Dopo una lunga attesa durata ben 13 anni Kingdom Hearts torna su PlayStation 4 e Xbox One con l’agognato terzo capitolo. Sarà stato in grado di reggere il peso delle titaniche aspettative? Scopritelo con la nostra recensione!
Con oltre un decennio trascorso dal secondo capitolo e con una narrativa frammentata in un numero indefinito di spin-off e piattaforme, l’arrivo di Kingdom Hearts III era tutto meno che scontato. Annunciato per la prima volta all’E3 del 2013, ma già accennato nel finale di Dream Drop Distance, il terzo episodio numerato della saga di Tetsuya Nomura è stato difatti accolto fin dall’inizio con delirante entusiasmo, scaturito dall’immensa passione verso una serie straordinaria, abile nel coniugare linguaggi e culture diverse in unico e maestoso immaginario.
Vuoi l’innegabile fascino dei personaggi e dei mondi Disney, vuoi un gameplay e una sensibilità mutuati in pieno da Final Fantasy, Kingdom Hearts risulta de facto la perfetta congiunzione videoludica tra Oriente ed Occidente e, di conseguenza, una delle produzioni più importanti di sempre all’interno del medium.
La conclusione della saga di Xehanort – ovvero l’arco narrativo avviato con il primissimo episodio del 2002 – si ritrova quindi sulle spalle aspettative sconfinate e un’eredità pesantissima, ma – già vi anticipiamo – riesce con una certa scioltezza nell’impresa di rispettare il passato per stagliare un futuro, seppur con qualche inciampo lungo il percorso.
Le avventure di Sora e compagni insomma (in un certo senso) giungono al degno capolinea, raccogliendo i semi germogliati da un franchise che, dietro a un sottile velo di banale apparenza, riassume in realtà temi filosofici e morali decisamente complessi e sfaccettati.
Prima di proseguire con la nostra approfondita recensione, vi ricordiamo che Kingdom Hearts III è ufficialmente disponibile dal 29 gennaio 2019.
Il viaggio giunge al termine
Come fatto intendere nell’epilogo di A Fragmentary Passage, Kingdom Hearts III inizia la sua epopea con un Sora indebolito a seguito del tentativo di possessione da parte di Xehanort, che l’ha portato a perdere il Potere del Risveglio ottenuto con Riku in precedenza. In vista della battaglia finale contro la nuova Organizzazione XIII e del prossimo raggruppamento dei sette Guardiani della Luce (di cui fanno parte Lea, Kairi, Topolino ed altri), recuperare tale capacità risulta un imperativo, forzando Sora ad intraprendere un nuovo viaggio per chiarire la sua natura ed intraprendere legami con nuovi cuori.
Senza andare da ora troppo nel dettaglio per evitare spoiler, vi basti sapere che l’impostazione dell’intreccio ci è sembrata radicalmente più debole rispetto a quella del secondo capitolo numerato, con artifici creativi fin troppo forzati e mirati a riempire il vuoto delle molte idiosincrasie lasciate nel tempo attraverso la saga.
Persino il percorso – alle volte mal ritmato – attraverso i mondi Disney appare estremamente poco integrato rispetto all’arco narrativo principale, laddove in passato si era almeno provato a fornire una motivazione valida per l’esplorazione degli immaginari della celebre casa americana. Questi ultimi appaiono di contro sorprendentemente mimetici rispetto alle controparti originali, sia sul fronte artistico (di cui parleremo dopo), sia sul fronte della scrittura, proprio a testimoniare quanto sia stato collaborativo in questo caso lo sviluppo, in una completa sinergia tra Square Enix, Pixar e Disney stessa.
Se dunque da una parte le storie dei singoli mondi aggiungono poco o nulla alla formula complessiva, bisogna ammettere l’ottimo lavoro fatto nel ricalcare con estrema fedeltà gli eventi di celebri lungometraggi (come nel caso del Regno di Corona di Rapunzel o di Arandelle di Frozen) o nella stesura di veri e propri racconti inediti (come nel caso di San Fransokyo di Big Hero 6 o della Scatola dei Giocattoli di Toy Story).
In ogni caso, eccetto i succosi intermezzi tra un mondo e l’altro e qualche sparuta comparsa di membri dell’Organizzazione all’interno dei sopraccitati mondi, gran parte del gioco si configura come un gigantesco – ma piacevole – filler del racconto maggiore, ovvero l’imminente Guerra dei Keyblade.
A prova di ciò, le ultime quattro/cinque ore sono un delirio di eventi, personaggi di ogni genere, redenzioni, battaglie senza soluzione di continuità, sviluppi drammatici e – per non farci mancare nulla – colpi di scena sconvolgenti. La ciclicità assume un significato chiave in una prospettiva di ampio respiro, dove il tempo e lo spazio perdono i loro stessi connotati e si fondono in un unico amalgama dal ritmo serratissimo e fortemente evocativo.
