Red Dead Redemption 2 ridisegna il concetto di videogioco open world. Scoprite in che modo con la nostra recensione dell’attesissimo titolo firmato Rockstar Games.
Dopo aver realizzato l’opera di intrattenimento più redditizia di tutti i tempi, Grand Theft Auto V, un colosso in grado di schiacciare robetta come Harry Potter o Avatar, potevano tagliare la testa al toro e concentrare tutte le risorse aziendali esclusivamente sullo sviluppo di un sesto capitolo della serie. Oppure, potevano produrre un nuovo Red Dead Redemption che fosse semplicemente la versione più estesa del precedente episodio.
In alternativa, forti dello sconcertante successo di Grand Theft Auto Online, potevano comodamente rinunciare alla componente single player e limitarsi al solo Red Dead Online, magari inserendovi una modaiolissima modalità battle royale.
E invece no: dalle parti di Rockstar Games l’ambizione è seconda solo al talento e con Red Dead Redemption 2 gli sviluppatori puntano, ancora una volta, a mandare in fibrillazione l’intera industria dell’intrattenimento, sbattendo sul tavolo qualcosa come 1000 attori coinvolti per 2.200 giorni nelle sessioni di registrazione delle oltre 300.000 animazioni disponibili, 200 razze animali riprodotte, mezzo milione di linee di dialogo, 80 pagine di copione per ognuno dei personaggi non giocabili e 60 ore di campagna principale la cui sceneggiatura, lunga 2000 pagine, se stampata formerebbe una pila di due metri e mezzo.
Come se non bastasse, nelle settimane precedenti al lancio, una raffica di calcolatissimi annunci ha montato la panna a meraviglia: hanno detto che avrebbero messo in scena un romanzo virtuale così all’avanguardia da adattarsi in modo naturale alle azioni compiute dal giocatore, un’esperienza western a quattro dimensioni dove la quarta è il tempo.
Hanno promesso praterie, montagne, boschi, laghi e deserti a perdita d’occhio, un mondo talmente interattivo e credibile da rendere definitivamente giustizia all’immaginario dell’America rurale a cavallo tra Otto e Novecento. Hanno dichiarato alla stampa che avrebbe perso di significato la distinzione tra missioni principali e secondarie, perché ogni attività svolta, ogni decisione presa, si sarebbe amalgamata con la narrazione.
E a chi chiedeva lumi sulla sceneggiatura hanno replicato di aver scomodato mostri sacri come Dickens, Zola, Keats e Conan Doyle. Ma, soprattutto, hanno lasciato intendere che dopo questo sfibrante sforzo produttivo gli open world così come oggi li conosciamo – genere intasato da titoli fotocopia – non sarebbero più stati gli stessi.
Scoprite come ci è sembrato Red Dead Redemption 2, il nuovo lavoro di Rockstar Games in uscita il 26 ottobre su PlayStation 4 e Xbox One.
La verità è che la portata di un progetto del genere non può essere compresa né leggendo roboanti comunicati stampa né attenendosi a fluviali elenchi di dati e statistiche che tanto clamore generano sul web. Per avere un’idea di cosa sia Read Dead Redemption 2 bisogna perdersi nel suo mondo e lasciarsi sopraffare dallo straniante senso di libertà che monta non appena si galoppa a briglie sciolte tra queste lande digitali, tanto piene di vita quanto imprevedibili.
Siamo al cospetto di un prodotto che colpisce dritto al cuore perché, a differenza di tanti open world presenti sul mercato, non costringe a vagare dal punto A al punto B seguendo una storiellina senza capo né coda, che serve a giustificare una sconfortante lista di cose – spesso poco interessanti – da fare, ma ha un’anima, una personalità, una scrittura asciutta di una forza da spostare i massi, che nei passaggi più riusciti e persino durante le missioni collaterali ricorda, per potenza e incisività, i romanzi di un certo Cormac McCarthy.
Nel 1899 Arthur Morgan, il protagonista, si trova a un punto di svolta della propria esistenza. Figlio di contadini, gli manca la cultura ma ha gran senso pratico. Non è uno sprovveduto e quello che promette, lo mantiene: è un ottimo esecutore e capisce subito quando è arrivato il momento di far cantare le armi. Da qualche tempo si lascia spesso andare alla malinconia, le certezze della giovinezza sembrano averlo abbandonato.
