Vi ricordate Tafazzi, il personaggio interpretato da Giacomo Poretti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo all’epoca di Mai Dire Gol? Vi aiuto: era un buffo omino in calzamaglia nera che andava in giro tirandosi solenni colpi all’inguine con una bottiglia di plastica, diventato in seguito sinonimo di masochismo puro.

Beh, è probabile che Hannah, il film di Andrea Pallaoro uscito il 15 febbraio nelle sale italiane, gli sarebbe piaciuto molto.

Come afferma la critica di Le monde, Isabelle Regnier, infatti, “spettatore masochista, questo film è per te”.

Un’ora e trentacinque minuti di interminabili sequenze dove non succede praticamente nulla (la protagonista lava il suo cane, la protagonista cucina delle uova, la protagonista compra dei fiori, li mette in un vaso, li butta nella spazzatura, la protagonista prende la metro, la protagonista prepara una torta).

 

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Hannah – Charlotte Rampling mette a posto i fiori

 

Dialoghi quasi inesistenti, rumori di sottofondo particolarmente intensi, inquadrature ravvicinate dove a volte è tagliata fuori la testa, a volte altre parti del corpo, insomma l’ABC del “film d’autore” classico da cineforum, dove meno capisci la pellicola più alto devi dedurre sia il valore.

Anche in questo caso, manco a dirlo, la trama, oltre che minima, è tutt’altro che chiara.

 

 

La trama

Il film si apre con degli stridenti suoni gutturali che si rivelano essere i gorgheggi di riscaldamento di un apparente gruppo di teatro amatoriale di cui Hannah (Charlotte Rampling) fa parte.

Nella lentezza e pressoché assenza di parole e di azioni che seguono, incontriamo il marito di lei, quando Hannah ritorna a casa; li seguiamo nella loro cena silenziosa, nel loro svestirsi, nel loro andare a letto. Senza che ne sia mai chiaro il motivo, il giorno dopo l’anziana coppia si reca in prigione, dove il marito resterà, accusato di un crimine mai esplicitato, ma che alcuni indizi portano a sospettare possa essere pedofilia.

Pallaoro volutamente resta nel vago, fa giusto capire che il figlio della coppia potrebbe aver denunciato il padre, ed è comunque arrabbiato con entrambi i suoi genitori, al punto da impedire alla madre di partecipare al compleanno del nipotino. Ad un certo punto spuntano anche delle fotografie che Hannah/Charlotte Rampling trova e decide di gettare, pur informando il marito che ora anche lei “sa”.

L’impressione è che al regista, che è anche co-sceneggiatore insieme a Orlando Tirado, non interessi particolarmente l’intreccio, quanto crearsi un pretesto per giustificare la disperazione della donna.
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Hannah – Charlotte Rampling

In questo modo può abbandonarsi ad un gusto quasi voyeuristico nel filmarla con riprese insistenti ed implacabili primi piani, cui la Rampling si presta senza riserve, offrendo viso e corpo all’esame scrupoloso e senza pietà della telecamera.

Sembra quasi esserci un certo compiacimento nel sottolineare la sua nudità non priva dei segni inesorabili del trascorrere del tempo, così come il suo volto trasformato in maschera tragica dall’espressione di dolore costante ed uniforme per tutta la durata del film.

 

 

I lati positivi del film

Coppa Volpi al Festival di Venezia 2017 come miglior attrice, Charlotte Rampling è sicuramente il punto di forza del film. Reggere un’ora e trentacinque senza quasi un dialogo, senza che ci sia particolarmente una trama, compiendo azioni tipo friggere delle uova al tegamino o svestirsi per andare a dormire e rivestirsi per uscire è una prova di bravura estrema che sfiora il martirio.

La Rampling ne esce alla grande e riesce a rendere perfettamente quello stato di alienazione che a volte un estremo dolore crea nelle persone. Per buona parte del film si aggira come in trance, con sul viso un’espressione di sofferenza intensa ma statica, che non cambia, come le fosse passato addosso un treno e lei, ancora sotto shock, non se ne fosse del tutto resa conto.

Ma questa stessa fissità rende ancora più clamoroso il momento maggiormente drammatico del film, in cui Hannah urla il suo indicibile dolore chiusa dentro un bagno pubblico, dopo essere stata malamente scacciata da suo figlio dalla festa di compleanno del nipote. E la potenza del suo grido è che viene fatto in silenzio e reso magistralmente dalla Rampling, il cui volto diventa una smorfia di disperazione da tragedia greca.

Va riconosciuto, inoltre, che il senso di pesantezza e la sensazione di non poter scappare al baratro in cui ci si è ritrovati vengono trasmessi al punto da far sentire anche allo spettatore la mancanza d’aria e il senso d’oppressione della protagonista.

 

 

I lati negativi

Oltre ad un già ricordato eccesso nell’utilizzare modalità tipiche, e quindi un po’ scontate, di un certo cosiddetto “cinema d’autore”, decisamente poco riuscito perché troppo banale il parallelismo tra la protagonista e la balena morente arenata sulla spiaggia, didascalico quasi alla lettera.

Altrettanto fuori luogo il momento in cui pure il cane l’abbandona, non mangia più e lei è costretta a darlo via: pare davvero un accanimento esagerato contro questa povera donna, già ampiamente martoriata dall’insistenza quasi sadica delle riprese di Pallaoro durante tutto il film.

In questo frangente, in modo alquanto inspiegabile, come, d’altronde, la maggior parte dell’intreccio, compare un personaggio per prendere e portarsi via il cane che pronuncia due parole in italiano: forse omaggio al paese natale del regista? Chi può dirlo.

Comunque vien da chiedersi perché lo faccia, quando il resto della pellicola è girato in francese e non aveva nessun tipo di attinenza, neanche minima, con la storia il fatto che lui chiedesse “Ti piace?” in un’altra lingua a sua figlia.

 

 

Bilancio finale

Ottimo film per chi ama andare – tipicamente – al cineforum, soffrire in silenzio per tutta la durata della proiezione, sfiorare a stento lo sbadiglio, chiedersi di nascosto una serie di volte “perché??” e convincersi, a film finito, che in ogni caso ne sia valsa la pena, annuendo da intenditore agli altri superstiti fiero di far parte della nicchia di chi apprezza il cinema d’essai.

Oppure, come si diceva ad inizio articolo, per sadomasochisti alla Tafazzi. Altro che 50 Sfumature, qui è possibile provare sofferenza pura, dentro e fuori lo schermo!