Napoli Velata, il nuovo thriller di Ferzan Ozpetek, è una pellicola che cattura in un vortice di segreti e allusioni lo spettatore, per sciogliere solo con la fine il gomitolo di suspense che lo avvolge. Denso di richiami e simbologia, apre le porte a spunti interpretativi inediti.
Il lungometraggio narra le vicende di Adriana, medico legale, (interpretata da Giovanna Mezzogiorno) che, innamoratasi di Andrea (Alessandro Borghi) dopo averlo conosciuto ad un evento mondano, trascorre una notte di passione in sua compagnia. Quando il giorno dopo lui verrà ritrovato morto, la dottoressa inizierà ad indagare sull’omicidio, ma soprattutto su di sé e sul suo passato.
Sofisticato e mai scontato, “Napoli Velata “è un prodotto cinematografico intessuto su cromatismi, musiche e inquadrature forti ed incisive; una vera e propria perla rara da degustare e osservare con astratta intelligenza consapevole. Il titolo è conciso, secco e riesce a confezionare l’essenza del film in due parole: “Napoli”: una città; “Velata” : un modo di essere, di interpretare, che sottende la necessità di acuire, tra tutti i sensi, quello della vista.
Lo sfondo della vicenda è la Napoli dei giorni nostri, una Napoli moderna e vibrante, palpitante di tradizione e folklore in cui affiorano ancora le reminiscenze Borboniche che l’hanno nobilitata con palazzi antichi e famiglie altolocate.
Nella città per antonomasia del “Sole mio” e delle terrazze con il Vesuvio “in fronte” si allungano però ombre che come dita si insinuano tra i vicoli della città e le anime dei personaggi, inquinandone, come un morbo, gli intenti e la purezza.
La pellicola si apre infatti con una contaminazione estrema: l’anima candida di una bambina assiste ad un omicidio, il più infimo gesto che un essere umano possa compiere. due sono le inquadrature della macchina da presa emblematiche in questa prima scena: una, dall’alto, che mostra una scalinata di un palazzo concepita alla Escher, tutta prospettiva e continuità, la quale presagisce il vortice senza via d’uscita in cui si troveranno risucchiati i personaggi della vicenda.
L’altra, un primo piano dell’occhio della bambina, testimone del cruento gesto, che può essere considerato il filtro necessario attraverso cui guardare il susseguirsi di tutte le vicende successive.
La Napoli raccontata in questo film è una città che non fa solo da sfondo alla pellicola, ma vive con essa e per essa.
È essa stessa una personalità che emerge con carattere: il suo sangue, denso di classicismo e tradizioni popolari, impregna le mura delle abitazioni, le parole della gente, scandisce il tempo della storia e del racconto e diluisce i rapporti tra i personaggi.
Illuminata da una luce a volte calda e abbacinante, altre volte fredda e agghiacciante, quest’inedita urbanità partenopea apre le porte a una destabilizzazione emotiva e insicura.
La figura umana vi vaga disorientata e i fatti che vi si narrano non possono che implodervi perché questa città viva è un microcosmo di cristallo a cui non possiamo che accedervi da osservatori lontani: niente ci viene svelato direttamente, siamo noi stessi chiamati a decodificare allusioni e segreti.
Uno dei temi che emerge con maggior vigore nel film è quello della vista. Questa si può declinare nella forme dell’occhio, dello sguardo, di una lente, ma più figuratamente anche nella capacità di discernimento e di analisi della realtà, che risultano, in questa pellicola, permanentemente alterati.
I due personaggi chiave della vicenda, Adriana e l’ispettore di polizia, sono essi stessi, per la professione che esercitano, osservatori di prima linea: Adriana, anatomopatologo, con fredda e calcolata precisione medica coglie le relazioni causa-effetto scandagliando gli indizi che la Morte dissemina nel corpo della vittima; lui, ispettore, analizzando gli indizi lasciati dalla persona scomparsa nel luogo delitto per risolvere il caso.
Accenni e riferimenti a questo tema sono disseminati in numerose scene: per ben due volte la città è attraversata da un corteo di ciechi; inoltre il portafortuna a forma di occhio che riceve in eredità la protagonista e, che le viene riconsegnato alla fine, sembra essere una sorta di amuleto, un segno di appartenenza e lasciapassare che sancisce la consapevolezza del legame al mondo presente, ma anche un vincolo inscindibile a ciò che è stato il suo passato tormentato.
I richiami al Teatro Classico:
il tema della maschera e del “sosia”.
Il tema della vista e dell’osservazione è profondamente interrelato a quello della maschera, non a caso la vicenda della Napoli odierna si apre con una rappresentazione teatrale di uno dei misteri più antichi e affascinanti della storia umana: la nascita.
Maschere fisiche e fittizie vengono continuamente indossate e scambiate dai personaggi confondendo e nascondendo il “chi” e il “cosa”. La pellicola è magnificata quindi (includendovi il qui appena citato tema della maschera) da un robusto background che muove direttamente dal teatro classico.
Con Plauto, magister indiscusso della commedia dell’arte nell’Antica Roma della seconda metà del III secolo a.C, viene introdotto anche il tema del “sosia” e il film ne risulta un’esemplificazione calzante: Luca, il gemello di Andrea, la vittima, arriva a esserne il suo doppio distorto sia fisico che psichico alterando e assottigliando il confine tra realtà e finzione, concreto e astratto, agitando le acque della vicenda e chiamando a gettare luce anche su di lui, dal passato inconsistente, ma dal presente ossessivamente pregnante nella vita di Adriana.
La tradizione classica si mescola poi a quella folkloristica e pagana della smorfia napoletana, del gioco delle carte e delle maghe che dispensano rimedi e oracoli quali depositarie di un sapere tramandato e arcano.
Ad accompagnare il profano c’è il sacro: l’inserimento costante di edifici sacri, suore e, nell’ultima scena, della famosa scultura marmorea del “Cristo Velato” conservata nella Cappella di Sansevero, non rappresentano però una stridente contrapposizione anzi, si mescolano ai variopinti elementi tradizionali demarcando il fatto che una netta linea di separazione tra tutte queste multiformi sfere sociali, non c’è.
L’eredità filosofica:
il Velo di Maya e la rappresentazione della Realtà
Quella di Ozpetek è una girandola arabescata di temi e allusioni; intrecci costituiti di tradizioni e cultura. La Napoli raccontataci, infine, è una Napoli voluta “velata”, un aggettivo che rimanda alla concezione del Velo di Maya mutuata dalla filosofia indiana, ma più comunemente nota grazie al pensiero di Schopenauer.
Secondo tale teoria il “fenomeno materiale” viene definito solo parvenza e illusione: tra noi e la vera realtà infatti si frappone uno schermo che ce la presenta distorta, e non come essa è veramente.
Occorre “lacerare” dunque il velo di Maya con lo strumento della Ragione per arrivare all’essenza ultima delle cose. Gli strumenti per raggiungere questo scopo il regista li dissemina nel film come indizi: siamo chiamati a partecipare e sviscerare i fatti per toccare l’essenza più profonda del significato della vicenda; un significato che, però, potrebbe anche non esserci perché l’Umanità rappresentata arriva a essere campionario di qualsiasi Umanità, con sogni, paure, insicurezze, invidie e ambigui giochi di interessi personali.
Un’Umanità che per la sua complessità caleidoscopica andrebbe apprezzata in purezza, senza sillogismi e esemplificazioni, proprio perché non può essere fino in fondo, razionalmente svelata.