Fatica sempre più a sentirsi parte di una modernità i cui schemi paiono lontanissimi dal mondo in cui è nato e cresciuto, il selvaggio west delle bande di fuorilegge, che sta per cedere il passo alla tecnologia e all’industria pesante (la Ford T avrebbe debuttato di lì a breve). Per Arthur la gang criminale di cui è parte è come una famiglia: tutto quello che sa sulla vita e sulle persone, lo deve all’uomo che lo ha adottato da bambino, Dutch Van Der Linde, leader tanto carismatico quanto verboso, che per riconoscenza seguirebbe fino all’inferno.
Dopo una rapina finita in tragedia a Blackwater, Dutch e i suoi, braccati dagli sceriffi e dai cacciatori di taglie, stremati dal gelo e dalla fame, fuggono sulle colline e trovano riparo in un villaggio abbandonato sepolto di neve. Celebrata l’estrema unzione per i caduti, rifocillati i superstiti e, soprattutto, recuperato il disperso John Marston (l’eroe del precedente capitolo) il gruppo, ormai di fatto nomade, dovrà cambiare pelle per sopravvivere alla fine di un’epoca irripetibile.
Sono ladri in un mondo che non li vuole più, come la vede Arthur, oppure sognatori che lottano in un presente infestato dal materialismo, come sostiene Dutch?
Questione di prospettive. Senza spoilerare nulla, vi anticipiamo che la trama è tutto fuorché telefonata e prende direzioni che non ci saremmo aspettati. L’incipit dell’avventura è un appassionante tutorial di un paio d’ore, che si svolge in un ambiente inospitale, cupo, dove la tormenta di neve e le temperature polari non consentono l’esplorazione libera.
L’intelligenza della regia è evidente, perché permette al giocatore di prendere dimestichezza con la complessità del sistema di controllo e, nel frattempo, ingrandisce il senso di attesa, di mistero. Solo quando la carovana scende dai monti, la luce filtra dal piombo delle nubi e le chiazze di neve si fanno più rade, comincia il vero Red Dead Redemption 2.
A lungo ricorderemo il momento in cui l’inquadratura apre lo sterminato orizzonte delle radure spazzate dal vento: di fronte al carico di suggestione del panorama da cartolina, della grafica fuori parametro, dell’efficacia del sistema di illuminazione, e, soprattutto, del livello di dettaglio raggiunto dagli sviluppatori, il cervello pare fondersi.
Per avere un metro di paragone, immaginate una pulizia d’immagine, una ricchezza visiva alla Uncharted 4, ma trasposte su scala infinitamente superiore, data la vastità degli spazi e delle infinite possibilità a livello di gameplay.
Qualche lieve sbavatura, buona per dare un senso alle giornate dei pignoli da tastiera, non compromette di certo il giudizio: dal punto di vista tecnico siamo pronti a scommettere che l’attuale generazione di console – e forse, almeno per qualche tempo, anche la successiva – non vedrà altri titoli di queste dimensioni in grado di reggere il confronto.
È come se ogni pioppo, ogni edificio in rovina, ogni catapecchia sperduta nelle paludi, ogni saloon, ogni bivacco fossero stati realizzati a mano, con perizia da artigiano.
La medesima cura certosina è stata riposta nella resa di ogni bestia del Creato, dei personaggi non giocabili che popolano l’accampamento di Van Der Linde, dello smisurato numero di comparse – come puttane, osti, strilloni, schiavi afroamericani, imbonitori, reverendi dalla discutibile fede, cacciatori di taglie, mendicanti ecc. – e nella ricostruzione della sconvolgente quantità di interni esplorabili, traboccanti di complementi d’arredo, abiti sparpagliati sui letti ancora disfatti, fotografie, argenteria, bottiglie di rum, monili custoditi in bauli o in cassetti dove frugare.
Insomma, lo sforzo produttivo in Red Dead Redemption 2 è talmente immane che nelle sessioni di gioco non abbiamo mai percepito la fastidiosa sensazione – tipica di tante opere contemporanee – di riciclo di asset e situazioni già viste altrove.
Ma l’aspetto che più impressiona è l’implacabile coerenza delle meccaniche di gioco con la narrazione, stratificata come raramente abbiamo visto in un titolo di questo respiro, sia a livello di campagna principale che di attività collaterali. La sceneggiatura collega, come una mano invisibile, i punti di qualsiasi interazione, a cominciare dal rapporto del protagonista con il resto della banda.
