COCO: i colori del Messico in versione Disney Pixar

COCO

In Italia è uscito il 28 dicembre, a vacanze di Natale già cominciate e ad una settimana dall’uscita de Il toro Ferdinando della Blue Sky, a conferma che le atmosfere ispaniche siano il trend del momento nei film d’animazione.

Qui a Parigi Coco è uscito un mese prima, e continua a resistere nei cinema, prova evidente del suo successo.

Il protagonista apparente è un ragazzino, Miguel, il cui sogno di diventare musicista è aspramente osteggiato dall’intera famiglia.

Il protagonista apparente è un ragazzino, Miguel, il cui sogno di diventare musicista è aspramente osteggiato dall’intera famiglia. La sua trisavola, infatti, era stata lasciata dal marito che aveva scelto di seguire la sua passione invece che rimanere con moglie e figlia. La moglie abbandonata aveva sfoderato notevole spirito imprenditoriale e dimostrato di avere forte senso pratico, creando una piccola impresa di scarpe e bandendo con rabbia, anche per le generazioni future, la musica in ogni sua possibile forma.

Esempio di donna dal piglio risoluto e dal fare alquanto imperioso, in linea con le ultime eroine self-rescuingstyle sfornate a ripetizione da Rapunzel in poi, la trisavola Imelda e, in seguito, le sue discendenti vietano a tal punto la musica in casa che Miguel è costretto a nascondere album e canzoni e a fabbricarsi da solo una chitarra.

Quando, scoprendo il rifugio segreto dove il ragazzino idolatrava il cantante ed idolo delle folle Ernesto de la Cruz, la nonna distrugge in preda all’ira la chitarra di Miguel, lui si decide a “prendere in prestito” quella dello stesso de la Cruz, appesa come cimelio nella sua tomba. Il tutto, manco a dirlo, capita il giorno della festa dei Morti, in cui il confine tra il loro mondo e quello dei Vivi è più labile (anni di feste di Halloween e film di Burton ci hanno ampiamente edotto in merito).

 

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Ed infatti basta una schitarrata degna di un metallaro e Miguel si ritrova magicamente a poter attraversare il ponte sospeso tra i due mondi ed entrare nel coloratissimo universo dell’Aldilà. Varie vicissitudini lo porteranno a ricongiungersi con il resto della famiglia (defunta), tra cui la sempre temibile, pur in versione scheletro dipinto, capofamiglia Imelda. Riuscirà rocambolescamente a svelare un segreto di famiglia, ritrovare De la Cruz, smascherare un assassino e riunire nel gran finale un padre alla sua figlioletta mai dimenticata.

Ulteriori dettagli risulterebbero un’eccessiva spoilerata, quindi eviterò.

 

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I lati positivi del film: a livello visivo, la magnificenza dell’universo ipercolorato del mondo dei Morti, che rispecchia pienamente e rilancia con tutto la potenza immaginifica Disney quell’amalgama intenso di colori sgargianti con cui siamo soliti raffigurarci Messico e dintorni; la moltitudine di personaggi, una vera e propria folla che contribuisce a ricreare l’atmosfera ricca e calorosa tipicamente ispanica; la possibilità di affrontare in modo quasi gioioso un tema difficile e (troppo) spesso trascurato come quello della morte con i propri bimbi dopo averlo visto; le lacrime, copiose ed immancabili, durante il finale.

 

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I lati negativi: se vi era capitato di vedere in precedenza The book of life (in italiano, La leggenda di Manolo, J. R. Gutierrez, 2014, 20th Century Fox) non potrete fare a meno – almeno per la prima mezzora – di fare paragoni, giocando dapprima a trova le differenze, chiedendovi che problema hanno in Messico con la musica (visto che anche a Manolo veniva impedito di seguire la sua vocazione di musicista) ed infine dimenticandovene, visto che le due trame sono in effetti del tutto differenti. È comune solo l’ambientazione.

A proposito, appunto, di trama, qualche colpo di scena un po’ scontato e qualche motivazione un po’ tirata per i capelli (al punto da suscitare domande di spiegazione anche da parte dei bimbi, a film concluso) col consueto happy ending strappalacrime (munirsi di kleenex e mascara waterproof se si è animi sufficientemente sensibili)

Ultimo tasto dolente, le canzoni, ben lungi dal “Let it go” epocale di Frozen, tant’è vero che sono subito dimenticate: in un film in cui riappropriarsi della possibilità di far musica è comunque un tema dominante, potevano forse essere più attentamente selezionate.

 

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Bilancio totale: ai bambini è piaciuto molto (ma va detto che non hanno ancora sviluppato un granché di capacità critica, a 7 e 9 anni, e tendono ad apprezzare quasi qualsiasi cosa si muova su uno schermo, piccolo o grande che sia); ai grandi, un po’ meno, pur se (o forse per questa ragione) sono usciti dal cinema singhiozzando.

A favore di Coco, il più burbero dei due (vi dò un aiutino, eravamo presenti io e il mio compagno, e il più “burbero” non sono io) non ha pronunciato la fatidica frase “era meglio se aspettavamo di vederlo a casa” una volta fuori dal cinema.

Praticamente, a conti fatti, un successone. Può valere un pomeriggio festivo, in particolare se il tempo è uggioso (l’ho scritto solo per poter usare l’aggettivo, senza dover necessariamente citare Battisti).

 

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