A distanza di qualche mese dall’uscita di Bandersnatch, torna su Netflix Black Mirror con una quinta breve stagione. Ma, come già si era iniziato a presagire dalla terza stagione, per poi averne conferma nella quarta, la geniale serie antologica di Charlie Brooker ha perso gran parte del suo smalto e più che prevedere i tempi, sembra non riuscire a tenergli testa.
La domanda sorge spontanea: siamo noi ormai troppo veloci, troppo smaliziati, troppo apatici da non riuscire a sorprenderci più, a inquietarci più, di fronte a quello che non sembra essere più un futuro distopico, quanto più un passato prossimo?
O forse è Black Mirror che in questi anni, finito il brillante lampo di genio tipicamente british, si è lasciato americanizzare, diventando una serie standard, monotona e incapace di bloccarci ancora sul divano?
Entrambe le risposte in questo momento mi sembrano giuste: è innegabile che Black Mirror abbia perso davvero tanto, tantissimo, in questi anni.
Mi sento un po’ uno di quei privilegiati adesso. Di quelle persone che un po’ per caso nel 2011 scopre questa assurda e geniale miniserie antologica, creata da uno showrunner inglese che si era già messo alla prova con una particolare serie, Dead Set, nel 2006 ambientando il Grande Fratello nell'”era” dello zombie. Una studentella di cinema particolarmente affamata che già da tempo aveva iniziato a masticare la serialità britannica, trovandola estremamente geniale, specifica, misurata e al tempo stesso eccessiva, capace di costruire storie che sapessero arrivare dritte al punto attraverso formule e costruzioni nuove e sempre più innovative.
E me la ricordo ancora la mia faccia a fine visione di The National Anthem. Episodio che, in fondo, di distopico non aveva ancora troppo, ma che già ci mostrava come la tecnologia, lo share e l’essere costantemente collegati, di lì a poco avrebbe del tutto cambiato le nostre vite. Episodio lungo quasi quanto un film. Intenso. Feroce. Disturbante. Qualcosa che ti rimane attaccato nelle ossa e ti porta a chiedere: e se fosse successo a me? Cosa avrei fatto?
Ed ecco la magia di Black Mirror: attività. Charlie Brooker non aveva solo creato una serie dal formato particolare (una mini serie di soli tre episodi lunghi come un film, tutti diversi tra di loro e uniti dal comune minimo denominatore che è la tecnologia), ma aveva creato un prodotto che rendeva direttamente partecipe chi lo guardava. Una serie che voleva attivo il suo spettatore, pronta a colpirlo, torturarlo, farlo riflettere, fargli chiedere “quanto sarebbe mancato prima che…”.
E pur restando irraggiungibile, The National Anthem è stato l’inizio di un crescendo di storie, allucinazioni, atmosfere a noi sempre più vicine, per quanto tecnologicamente non del tutto fattibili. Modelli e situazioni che già stavamo iniziando a vivere: la dipendenza da social, dai like, dal mettersi in mostra, il non saper distinguere il realtà dalla virtualità, il restare perennemente connessi a tal punto da perdersi, il vivere all’interno di un altro mondo fino a compiere atti terrificanti.
In Italia quella prima stagione arrivò su Sky Cinema un anno più tardi e, nel 2013, Brooker aveva sfornato una seconda stagione, che pur cambiando ancora storie e personaggi, si rifaceva molto a quella prima stagione.
Nell’era delle grandi piattaforme streaming era ovvio che anche Black Mirror facesse il grande passo.
Ovvio che gli americani puntassero al gioiellino di questo showrunner con l’intento di assimilare il format e farlo diventare una gallina dalle uova d’oro su vasta scala internazionale. Ed è forse in quel momento che Black Mirror, alla fine, ha smesso di essere Black Mirror.
Oggi, 5 Giugno 2019, a distanza di otto anni e mezzo da quel primo episodio andato in onda il 4 Dicembre del 2011 su Channel 4, Black Mirror torna su Netflix con la sua quinta stagione. Una quinta stagione che da un lato riprende le origini, confezionando solo tre episodi ognuno lungo quanto un film, ma che dall’altro lato prende definitivamente le distanze dal format originale.