La vita in comunità è uno dei pilastri chiave dell’esperienza e, nonostante le cavalcate solitarie siano onnipresenti, la vicenda di Arthur è legata a doppio filo alla gang Van Der Linde. I cui membri – a differenza degli altri personaggi non giocabili, la buona parte dei quali spesso si limita a scambiare qualche battuta – pare abbiano sempre una gran voglia di raccontare aneddoti e sono costantemente aggiornati sull’esito delle nostre scoperte.
E il bello sta proprio qui: si tratta di figure volutamente caricaturali eppure, in relazione al contesto, credibili, che impareremo a conoscere e a cui ci affezioneremo. Potremo rivolgerci a loro – ma il discorso vale per qualsiasi persona che incontreremo – in tono conciliante o sprezzante e, a seconda del momento, dal nostro atteggiamento deriveranno conseguenze più o meno rilevanti. Il feeling raggiunto con la comunità provoca interessanti sviluppi: se ci limiteremo a farci i fatti nostri, senza lavorare per il bene comune, le casse dell’accampamento languiranno e il morale della banda crollerà, col risultato che non potremo apportare modifiche strutturali al campo base e non avremo accesso a preziose scorte, dialoghi o incarichi.
Raccomandiamo insomma di dedicare un po’ di tempo all’integrazione del protagonista con i compagni di sventura, anche solo per scoprire qualche dettaglio in più sulla trama, che arriva a toccare persino i momenti di relax: una notte abbiamo conversato su quante difficoltà abbia dovuto affrontare un immigrato messicano per integrarsi nella società degli Stati Uniti di fine ‘800. Davanti al fuoco, sotto al cielo stellato. Da brividi.
Più in generale, è l’intero impianto di gioco a reggersi su un complesso di dinamiche ispirate da una logica ferrea, che finisce per segnare l’incredibile mole di diverse situazioni e attività offerte dal titolo. Alcuni esempi valgono più di mille descrizioni: dopo una feroce scazzottata fuori dal saloon – una delle scene più divertenti che ci siano capitate – saremo ridotti da far schifo e sudici di fango; serve una bella dormita per recuperare le forze, ma il locandiere si guarderà dal consegnare le chiavi della stanza se prima non ci faremo un bagno.
Avere amor proprio ha il suo peso: ci si può radere la barba e impomatare i capelli per fare bella figura in società.
Allo stesso modo, se indossiamo una giacca imbottita quando fuori si crepa di caldo oppure se mangiamo troppo o troppo poco, il livello di salute e di resistenza ne risentirà.
Persino il legame col cavallo può incidere sull’andamento di una missione: il quadrupede alla lunga migliora in resistenza e salute e va curato come un figlio, strigliandolo e dandogli qualche carota ogni tanto, sennò andrà lento come una tartaruga.
Ancora: al di fuori delle attività criminali, sarà meglio ricordarsi di togliere il bavaglio, altrimenti genereremo sospetti nella gente, col risultato che potrebbero essere preclusi incarichi o conversazioni utili. Nell’abigeato è possibile direzionare il gregge sparando colpi in aria, oppure urlando contro al bestiame come bovari.
Commettere un crimine alla luce del sole espone al rischio di trovarsi un esercito di federali alle calcagna: prima che scatti l’allarme generale, conviene inseguire eventuali testimoni oculari, per zittirli con solide argomentazioni o, alla peggio, assestandogli qualche pugno in bocca.
Non è tutto: nelle battute di caccia orme ed escrementi rivelano la posizione della preda e torna utile capire dove tira il vento per evitare che l’animale senta l’odore umano. Il cervo trafitto alla zampa da una freccia andrà a morire lontano: per ritrovare la bestia si può ascoltare il bramito o seguire le tracce di sangue, per poi finirla affondando il coltello nel torace.
Vendere la pelle è un affare, peccato che se l’animale è stato imbottito di piombo o di frecce, non varrà più una lira. La cacciagione va consumata rigorosamente previa cottura, magari accompagnandola a erbe aromatiche raccolte qua e là, sperimentando così elaborate ricette stile The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Per cucinare fuori dai centri abitati è possibile accendere un fuoco da campo e poi, una volta satolli, vorrete mica rinunciare a un caffè, da preparare dopo aver acquistato la caffettiera, si intende.