Il tema dell’amicizia raggiunge la sublimazione in quello dell’amore, la rabbia e l’odio lasciano spazio alla consapevolezza e la maturità prende il posto dell’infanzia all’interno dello scontro manicheo tra bene e male, tra luce ed oscurità, dove anche la definizione di vittoria tende a sfumare il suo significato.
Inutile dirvi che la summa di ogni avvenimento finora incontrato richiede – per forza di cose – una conoscenza quasi enciclopedica della contraddittoria storyline della serie; vi consigliamo quindi vivamente di non affrontare l’esperienza fino a che non avrete accuratamente compreso la maggioranza dei passaggi logici accumulati negli undici episodi precedenti, senza tralasciare nemmeno il titolo mobile Unchained X.
Il potere del cuore
Pad alla mano, se avete giocato almeno una volta nella vostra vita un episodio di Kingdom Hearts, non potrete fare a meno di sentirvi a casa, visto che le basi rimangono sostanzialmente le stesse già incontrate in passato. Un menù comandi in basso a sinistra permette la selezione di attacco, magia, oggetti e legame (ovvero gli attacchi/evocazioni con i personaggi Disney). Il tasto cerchio (su PS4) permette il salto; triangolo l’attivazione di comandi situazionali; il dorsale sinistro apre il menù delle scorciatoie; il dorsale destro attiva lo shotlock, comando di tiro mutuato da Birth by Sleep.
Da Birth by Sleep non è però ereditato esclusivamente lo shotlock, ma tutto il sistema di combattimento, che acquista, in questo modo, un carattere dinamico inedito e dal feedback estremamente soddisfacente in ogni suo connotato. La prima cosa da far notare risultano senza ombra di dubbio le fusioni, trasformazioni proprie di ciascun Keyblade che portano all’assunzione di stupende animazioni e moveset dedicati, differenti l’uno dall’altro sia a livello estetico, sia a livello di meccaniche.
Il keyblade Stella Azzurra, ad esempio, vi permetterà di mantenere una buona distanza dal nemico, dandovi l’abilità di scatenare una certa potenza di fuoco verso l’avversario. Il keyblade Simbolo dell’Amicizia (da Toy Story), al contrario, sfrutta un approccio totalmente melee, trasformandosi prima in un martello gigante a propulsione, poi in una trivella devastante e veloce. Questi sono solo due esempi di una quantità vastissima di combinazioni, amplificate anche dalla possibilità di alternare fino a tre keyblade diversi attraverso l’utilizzo del D-Pad.
Proseguendo, lo shotlock permette non solo di agganciare i nemici per un attacco specifico rispetto all’arma impugnata, ma abilita anche un attacco in fluimoto verso il bersaglio, sopprimendo i tempi morti. Il fluimoto, per chi non lo conoscesse, è stato introdotto in Dream Drop Distance e consiste in movimenti fluidi e contestualizzati all’ambiente con cui si interagisce. Correlate al fluimoto sono poi i devastanti attacchi ispirati alle attrazioni dei parchi divertimenti, eseguibili come comando situazionale una volta colpiti nemici appositamente evidenziati.
Concludono il pacchetto nuove mosse trio e inedite evocazioni legame, come quella di Ariel da La Sirenetta e Ralph da Ralph Spaccatutto. In definitiva, stiamo parlando di sicuro del miglior combat system della serie, duttile, versatile e capace di dare grandi soddisfazioni, nonostante una telecamera in alcuni casi piuttosto schizofrenica, specie nelle boss fight.
A proposito di boss fight, durante l’avventura – prima del finale, si intende – non ce ne sono di particolarmente memorabili, avvilite come sono da un livello di sfida purtroppo infimo.
La gestione della difficoltà si profila come la maggiore criticità del titolo, regolata eccessivamente verso il basso e gravemente influenzata da una serie di sbilanciamenti.
L’arsenale di Sora rispetto a quello degli avversari è fin troppo potente e, mentre negli episodi precedenti capitava spesso di arrivare al game over, questa volta – durante le circa 30 ore per completare la campagna a difficoltà standard – non siamo mai stati sconfitti, nemmeno durante gli ultimi infernali scontri. Questo enorme difetto crolla a cascata con il suo peso su tutta la rinnovata componente ruolistica del titolo, rendendo inutile il consumo di cibo e avvilendo la personalizzazione di abilità, accessori, armature ed oggetti.
Per smorzare almeno in parte il problema vi consigliamo di scegliere il livello di difficoltà più alto all’avvio della vostra partita (dopo non potrà più essere modificato).
Infine, prima di passare al lato tecnico ed artistico, qualche parola sulle fasi in gummiship. In questo caso il viaggio tra i mondi non si configura come classici livelli bullet hell lineari, ma si trasfigura in quello che a tutti gli effetti appare essere un overworld liberamente esplorabile. Il gameplay shoot ’em up vero e proprio si ritrova invece esclusivamente durante le – molto divertenti – boss fight e durante gli scontri con le diverse ondate di nemici sparse per la mappa. Torna infine l’editor della gummiship, ora semplicissimo da utilizzare e anzi addirittura stimolante.