Se nella stagione tre, Black Mirror ha saputo regalarci ancora delle perle, come per esempio Shut Up and Dance (l’episodio più british di tutta la stagione e con l’essenza più vicina al cuore di Black Mirror), o ancora Nosedive e San Junipero; già dalla quarta stagione il format ha iniziato a “puzzare” di stantio. Storie già viste e riviste. Escamotage già utilizzati. Situazioni talmente tanto vicine al nostro quotidiano da non sorprenderci neanche più.
E se in quel caso potevo anche accettare che l’obiettivo fosse quello di farci rendere conto che il problema siamo noi, ormai talmente tanto apatici e soggiogati dagli schemi sociali, dalla virtualità e dalla tecnologia, da non scandalizzarci neanche più quando ci viene mostrato quanto alla deriva siamo riusciti ad arrivare, con questa quinta stagione non lo accetto più.
Lo stesso Bandersnatch è stata una trovata che, per quanto interessante all’inizio, non faceva altro che burlarsi dello spettatore, prendendolo un po’ in giro e dandogli l’illusione di poter davvero scegliere le sorti del protagonista.
In questa nuova stagione ci troviamo di fronte a tre storie che non dicono nulla. Una più stantia dell’altra. Abbiamo da una parte il classico episodio su videogiochi – a Black Mirror il media videoludico piace davvero tanto, peccato che non sia ancora riuscito a sfruttarlo come si deve. Forse l’unico più convincente dei tre, ma in ritardo di almeno dieci anni. Giocatori che si nascondono dietro i loro avatar e portano avanti storie d’amore, di sesso e illusioni? Ragazzi quindici anni fa sulle chat e forum di gioco di ruolo ho visto di peggio!
Il secondo episodio è quello dallo stampo più british. Una sorta di Shut Up and Dance, ma senza lo stesso appeal, la stessa forza, lo stesso coinvolgimento. Sembra essere più un lungo episodio moralista su quanto pericoloso sia stare al telefono mentre si è in macchina e sulle conseguenze che rispondere anche solo ad un messaggio può comportare.
Il terzo episodio, forse quello che poteva davvero avere il potenziale più alto e dalle atmosfere più distopiche di tutti, non è altro che una parentesi sulla vita della sua interprete, Miley Cyrus, e sui giovanissimi artisti pilotati fin da bambini da genitori/parenti manager capaci di strumentalizzarli a tal punto da renderli dei veri e propri automi, pur di spremere fino all’ultimo la loro gallina dalle uova d’oro.
Tre episodi che alla fine della giostra lasciano molto poco.
Durante il loro svolgimento si percepisce quasi come un senso di svogliatezza tanto nella stesura della sceneggiatura, quanto nella regia. Nulla da eccepire dal lato attoriale, perfino Miley Cyrus recitando se stessa sembra essere piuttosto convincente.
Ognuno di questi episodi è dominato da un personaggio più noto e predominante, come nel caso di Striking Vipers Anthony Mackie e in quello di Smithereens Andrew Scott.
Dell’aspetto disturbante e inquietante di Black Mirror, dell’interazione con lo spettatore, del portarlo a farsi delle domande, a sorprendersi e angosciarsi, non vi è nulla.
Il fattore claustrofobico tipico di Black Mirror, che quasi non permette di respirare, che stringe alla bocca dello stomaco lasciando attoniti, attanagliati nella nostra stessa consapevolezza di cadere sempre più in un baratro di solitudine e finzione virtuale, viene del tutto sacrificato per qualcosa di talmente standardizzato da non provocare più nessun effetto, se non quello del “ah, è finito!?”.
Ed è un peccato vedere come una serie con così tanto potenziale sia stata a tal punto spremuta da non lasciare nulla. Qualcuno vorrà anche dirmi: Black Mirror si è umanizzata! Beh, direi che non è poi questa gran vittoria o cosa positiva. Noi esseri umani abbiamo dimostrato più volte di non essere certo dei grandiosi esempi o modelli da seguire. Una ventata di aria fresca? No.
Possiamo definirlo un cambiamento, ma non credo che sia un cambiamento positivo, anzi l’esatto opposto. La serie sembra essere diventata vittima di quella stessa critica mossa con così tanta passione e fervore nelle sue prime stagioni.
Un futuro quello di Black Mirror ormai stantio, dal sapore del passato e di albori che, difficilmente, ritorneranno.
Andiamo, comunque, a vedere brevemente nel dettaglio questi tre episodi.
