La recensione di Parasite ci pone di fronte il ritorno alle origini di Bong Joon-Ho con un film che è la prima grande meraviglia del Festival di Cannes. Un thriller intenso, angosciante e quasi disturbante. Una complessa critica alla società coreana (ma non solo), dipinta come veri e propri parassiti, pronti a uscire solo di notte e dagli angoli dei muri.

Quasi a fine Festival, Bonh Jonn-Ho ci regala la prima vera e grande sorpresa di questa 72esima edizione del Festival di Cannes, Parasite. Il regista coreano ritorna a Cannes dopo due anni dalla presentazione di Okja, il primo film originale Netflix ad essere presentato all’interno del concorso della kermesse e che, assieme a The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach, era stata la miccia per la grande esplosione degli esercenti. L’inizio di un litigio che avrebbe portato ad allontanare la grande piattaforma dal Festival (tutto a vantaggio, come abbiamo visto in questi anni) di Venezia.

Viscerale, violento, paradossale ma al tempo stesso così realistico, così rivoltante nella descrizione di un’umanità corrotta nel profondo.

 

Parasite è una pellicola complessa, una pellicola che subito rapisce il cuore dello spettatore.

 

Lo intriga. Lo appassiona. È come un libro giallo, dove vorresti divorare le pagine, andare veloce alla scoperta del serial killer. Impaziente. Affamato. Agitato.

La sensazione che da Parasite è esattamente questa, buttandoti all’interno della vita di due famiglie completamente agli opposti l’una dell’altra che, per un triste scherzo del destino, saranno costrette ad intrecciare il propria fato, cambiando drasticamente il corso della propria esistenza.

 

Parasite

 

Viscerale, violento, paradossale ma al tempo stesso così realistico

Si, perché da una parte abbiamo i Kim: scarti della società che vivono all’interno di un sudicio appartamento, tirando unicamente avanti con il sussidio di disoccupazione e qualche lavoretto sporadico a caso. Dall’altra parte, invece, ci sono i Park: una famiglia borghese, altolocata e anche un po’ ingenua.

Grazie ad un amico, il primo genito dei Kim, Ki-woo, ottiene un lavoro come un supplente di inglese per la figlia adolescente dei Park. L’ingenuità della famiglia e i falsi problemi comportamentali del figlio più piccolo, danno la possibilità a Ki-woo di introdurre anche sua sorella, spacciandola per un’amica specialista del comportamento.

Proprio come dei parassiti, i Kim inizieranno ad infiltrarsi all’interno delle mura della casa dei Park, fingendo tutti di non conoscersi, ottenendo il massimo del vantaggio dall’assurda situazione che, come la ragnatela di un ragno, riescono a tessere momento dopo momento. Dal fratello alla sorella, dal padre alla madre, i Kim diventano parte della famiglia dei Park. E come si può scacciare un parassita dalla propria casa? Difficile, molto difficile.

 

Bong Joon-Ho con Parasite ci mette di fronte alla disperazione umana; a cosa si è disposti ad arrivare per ottenere quello che il posto che pensiamo ci spetti all’interno di questo mondo.

 

L’ambizione di arrivare al successo, di primeggiare. E lo sappiamo bene, nessuna ambizione è innocente. L’ambizione è violenta, perché se vuoi scalare qualcosa devi per forza affossare qualcuno. C’è chi ha tutto e c’è chi ha nulla, questo potrà sembra un’ingiustizia. Ma perché i Park si e i Kim, no? Nessuno è perfetto, ed anche la borghesia viene critica, viene designata in tutte le sue contraddizione, nella sua superficialità e spocchiosaggine; ma la messa in scena dei Kim è ben più sottile, perfida e marcia.

 

Parasite

 

E lo sappiamo bene, nessuna ambizione è innocente.

È la scappatoia. La via più semplice. L’avere tutto e subito con il minimo sforzo, a discapito degli altri. È una vera e propria guerra tra poveri quella messa in scena dal regista coreano che, con questo ritorno alle origine, segna forse il suo più grande capolavoro cinematografico, dopo Memorie di Un’Assassino.

Bong fa tesoro dell’esperienze con le precedenti produzione americane e mette su una pellicola che nella sua ottica di “film da Festival” ha qualcosa di così estremamente accessibile, usando linguaggi all’interno dei quali perfino il medio spettatore, probabilmente, potrebbe trovare del fascino, del carisma e dell’intrigo, a tal punto da andare al di là della barriera linguistica e perdersi all’interno dell’immaginario creato dal regista. Un’immaginario reale, che affonda le sue radici all’interno di una condizione che riguarda la società odierna, in particolare modo quella coreana, ma non solo.

Simmetrico nelle sue inquadrature pulite quasi a contrasto poi con lo scenario che ci si piazza di fronte. L’uso del personaggio come vero e proprio scarafaggio. Si muovono da soli o in fila indiana. Sono veloci. Si muovono al buio. Sanna nascondersi, mescolarsi nell’ambiente, e poi… vivono nello sporco, sanno sopravvivere ed adattarsi allo sporco. E se vengono schiacciati? Si dimenano, hanno degli spasmi, sembrano morti ma riescono perfino a sopravvivere, a volte. Sono della blatte, delle blatte umani che appestano la società. O forse è la società che li ha creati per trovare una buona scusa per il male? Per il marcio? Per giustificare ciò che non funziona, per dare un volto ai problemi?

 

 

 

In fondo, Parasite sembra voler far riflettere anche su questo. Chi sono i veri parasiti? Come si comportano? Perché esistono?

 

Domande che trovano risposta nella mente dello spettatore, ma solo attraverso ad un proprio ragionamento personale, e forse anche esperenziale, che Bong porta a fare attraverso il suo film.

Grottesco senza mai allontanarsi dalla realtà, Parasite è un film che puzza di disperazione. La disperazione di una società abbandonata, una società costretta a diventare parassita. Una puzza che ti porti sui vestiti, sulla pelle, nelle ossa. Una puzza che non vuole andare via, neanche dagli abiti poi dello spettatore, lasciando impresso Parasite nella testa, sul proprio corpo, sulla propria pelle. Si, esattamente come quell’odore. Ed è forse questa, questa la più grande consapevolezza di trovarsi un grande, un maestoso film davanti agli occhi.

La palma d’oro di Cannes? Chissà. Le carte ci sono tutte per essere – sbilanciandomi – il miglior film dell’anno.