Dopo il pittoresco Racconto dei Racconti, Matteo Garrone torna a parlare del reale, affondando le mani in un evento di cronaca che sconvolse la Roma di fine anni ’80, ovvero quello del “canaro” della Magliana. In occasione della presentazione di Dogman a Cannes, abbiamo incontrato Matteo Garrone per comprendere qualcosa di più sul suo film.
Presentato in Concorso al 71° Festival del Cinema di Cannes, Dogman è il racconto, secondo Matteo Garrone, della figura di Pietro de Negri, conosciuto come “il canaro”, che nel 1988 massacrò l’ex-pugile Giancarlo Ricci.
Un evento di cronaca nera che sconvolse la Roma degli anni ’80 per la crudeltà e la violenza del delitto. Ma Matteo Garrone porta sul grande schermo un elemento diverso della storia, tralasciando l’aspetto morboso e macabro dell’avvenimento, ma concentrandosi sulla mente, l’umanità del suo piccolo protagonista, portato oltre il limite della sanità mentale.
Un racconto di vendetta, rivincita e violenza, ma che Matteo Garrone approccia con una sensibilità differente, coltivando questo racconto nella sua testa per oltre dodici anni, ovvero dal primo “incontro” con la storia di Negri e il vero incontro con il suo futuro interprete, Marcello Fonte.
Ho scritto la prima stesura di Dogman, che inizialmente doveva chiamarsi L’amico dell’uomo, quasi tredici anni fa. Era molto diversa da quello che è il risultato di adesso, sicuramente più fedele all’evento di cronaca.
La proposi inizialmente a Roberto Benigni, perché fin dal principio avevo immaginato questo protagonista con degli elementi comici che richiamassero il cinema di Buster Keaton. Benigni però rifiuto e capisco anche il perché. Negli anni la sceneggiatura è cambiata tanto.
Cambiavo io e, quindi, cambiava anche lei. L’incontro con Marcello è stato fondamentale per la storia che abbiamo realizzato oggi. Sono contento di averlo fatto adesso, soprattutto perché mi ha dato la possibilità di approcciarmi in maniera diversa anche al rapporto tra il protagonista e sua figlia, visto che adesso sono anch’io padre.
Pietro Negri, conosciuto come “er canaro della Magliana”, era un toelettatore di cani cocainomane. Un uomo molto piccolo, di indole buona, spesso preso di mira dall’ex-pugile Giancarlo Ricci. Con l’inganno, nel 1988, Negri convinse Ricci a nascondersi in una gabbia per animali del suo esercizio, per poi assassinarlo brutalmente.
Il fatto colpì subito proprio per l’efferatezza con cui Negri massacrò Ricci, torturandolo ripetutamente. Negri, dopo essersi sbarazzato del cadavere dopo un’intera notte di torture, venne comunque arrestato. Tutt’oggi non poche sono le incertezze riguardanti la versione di Negri riguardanti il delitto, a tal punto da dubitare che sia stato effettivamente lui a compierle.
Ma a differenza della realtà, Garrone concentra un film sulla figura di Negri, le sue fragilità, l’amore per la figlia e il rapporto paradossale con il pugile, piuttosto che sul vero e proprio omicidio.
Il film va in una direzione del tutto autonoma rispetto al fatto di cronaca. Non volevo fare un film di tortura o di violenza. Si, sicuramente della violenza c’è ma p psicologica. Ci tengo moltissimo a precisare che chi si aspetta dei dettagli più splatter e sanguinolenti all’interno del film, resterà fortemente deluso. Non è la mia storia, io ne ho raccontata un’altra.
Nella sceneggiatura iniziale c’erano sicuramente dei residui più evidenti della cronaca, ma poi sono spariti man mano. Devo dire grazie soprattutto a Marcello (Fonte) ed a Edoardo (Pesce), perché sono riusciti a ricreare alcune dinamiche, a volte anche comiche. Questo aspetto è stato fondamentale perché ha dato alla prima parte del film una certa leggerezza, una luce in totale contrasto con la seconda parte.
Dogman, in uscita il 17 Maggio nelle sale italiane grazie a 01 Distribution, dopo Lazzaro Felice è l’unico italiano presente nel Concorso del 71° Festival di Cannes. Un anno dalle pellicole molto differenti tra loro, ma che sembrano accomunate dal comune denominatore della scelta di raccontare la natura, la psicologia, dei proprio protagonisti.