Striking Vipers
Diretta da Owen Harris, scritta da Charlie Brooker.
A volte alcuni videogiochi possono diventare più invitanti della realtà stessa. Non ci mostrano solo una via di fuga dalla routine, ma anche un modo per sfogare i nostri impulsi, i nostri desideri, per essere chi vorremmo essere davvero. E nascosti da un monitor, un avatar o un personaggio, tutti possiamo essere chiunque.
Striking Vipers è, banalmente, la storia di un’amicizia unita da una videogioco: un picchiaduro in perfetto stile Mortal Kombat o Street Fighter. Protagonisti due amici dal tempo del college che, persi di vista, si ritrovano con due vite totalmente differenti e, una sera, per scaricare un po’ di tensione, si ritrovano a giocare a Striking Vipers.
Ma a differenza del passato, uno speciale dispositivo – lo stesso che ci ricorda USS Callister – permette ai giocatori di diventare il loro stesso personaggio. Questo darà ai due di scoprire una vecchia passione, e delle pulsioni sepolte nell’angolo più remoto del loro essere, che esploderà travolgendosi in un’aspettata svolta.
https://www.youtube.com/watch?v=uzPj6RX5-nI
L’episodio in linea di massima scorre molto bene. Per certi punti di vista, a livello narrativo e non per quanto riguarda le suggestioni, sa anche come sorprendere lo spettatore, portandolo a fare delle ipotesi (a volte perfino più perverse dello svolgimento stesso dell’episodio) che poi verranno del tutto smentite. Dall’altro canto, per quanto riguarda la tematica, non c’è nulla di nuovo. Tutto già visto.
Tutto già provato prima ancora che qualcosa come “la realtà virtuale” potesse entrare nelle nostre vite. Senza bisogno di proiettarci all’interno di un gioco, molti giocatori nella loro esperienza si sono finti altro per scopi differenti.
Nessuno può darci davvero al certezza di chi c’è dall’altra parte del monitor. Chi sia davvero la bella ragazza dagli occhi blu o il ragazzo gentile e premuroso. Il sesso virtuale, il fingersi un’altra persona, l’illuderne un’altra, mentire sull’età, infatuarsi di un personaggio, sono cose che capitavano (e forse capitano ancora) già quindici anni fa. Tutto già visto. Tutto già provato. Tutto già capitato. Se dal punto di vista narrativo e della recitazione, Striking Vipers si strappa una sufficienza, la regia non fa nessuna capriola e l’impatto emotivo è talmente tanto basso da essere quasi del tutto inesistente.
Smithereens
Diretta da James Hawes, scritta da Charlie Brooker
In ogni stagione di Black Mirror (dalla terza in poi) ci deve sempre essere l’episodio più tipicamente british. Quello che fin dalla prima inquadratura ci porta nel mondo della serialità inglese. E in effetti Smithereens è proprio quell’episodio. Andrew Scott è protagonista assoluto di questa puntata che affonda le sue radici nel lutto, nel senso di colpa, nell’ossessione e nel cercare disperatamente la redenzione.
Scott è un ex-professore che anni prima ha perso la compagna a causa di un incidente stradale causato da una macchina con un conducente ubriaco. Da quel momento la vita dell’uomo è cambiata a tal punto da rapire una giovane recluta di una grossa compagnia internazionale di un social network di cui l’uomo era molto dipendente, Smithereens.
Inizia quindi una corsa contro il tempo, in quella che sembra essere una situazione di stallo assurda, di trattative e colluttazioni di un uomo disperato disposto a tutto pur di parlare con il CEO dell’azienda. Ma perché?
Ecco, questa sarebbe una buona domanda da porre a Charlie Brooker per quello che sembra essere l’episodio più moralista che possa esserci in tutta, e dico davvero tutta, la carriera di Black Mirror.
Un episodio che poteva anche avere un grosso potenziale per diventare il “nuovo” Shut Up and Dance e regalarci una gioia all’interno di questa quinta stagione davvero povera; e, invece, si infierisce ancora peggio, mostrandoci un episodio che sembra solo voler urlare: non si sta al telefono quando si guida.