Per vendere, invece, le carcasse animali, occorre prima caricarle sul cavallo e poi galoppare per consegnarle al più vicino macellaio ed evitarne la decomposizione. Negli empori la merce può essere acquistata prendendola direttamente dagli scaffali dove viene ordinatamente esposta, oppure sfogliando curatissimi cataloghi, ricchi di illustrazioni e rilegati come libri antichi, che di fatto sostituiscono i ben più banali menu a elenco.
Dagli armaioli, infine, è possibile potenziare e personalizzare pistole e fucili; prima di passare alla cassa può essere un’idea acquistare l’olio per pulire le canne, altrimenti ci si ritrova a sparare a salve.
Gli scontri a fuoco ricordano il precedente Red Dead Redemption, ma solo fino a un certo punto: torna, ad esempio, il sistema di coperture e la possibilità di rallentare il tempo per pochi istanti, altrimenti noto come dead eye.
Per questo episodio gli sviluppatori hanno lavorato sodo sulla pesantezza dei modelli poligonali, che finisce per condizionare l’esito di ogni sparatoria: tutto è estremamente brutale, cruento, e la raffinatezza dell’intelligenza artificiale farà sì che difficilmente il nemico stia fermo a farsi impallinare e cerchi, anzi, di circondarci con ogni mezzo.
Impossibile fare gli eroi, conviene giocare d’astuzia, magari ordinando a un John Marston di prendere alle spalle quella sentinella che sta pisciando contro l’albero e reciderne la carotide.
Qualcuno potrebbe trovare più immersivo sparare con la visuale in soggettiva, ma noi abbiamo preferito, e di gran lunga, la classica terza persona. In ogni caso le risse restano la parte più riuscita degli scontri: i pestaggi restituiscono una sensazione di primordiale violenza, di fisicità davvero stupefacente.
Va peraltro detto che l’estremo realismo di Red Dead Redemption 2 – dead eye a parte – potrebbe creare qualche difficoltà a chi preferisce prodotti più immediati da giocare: i controlli qui richiedono impegno e dedizione prima di essere addomesticati.
All’inizio i comandi impartiti al protagonista si tradurranno in movimenti un po’ macchinosi e impacciati, da palombari. Dopo un po’ ci si fa il callo e si finisce per apprezzare il sistema di controllo congegnato da Rockstar, perfettamente funzionale all’incedere ragionato dell’opera e, soprattutto, alla smisurata quantità di interazioni ambientali possibili.
Scordatevi, in ogni caso, di andare in giro spegnendo il cervello e sparando a qualsiasi cosa si muova: questo gioco vi chiede costantemente di assumervi le vostre responsabilità e di stabilire che tipo di fuorilegge essere.
Per intenderci, riportando il cavallo fuggito via al proprietario il livello di onore salirà e cambieranno i dialoghi con i passanti, che tenderanno a fidarsi e forse vi riveleranno informazioni utili o vi assegneranno un incarico da portare a termine.
Al contrario, rapinate chiunque vi capiti a tiro e progressivamente le ruberie frutteranno più quattrini, ma in un amen vi ritroverete un esercito di agenti alle calcagna e una taglia appesa al collo.
La colonna sonora, infine, riflette perfettamente la potenza evocativa dell’ambientazione western. La musica, di gran classe, non è mai invadente ed accompagna sempre a tono la regia, alternando percussioni, nei momenti più concitati, ad arpeggi di chitarra e, soprattutto, a silenzi di tomba nelle fasi di introspezione.
In conclusione riteniamo che Red Dead Redemption 2 possa lasciare indifferente solo una categoria di giocatori: chi non ama le avventure e ha acquistato la console, ad esempio, solo per divertirsi a FIFA o a Forza Motorsport. Quella di Rockstar è una produzione immane, curata in modo maniacale nei minimi particolari, sorretta da una sceneggiatura di rara profondità ed eleganza, che merita ogni minuto del vostro tempo ed entra, a ragione, nella storia dei videogiochi.
Qualità e quantità non sempre vanno a braccetto: qui sono presenti entrambi, e in dosi da capogiro.
Inutile girarci intorno: dopo aver vissuto un’esperienza del genere, sarà dura guardare con gli stessi occhi qualsiasi altro open world e, più in generale, qualsiasi avventura fondata su una trama.
- Un mondo sterminato ed evocativo, con infinite possibilità di interazione
- Sceneggiatura d'autore di prim'ordine
- Graficamente è una bomba
- Non annoia mai
- Una quantità spropositata di cose (interessanti) da fare
- Qualche lieve sbavatura tecnica. Ma niente che non si risolva con una patch