A spasso tra i mondi
This world is just too small recitava il giovane Xehanort in Birth by Sleep, riferendosi alla necessità insita nel suo cuore di esplorare l’universo e lasciare le Isole del Destino, per poi riuscire nell’impresa ed essere addestrato insieme ad Eraqus. Kingdom Hearts III compie in fin dei conti un processo simile, liberandosi una volta per tutte dei limiti tecnologici imposti da una tecnologia datata prima, dalle console portatili poi, mostrando tutto il potenziale artistico di un concept eclettico e stravagante.
Il level design va infatti in questo terzo capitolo arricchendosi notevolmente, garantendo sezioni ampie e continue e abbandonando – per fortuna – le continue schermate di caricamento delle iterazioni passate. La progressione nei livelli appare inoltre più tridimensionale, sviluppandosi non solo su un piano orizzontale, ma anche e sopratutto su quello verticale, specie grazie alla nuova capacità di Sora di sfidare la gravità e muoversi su pareti ben evidenziate.
Certo, la maggior parte delle aree non sono proprio straripanti di oggetti e appaiono per la maggior parte vuote, ma bisogna sempre ricordare che si sta parlando di un titolo hack ‘n slash dove gli ambienti sono da considerarsi solo delle semplicissime arene.
Passando invece a considerazioni di carattere prettamente tecnico ed artistico, il lavoro fatto ha dell’incredibile, sebbene non manchi di mostrare il fianco ad alcuni annosi problemi. L’Unreal Engine 4 del gioco vanta un sistema di illuminazione sorprendente, supportato da ottimi shader e particellari, in grado di svettare in primis con le attrazioni, in secondo luogo con i liquidi (ad esempio con l’incantesimo idro).
Una palette cromatica vivace e flessibile si adatta quindi allo stile di ogni singolo mondo, muovendosi dai colori caldi dell’Olimpo alle tonalità fredde di Arandelle, dal brillante regno di Corona all’asettica Monstropoli (forse la meno riuscita), arrivando infine all’iconica San Fransokyo e allo straordinario realismo dei Caraibi.
A fronte di quanto detto sopra, la riproduzione grafica delle proprietà intellettuali Disney rasenta in alcuni punti la perfezione, rispettando sempre lo stile artistico iniziale e riproponendolo con cura all’interno del mondo di gioco. Le scene di intermezzo (renderizzate con il motore) vantano in particolare momenti quasi da CGI, attenti al dettaglio dei modelli e praticamente privi di ogni qualsivoglia artefatto grafico.
Le fasi di gioco non sono purtroppo altrettanto perfette, viziate da un aliasing abbastanza vistoso e da un filtro anisotropico non sempre performante, ma di contro ravvivate da un campo visivo ampio e profondo. Su PlayStation 4 Pro, la piattaforma che abbiamo usato per la prova, la definizione si attesta al di sotto dei 1440p, con una fluidità fluttuante intorno ai 50 FPS (con diversi cali) scegliendo la modalità grafica standard del gioco.
Le meraviglie a schermo vengono inoltre accompagnate da un sonoro come al solito d’eccellenza, con un ottimo doppiaggio inglese degno di annoverare, oltre alle voci storiche della saga, persino alcune delle voci originali delle pellicole trasposte. Peccato invece per la colonna sonora, caratterizzata quasi unicamente da – stupendi – remix e riarrangiamenti delle celebri tracce dei capitoli precedenti, lasciando dunque spazio ad un numero minimo di inediti, tali da poter essere contati sulle dita di una singola mano.
Stona infine una certa incostanza nella riproposizione dei brani all’interno dei mondi Disney, i quali in alcuni casi vantano molto del materiale originale (è il caso di Frozen), mentre in altri mancano quasi totalmente degli accompagnamenti più iconici, ricorrendo a surrogati mediocri (è il caso dell’assenza delle musiche di Zimmer per Pirati dei Caraibi).
In definitiva, Kingdom Hearts III è esattamente il gioco che i fan aspettavano da tempo, nonostante finisca per perdersi in molte criticità che da sempre hanno caratterizzato la saga. Potevamo sperare in un titolo migliore, ma quel che conta è che il cerchio si sia chiuso, seppur con uno sguardo al futuro.
- Rimane l'innegabile fascino della serie
- Grandissimo lavoro nella riproduzione dei mondi Disney
- La battaglia finale è una lunga sequenza mozzafiato
- Il fluidissimo sistema di combattimento è il migliore della saga
- Livello di sfida veramente troppo basso
- I mondi Disney sono inseriti forzatamente e sono spesso mal ritmati
- La narrativa principale risulta eccessivamente diluita
- Aliasing vistoso e frame rate non costante