Chi l’ha detto che un regista horror come Tobe Hooper e un personaggio sanguinario come Leatherface siano capaci solo di “fare cadaveri e non fare arte”, per citare il recente tormentone di Orfani?
Prendiamo gli ultimi secondi di Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta, immagine in testa). Un capolavoro contemporaneo, con i fotogrammi finali da stampare e appendere in camera.
In un cielo rosso come quello dell’Urlo di Edvard Munch, in un ribaltamento inquietante rispetto al “buon” veterano davanti ai campi di Winslow Homer, canalizzando al massimo la potente inquietudine del rurale “mondo di Cristina” dipinto da Andrew Newell Wyeth, l’America degli anni Settanta di Hooper è quella di uno psicopatico mentalmente ritardato che volteggia con una motosega attendendo la prossima vittima.
Perché Texas Chainsaw Massacre è stato un film in grado di condizionare la nostra visione di un ambiente, quello dell’America profonda e rurale.
In grado, sì, di stravolgere le regole dell’orrore e trasferire tutto, più che mai, sotto i raggi del sole.
Un “filmetto”, dicevano alcuni… e così ci piaceva chiamarlo da ragazzini nerd horror-addicted, con uno dei finali più poetici e destabilizzanti della storia.
Poesia. Come altro definire una fuga incerta, una storia che rimane aperta verso un futuro fatto di carne a pezzi e sangue a fiumi, la musica di una motosega impazzita, la (s)coordinazione di un ballo, demente, ma pur sempre danza macabra di morte?
Nient’altro che poesia.
Hooper lo sapeva bene, tanto che non ha neppure provato a replicare o copiare quello che immediatamente si trasformò in una pietra miliare per i teorici dell’horror.
E noi lo si ama, non importa che non sia mai riuscito a ripetersi artisticamente a questi livelli.
Tobe, ci hai lasciato a 74 anni ma sarai con noi amanti dell’orrore nei secoli dei secoli.
Non è solo un film!
Non è solo un film!
Non è solo un film!
…è realmente accaduto.
Circa 25 anni prima di The Blair Witch Project, il film che avrebbe dato il “la” all’invasione delle pellicole found-footage, ovvero dove si finge che quello che stiamo vedendo siano filmati girati dai malcapitati personaggi e ritrovati chissà come, Non Aprite quella Porta si giocava la carta della “storia vera”.
Tutto inizia da un texano purosangue, professore in un college, con velleità da documentarista.
Quel tipo si chiama(va) Tobe Hooper e girò tutto in strema economia di mezzi e personale, sfruttando i colleghi professori e gli studenti.
Il risultato è ancora oggi strabiliante.
Marcio, malsano, verosimile, “dogmatico” ben prima del movimento di Lars Von Trier, capace di risucchiarti nell’America rurale più sconosciuta e sventurata, l’inimitabile Texas Chainsaw Massacre ha un comparto visivo perfettamente “raw”, duro e crudo, eppure una regia solida, millimetrica, implacabile.
Nella scelta di mettere in scena dei fenomeni da baraccone menomati e dementi, alcuni immobilizzati, altri deformi, altri nerboruti, Hooper attinge alle paure più recondite dell’uomo: il vedersi annientato da una versione distorta e inferiore di se stesso.
Qualcosa che non si riconosce come “pari”, ma che esiste ed è capace di riportare l’orologio dell’evoluzione clamorosamente indietro di secoli e vivere felice in una pozza dei suoi stessi escrementi.
Leatherface che si esprime a grugniti, capisce a malapena le parole che gli vengono rivolte, non ha un obiettivo diabolico o un potere speciale.
Ti insegue, ti acchiappa e ti fa a pezzi (con o senza attaccarti prima ad un gancio sul soffitto come un quarto di bue). Basta, stop.
Netto, essenziale, archetipico, impossibile da ridurre a spiegazioni (ir)razionali: sta lì, è un forza bruta della natura più crudele, non ha motivazioni, non ha la possibilità di farti lo spiegone che ti permette di fuggire, non dà un senso alla tua morte.
Per questo, ancora oggi, è un assassino che assieme a Michael Myers (Halloween) rimane insuperabile.
E insuperato.
Ispirarsi a uno per crearne cento
Certo, Leatherface non era frutto di un’ispirazione geniale.
Che poi sia risultato essere uno dei più grandi maniaci e torturatori della storia della settima arte, è un altro paio di maniche.
Il “materiale sorgente” del macellatore mascherato era nientemeno che il famigerato Ed Gein, il serial killer degli anni ’50 la cui sinistra ombra si è estesa su tutto il ventesimo secolo.
La sua storia è stata raccontata dei dettagli in uno degli articoli della rubrica “Bagno di Sangue” qui su LN, quindi a quello vi rimando per i dettagli completi
Basti sapere che l’efferato assassino che custodiva pezzi di persone come trofei ha impattato sulla cultura popolare e sulle menti più o meno malate degli artisti in un modo talmente radicale che può essere paragonato solo a Napoleone Bonaparte.
Ogni volta che vedete un pazzo che uccide gente e conserva/indossa pezzi di carne umana morta, sappiate che dietro c’è la figura di Gein.
Che ancora oggi, clamorosamente, è legato a soli due omicidi pur essendo stato trovato in possesso di centinaia di pezzi di corpi umani in casa, come soprammobili o completi d’arredo. Certo, non è esclusa la profanazione di tombe con annessa necrofilia.
Dopo Norman Bates (Psycho) e prima di Buffalo Bill (Il Silenzio degli Innocenti), si impone quindi il “nostro” gigantesco ritardato dal gancio e dal martello facile, per non parlare del gusto con il quale maneggia la motosega.
Ed Gein ha legittimato l’orrore più puro, calato nella vita reale.
Ha sollevato il velo sul “tranquillo vicino” che tra un raccolto e l’altro nella sua fattoria squarta inconsapevoli malcapitati.
È stato lo spaventoso precursore dei processi mediatico/morbosi – sebbene lui, un vero processo, non l’abbia mai avuto – che avremmo visto negli anni a venire con Ted Bundy, Jeffrey Dhamer, John Wayne Gacy (qualcuno ha detto IT?) e via rabbrividendo.
Tu chiamale se vuoi,
mut(il)azioni
Ed eccoci dunque arrivare al nuovo volto (ahahah) di Leatherface, nel film omonimo che eleva l’implacabile splatteratore a protagonista assoluto della pellicola.
Con il cartello “Dal Maestro Tobe Hooper” si introduce il racconto delle origini del nostro amato pazzo mascherato, scritto da Seth M. Sherwood (Fruit Cake) e diretto dalla coppia francese Julien Maury e Alexandre Bustillo, autori di uno degli ancora insuperati capolavori dello splatter anni 2000, Inside (À l’intérieur).
Stavolta si parte da lontano e si rappresenta il personaggio non come minorato mentale, ma come giovane che precipiterà in un romanzo di (de)formazione talmente efferato e segnante da trasformarlo nel mostro che tutti conosciamo.
Una scelta non scontata, anche se forse l’unica possibile per incuriosire un pubblico che si vorrebbe non soltanto fatto di ragazzini sovraeccitati ma anche di vecchi e hardcore fan della saga affamati di nuovi punti di vista e dettagli sulla storia del maniaco omicida.
Una sorta di “legittimazione” per un’operazione che già diverse volte ha lasciato perplessi (vedi il remake di Marcus Nispel) ma che stavolta si annuncia piuttosto fedele nello spirito e ghiotta visti i talenti in gioco e la voglia di rilanciare il franchise nel nuovo millennio.