Sinceramente non so che idea Cannes si sia fatta del mio film, anche perché Cannes è formata da tante teste ognuna con la propria idea.
Sinceramente io sono felice di come siamo riusciti, alla fine, a sviluppare il film. In particolar modo è il finale a darmi la soddisfazione più grande, perché va in una direzione del tutto inaspettata ma assolutamente coerente con il personaggio che ho deciso di raccontare. Un personaggio che rimane se stesso fino alla fine.
E c’è un motivo se mi sono “concesso” tutto questo tempo per Dogman. Non volevo un film che somigliasse ad altri, che percorresse una strada già battuta, già vista. Ho aspettato il momento giusto, e credo che alla fine siamo riusciti a creare qualcosa di poco esplorato. Credo che questo sia stato possibile anche grazie al fatto che abbia iniziato a sentire il personaggio vicino a me.
Marcello Fonte riesce a dare un’umanità tutta sua al personaggio di Pietro/Marcello, portando lo spettatore ad empatizzare immediatamente con lui, a prescindere da quelle che sono poi le sue azioni sul finale. Un personaggio di una certa complessità, analizzabile grazie anche al contesto sociale, l’ambiente entro il quale Matteo Garrone lo fa muovere. Anche in questo caso, distaccandosi dalla realtà dei fatti, quindi dalla Magliana, e quindi optando per un luogo più in sospensione.
Sono partito con l’idea di trovare un luogo che fosse una sorta di villaggio, un luogo di frontiera con un richiamo anche al western, ma dove la comunità fosse comunque presente perché fondamentale per il film. Doveva emergere il giudizio di quella comunità, perché è proprio da quello che poi si muovono i personaggi.
Non ho mai avuto intenzione di girare alla Magliana, perché non volevo essere didascalico. Doveva essere un luogo dove la comunità fosse presente. Un luogo si di periferia, ma che non avesse un rimando visivo a un altro film, un’altra storia da cinema di impegno sociale. Volevo qualcosa che potesse dare più la sensazione della sospensione; un luogo metafisico.
E nei luoghi di Dogman non si ritrovano solo i le location dei precedenti film di Garrone, ma anche i colori, lo stile, quasi come se ci si trovasse di fronte a un quadro, dove la struttura dell’immagine ha uno studio ben preciso alle spalle.
Cercavamo un approccio che, fotograficamente parlando, fosse realistico ma anche un po’ illustrato. Abbiamo mostrato un’attenzione particolare nell’uso dei colori, dell’atmosfere, ma senza mai cadere nell’autocompiacimento stilistico.
Nei miei film non si deve sentire mai la bellezza dell’inquadratura o del movimento di macchina. Tutto deve restare sempre al servizio del film; quindi, anche il lavoro sulle scenografie, ricostruzione dei luoghi, si è mosso in questa direzione. Abbiamo preso questo spazio meraviglioso e reinterpretato, dandogli un ruolo centrale.
In effetti le terre di Garrone riescono sempre a restare sconosciute e conosciute, rappresentando perfettamente le atmosfere, i personaggi e i loro sentimenti. A sua volta i protagonisti riescono a far immergere lo spettatore nel loro mondo, nel loro quotidiano, rendendolo parte della storia. Matteo Garrone, con una storia nella quale sarebbe quasi impossibile ritrovarsi, riesce comunque a parlare dell’universale, dell’umanità, dei suoi pregi e difetti, portando lo spettatore ad essere un tutt’uno con quel racconto.
Quando mi avvicino a una storia, mi avvicino prima di tutto al personaggio, cercando di vivere con lui e con le sue sfumature psicologiche, con i suoi conflitti.
Marcello è un personaggio molto ricco, le sue azioni non sono mai lineari, spesso contraddittorie. È una personalità scissa. Ha un rapporto con Simoncino complesso e per me, in un certo senso, anche moderno.
Marcello ha una sua complessità psicologica che è molto legata ai nostri tempi, ai nostri giorni. Vorrebbe in qualche modo riuscire ad avere un rapporto pacifico con tutti perché, in fondo, è un personaggio dall’indole buona.