Il 25 Agosto arriva su Netflix il live action statunitense diretto da Adam Wingard tratto da Death Note, il famoso manga scritto da Tsugumi Ora e disegnato da Takeshi Obata. Non poche sono state le polemiche legate a questo titolo, soprattutto per quanto riguarda l’occidentalizzazione della storia. Ma, alla fine dei conti, come si sarà comportata questa prima versione occidentale di Death Note?
Fenomeno dei primi anni duemila, Death Note è stato, ed è tutt’ora, uno dei manga/anime più letto ed apprezzato in assoluto. Una storia particolare e atipica che si fonda sulla tradizione, ma al tempo stesso riflette su delle tematiche interessanti come la giustizia e la fede.
Facendo un ripassino veloce, la storia si sviluppa attorno al giovane Light Yagami, un brillante studente giapponese che, quasi per caso, entra in possesso di uno strano quaderno dalla copertina nera e con le prime pagine ricoperte di strane regole, il Death Note.
Il Death Note ha il potere di uccidere chiunque semplicemente scrivendo il suo nome sulle sue pagine.
Ciò che per Light nasce come un interessante e inquietante esperimento presto diventerà una vera valvola di sfogo per il ragazzo, che si auto-eleva a divinità suprema della giustizia: Kira.
Ad alimentare Light, la sua foga e i suoi intricati giochetti, c’è Ryuk, uno Shinigami , ovvero un dio della morte, creatore del Death Note e amante delle mele oltre che delle imprevedibili, o quasi, mosse dell’attuale proprietario.
Ma non passa molto tempo prima che il mito di Kira, divinizzato dalla società e dai media, inizi a far suscitare i primi dubbi: quanto lecità è davvero la “divina giustizia” di Kira?
Questa la trama base di Death Note che principalmente si sviluppa attorno alla fitta rete tessuta da Light all’interno della quale resteranno intrappolati l’ingenua Misa e lo stravagante giovane detective L. In particolare, tra Light ed L, si svilupperà un gioco senza fine, fatto di colpi di scena, ragionamenti interessanti e tematiche attuali, tra etica e morale.
Dopo una serie di pellicole orientali è il turno anche degli occidentali di fare la propria versione di Death Note. Ma quello che a un primo occhio può sembrare una rappresentazione in chiave occidentale di un manga, cercando di mantenere vivo lo spirito orientale della storia, successivamente si rivela essere un teen movie dalle sfumature “thriller” che del vero Death Note ha giusto il nome.
Sicuramente il problema più grosso della pellicola di Wingard non è assolutamente l’occidentalizzazione del manga che, se ragionata, avrebbe potuto avere anche delle sfumature interessanti, ma lo stravolgimento senza senso della storia.
Una nuova trama che conserva ben poco di quella precedente, snaturando totalmente gli elementi fondamentali e le tematiche sulle quali si fonda il manga. Certo, una trasposizione non deve per forza essere originale in ogni sua sfumatura e, infatti, in Death Note non è la mancanza di fedeltà alla storia ad essere il principale problema, ma la mancanza di logica di questa nuova storia che, alla fine della giostra, non si capisce cosa voglia davvero essere.
Tralasciando l’affetto e il legame che può esserci tra uno spettatore/lettore per una storia, nel caso di Death Note non si tratta di fare un atto di fede e mettere da parte i pregiudizi.
Tra tutti i dubbi sollevati nei confronti di questo titolo, nessuno è davvero importante. Non si parla della riuscita di una trasposizione, ma proprio della riuscita di un film, a cominciare dai suoi giovani attori talmente tanto sopra le righe da sembrare finti.
Insopportabile Nat Wolff, interprete di Light Turner. Non solo dall’interpretazione di Wolff si potrebbe evincere che, forse, l’attore non ha minimamente letto o visto la storia, ma non si sforza nemmeno di rappresentare, almeno in minima parte, le caratteristiche, i sentimenti e gli atteggiamenti che definiscono Light e il suo modo di agire.