Giustissimo e sacrosanto, ma non ci siamo forse persi qualcosa? Può davvero il becero moralismo illuminarci? Renderci meno stupidi? Purtroppo no, ne dubito fortemente. E da parte di Brooker trovo questo episodio una grande caduta di stile, soprattutto quando l’argomento poteva essere assolutamente centrale con tutto il cuore di Black Mirror.
L’ossessione dei social. Non sapersi staccare dai propri device. Vivere con la schiena curva sullo schermo. Camminare, mangiare, lavarsi, forse perfino scopare con il dannato cellulare in mano.
E, invece, il tutto viene sprecato con una scrittura sciatta, approssimativa, che scade nello scontato, nel moralismo. Inoltre ci troviamo di fronte anche allo spreco di un grande attore come Andrew Scott (il fantastico Moriarty della serie tv Sherlock), che da solo ha retto benissimo l’intera esecuzione dell’episodio.
Rachel, Jack and Ashley Too
Diretta da Anne Sewitsky, scritta da Charlie Brooker
Ed eccoci di fronte all’ultimo episodio della serie. Quello più americano. Quello con più potenziale. Quello che più potrebbe turbare.
Solo pochi giorni fa nel guardare le foto della giovane e talentuosa Millie Bobby Brown per le varie premiere di Godzilla mi sono chiesta chi fosse il consulente o manager o tutore di una ragazzina già così strumentalizzata e fatta sembrare a tutti i costi una piccola donna.
Una bambina resa oggetto, vestita succinta e truccata come una trentenne. Ecco, di Millie Bobby Brown ce ne sono state tante e, chi più e chi meno, si sono tutte bruciate.
Un esempio è proprio Miley Cyrus, protagonista dell’ultimo episodio di questa quinta stagione che interpreta un’artista, Ashley, idolo di tante ragazzine, del tutto strumentalizzata dalla zia.
Un personaggio costruito a tavolino che deve vestire con determinati colori, cantare determinati tipi di testi e melodie dai messaggi positivi, inculcare un fittizio modello di perfezione. Vitino da vespa, caschetto pastello rosa, occhi da cerbiatta.
La memoria della stessa giovane artista viene inculcata in una sua bambolina robotica messa sul mercato, Ashley Too, con l’intento di diventare la migliore amica delle fan e parargli come se fosse la vera Ashley. Ma chi è davvero Ashley? E cosa vuole davvero Ashley?
L’episodio è incentrato proprio sull’uso e la strumentalizzazione, da parte di un adulto, dei giovani artisti che vengono plasmati, trasformati in vere e proprie macchine macina soldi.
L’abbiamo visto con tanti fenomeni usciti negli anni da Disney Channel, e non solo. La stessa Cyrus, con il personaggio di Hannah Montana doveva vestirsi, comportarsi, esibirsi in un certo modo, a tal punto che poi non sorprende lo sconcerto di tutti nel ritrovarla mezza nuda a cantare sopra una palla da demolizione leccando un martello (a prescindere dai gusti musicali).
L’episodio mette quindi le mani in pasta su un argomento piuttosto delicato e che ancora oggi meriterebbe l’attenzione che, purtroppo, non ha; indagando maggiormente sui presunti tutori di queste star plasmate a tal punto da diventare dei veri e propri piccoli robot da spremere e nulla di più. Facendogli diventare delle icone, dei modelli da seguire, fino a sfruttarli allo stremo delle loro possibilità.
Nel caso di questo episodio sono un po’ gli escamotage in generale a non funzionare. Gli espedienti narrativi e anche alcune scelte tecnologiche, spacciate per chissà quali incredibili innovazione e poi, senza svelarvi troppo, vi basterebbe guardare un concerto dei Vocaloid di una decina di anni fa per ritrovarvi la stessa identità e “geniale” tecnologia mostrata nell’episodio. Ma, in questo caso, il senso in fondo non è tanto il cosa possa sostituire qualcuno pur sfruttando il suo genio, ma il fatto stesso di poter sostituire qualcuno continuando a sfruttare la sua creatività.
Episodio forse più funzionante negli intenti che nella sua vera e propria esecuzione, che più di una volta perde fin troppo di vista l’obiettivo, a causa anche di diversi punti di vista da seguire e di una regia senza troppe pretese. Interessante, senza ombra di dubbio, ma nulla di eccellente da restare davvero sorpresi o impressionati.
La quinta stagione di Black Mirror è disponibile su Netflix dal 5 giugno.