettaglio sospeso sulle armi, la scenografia spoglia e desertica e l’esplodere denso della violenza in un baccanale di morte tinto nel sangue. In topos vecchi di quarant’anni comunque si ritrova tutto il sostrato assunto da Le Iene in poi, attraverso un’opera orchestrale da grande visione di insieme, apprezzabile sia in ottica sincronica che diacronica, sia apprezzando la firma dietro l’operazione, sia godendo della sua essenza derivativa.
Jamie Foxx e Christoph Waltz vantano una chimica invidiabile, e nel loro rapporto si nasconde il messaggio politico e sociale qui dettato da un Tarantino rabbioso, irato e caustico verso una storia che solo il Cinema può essere in grado di cambiare. Non a caso Django: Unchained è la seconda ucronia storica tarantiniana, un mondo dove – appena prima della guerra di secessione americana – uno schiavo liberato come Django può effettivamente diventare un cacciatore di taglie, uccidere un latifondista nel Mississippi (il Calvin J. Candie di DiCaprio) e poi infine farla franca, per di più fuggendo con l’amata da tempo perduta.
E’ una favola critica quella di Unchained, che evidenzia i comportamenti più meschini (il capo della servitù di Samuel L. Jackson) contrapponendoli agli epiloghi più positivi, sciorinando tuttavia in ogni particolare la brutalità di una società di bestie senza compassione tra interessi classisti.
In tutto questo, Django: Unchained brilla tra l’altro anche per la partecipazione di Ennio Morricone alla colonna sonora, contributo che si rivelerà chiave ed evocativo in The Hateful Eight.
The Hateful Eight – ultimo film ad essere trattato in questo lungo speciale – sfugge con una certa insidiosità alla classificazione dei generi. Un po’ western, un po’ provvisto della suggestione del giallo, la penultima progenie di Quentin Tarantino in ordine cronologico è una piccola perla confezionata con cura artigianale, piuttosto diversa rispetto a precedenti passi nella filmografia ed allo stesso tempo coerente con la poetica tarantiniana, come per esempio nel recupero dell’unità di luogo e di una impressionante compattezza nella stesura del racconto.
La scelta di isolare l’azione nell’emporio di Minnie e poco altro, circoscritta da una bufera fosca che sa quasi di cinema horror, permette il ritorno ad una esclusiva concentrazione sulle interazioni tra personaggi e relative caratterizzazioni, sviluppate in uno spazio al limite dell’onirico. Qualcosa sulla via per Red Rock è fin dall’inizio fuori posto, difficile però comprendere esattamente cosa, e con una pazienza degna della migliore Agatha Christie Tarantino svela a poco a poco le pedine della sua tavola, rendendo sempre più evidente l’ombra sterminata e maligna dietro ciascuna apparenza e tornando infine al Pulp una volta concluso la parabola di tensione dell’indagine.
Le musiche di Ennio Morricone (che vantano un Oscar) sono poi probabilmente parte integrante del film tanto quanto la tecnica di Tarantino, visto che stiamo concludendo questo pezzo proprio scivolando sulle tracce del grande maestro. Il contenuto di tre ore di immagini scorre intero tra le note di una colonna sonora che fissa con il suo tema gli eventi nelle sue incognite ed incertezze, stimolando lo spettatore a rafforzare la propria sospensione di incredulità e perdersi nell’ennesimo viaggio spietato di un artista immortale.
Un emporio isolato, diversi individui avvolti dal mistero e fiumi di sangue nelle ultime battute, senza alcun sopravvissuto. Cosa vi ricorda? Il nostro viaggio si conclude esattamente dove è cominciato.
Il ritratto in testa all’articolo e in cover oggi è di Stacia Loshkareva