Sul finale possiamo scorgere un minimo di legame nei confronti del protagonista del manga, ma fino a quel momento il Light di Nat Wolff non è altro che un adolescente annoiato, più di una volta incapace di prendere la situazione in mano dimostrandosi un vero e proprio codardo. (Le sue terrificanti urla isteriche non usciranno più dalla vostra testa).
Inoltre la recitazione di Wolff risulta essere scialba, poco motivata e con uno slang talmente tanto accentuato da sembrare quasi che ogni parola, più che recitata, sia biascicata.
Continuando sulla recitazione, è possibile spezzare una mezza lancia a favore di Margaret Qualley, interprete di Misa (nella versione americana diventata Mia), che ha sicuramente il merito di aver dato un senso maggiore, e più dignitoso, a questo personaggio. Eppure gli errori di eccessiva enfasi di Wolff si possono riscontrare anche nella Qualley.
Ogni movimento, frase o azione non è mai credibile. Costantemente eccessiva e guidata da un caos senza ragione logica. Mia e Light diventano complici del gioco del Death Note, riscattandosi prima dalle ingiustizie subite tra i banchi di scuola e poi eleggendosi a loro volta a paladini della giustizia.
Ma quello che per il Light Yagami era una questione che col tempo era andata ben oltre il semplice gioco, per Mia e Light Turner diventa quasi un perverso ed eccitante gioco di coppia dove l’introduzione del nome Kira con il suo significato stona più che mai, diventando semplicemente un post-it dalla colla asciutta.
Migliore l’interpretazione (del resto non era troppo difficile) nel personaggio di L, interpretato da Keith Stanfield, attore afroamericano che, a differenza di Nat Wolff, ha sicuramente studiato, almeno un minimo, la parte. Sicuramente non un L eccellente e anche nel suo caso c’è qualche eccesso di enfasi, ma nel complesso recitativo (e non solo) il male minore dell’intero film.
Per finire c’è Ryuk, lo shinigami realizzato in computer grafica doppiato da Willem Dafoe. La tecnologia degli ultimi anni, con la motion capture e la ricostruzione in CGI ha fatto passi da gigante, consentendo agli attori di elevarsi ad un gradino superiore dell’interpretazione.
Purtroppo non è questo il caso per Willem Dafoe, costretto a doppiare un personaggio dal character design imbarazzate. Un continuo mascheramento con le ombre per non mostrare del tutto la fisicità del personaggio. Un volto realizzato malissimo, in bilico tra il dover far paura e il far ridere. Una pessima scelta nel tipo di animazione, anni luce indietro rispetto a quella dei film e anime orientali. Sicuramente Ryuk è tra gli aspetti meno riusciti, e più insopportabili, della pellicola, ad eccezion fatta del suo doppiatore che entra perfettamente nello spirito del personaggio originale.
Nelle scelte di Wingard sicuramente non tutto è da buttare. All’inizio del racconto si cerca di dare una dimensione concreta e attuale del mondo adolescenziale, facendo riferimento alle problematiche come il bullismo, particolarmente affrontato dalla stessa Netflix e dalla cinematografia nel generale.
E, forse, dando un respiro più ampio a delle nuove tematiche, utilizzando nuovi personaggi e creando una storia ex-novo, Wingard avrebbe avuto il suo Death Note semplice e giusto.
Death Note risulta, complessivamente, una bozza. Un ibrido. Una partita che Wingard ha solo iniziato a giocare senza arrivare mai realmente a una conclusione.
Un film che si sabota da solo fin dall’inizio, castrandosi nelle scelte originali e incapace di affrontare gli argomenti più profondi trattati da Tsugumi Ora.
Una sorta di Final Destination, dal marcato stile da teen movie, ma incapace di trovare una propria dimensione, finendo col diventare ridicolo e poco credibile.
Probabilmente adottando un vero distacco dalla storia originale, mantenendo solo il Death Note come punto di unione e creando una sorta di spin-off, il risultato sarebbe stato molto più soddisfacente, dando agli sceneggiatori, regista e anche attori modo di lavorare meglio e con meno paletti.
Un’occasione sprecata o, forse, l’ennesima prova che, a volte, sarebbe meglio seguire le proprie idee ed evitare di cimentarsi in progetti dal passato importante.
Death Note è disponibile dal 25 agosto su Netflix.